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Allontanarsi dall’Europa è costoso e rischioso.

L’Unione Europea, e al suo interno l’Eurozona, ha molti difetti e dovrebbe migliorare su tanti versanti per prevenire e affrontare numerosi elementi di instabilità sociale e di incertezza che, a dieci anni dalla Grande Recessione, la affliggono e la mettono in difficoltà. Alla prova dei fatti però resta l’opzione migliore a fronte di ogni ipotetica alternativa. Allontanarsene è costoso e rischioso.

Tsipras

Il primo a capirlo è stato Tsipras quando, all’apice della crisi del debito sovrano della Grecia, fra i due scenari – quello di un’uscita disordinata dall’Euro con ripudio del debito e quello di una ristrutturazione del debito in accordo con l’Europa – scelse il secondo (e cambiò ministro delle finanze sostituendo Varoufakis).

Oggi l’80 per cento del debito greco è in mano a istituzioni pubbliche europee (ESM, ESFS, ECB), è stato prolungato su scadenze a lungo e lunghissimo termine, paga interessi dell’uno per cento in media. L’alternativa sarebbe stata il fallimento dell’intero sistema bancario nazionale, l’azzeramento dei depositi bancari, il collasso del sistema dei pagamenti.

I critici lamentano che il debito non sia stato cancellato, ma la ristrutturazione equivale a una parziale cancellazione e il contributo fornito dai paesi europei per l’operazione è di circa 260 miliardi di euro. Ci sono stati nella storia esempi di ristrutturazione dei debiti sovrani più vantaggiosi per i debitori, per esempio il piano Brady per il debito messicano alla fine degli anni ’80 del passato secolo. Il Fondo Monetario Internazionale non ha nascosto la sua preferenza per una soluzione del tipo “Brady”, e quindi una critica all’Europa. In ogni caso, per ciò che riguarda il breve termine la soluzione europea è forse più ipocrita ma simile nel risultato, perché il debito posseduto dalle istituzioni finanziarie pubbliche europee è sostanzialmente sterilizzato.

Al di là di questioni profonde di tipo culturale, ideologico e perfino religioso (nei paesi del nord Europa il debitore è considerato più o meno come un peccatore), la critica che si può fare all’Europa nel caso greco è il ritardo con cui si è arrivati al piano di salvataggio: partendo due anni prima i costi sarebbero stati inferiori per tutti, sia i costi sociali per la Grecia sia quelli finanziari a carico dell’Europa.

May

Alla stessa conclusione è arrivato il governo brexiteer di Theresa May. Il Regno Unito, dopo essere cresciuto fra 1995 e 2016 più dell’Unione Europea, più dell’Eurozona, più della Germania, ha invertito la rotta dopo il referendum del 23 giugno 2016 e la sua crescita è andata sotto quella europea negli ultimi due anni. Tutti gli studi prevedono impatti economici negativi in seguito al recesso dall’UE.

Paradossalmente le analisi che arrivano alle conclusioni più negative sono quelle ufficiali, prodotte dal Tesoro britannico e dalla Bank of England, tanto che Philip Hammond, ministro dell’economia del governo May, ha dichiarato che “sul piano economico, qualunque sia l’accordo concluso con Bruxelles, il Regno Unito subirà delle perdite. La Brexit non è dunque una scelta economica, ma una scelta politica”.

La conseguenza è che la bozza di accordo di recesso resa nota lo scorso 14 novembre, oggi al centro dello scontro politico al di là della Manica, prospetta la creazione di un’area doganale comune fra UE e UK. Questo significa zero quote e zero tariffe per il commercio di beni e, quindi, regolazione uniforme di tutto ciò che influenza la competizione fra imprese: politiche industriali e della concorrenza, regole tributarie, standard sociali, ambientali, tecnici e molto altro ancora, compresa la giurisdizione di ultima istanza della Corte Europea sulle norme di fonte comunitaria.

Una soluzione, insomma, molto soft, che ha suscitato nel Regno Unito la duplice opposizione, per motivi contrapposti, degli hard brexiteer (che la considerano un tradimento allo spirito del referendum) e degli europeisti (che la considerano la prova che è meglio restare nell’UE).

Di Maio e Salvini (?)

Sembra che anche il governo gialloverde abbia cominciato a capire che lo scontro con l’Europa non paga. Meglio tardi che mai, e comunque vedremo come andrà davvero a finire.

Il primo costo, già all’opera da molti mesi, è l’aumento dei tassi d’interesse, che colpisce tutti: lo Stato per l’aumento delle spese per interessi sul debito pubblico; le famiglie per l’aumento del costo dei mutui e dei prestiti personali; le imprese per l’aumento dei costi di finanziamento. La constituency delle imprese sta pressando Salvini, che dovrebbe essere sensibile agli umori lombardo-veneti. Speriamo nell’efficacia del pressing.

Il secondo costo deriva dalle potenziali conseguenze di una procedura d’infrazione sui finanziamenti europei che arrivano in Italia. L’Italia è contributrice netta dell’Unione (per 2,3 miliardi l’anno) ma è anche la principale beneficiaria, dopo Polonia e insieme a Spagna, della spesa comunitaria, di cui intercetta 11,6 miliardi l’anno (il Regno Unito solo 7: è stato uno degli argomenti pro Brexit). Voce principale sono i fondi strutturali per sviluppo e coesione.

La procedura d’infrazione mette a rischio questi finanziamenti, creando due forti contraddizioni rispetto alle politiche annunciate dal governo per il sud e per il mercato del lavoro. Il reddito di cittadinanza beneficerà soprattutto il Sud, ma sarebbe una beffa se a pagarlo dovesse essere lo stesso Sud con un minore flusso di fondi europei. Inoltre, qualsiasi cosa sarà il reddito di cittadinanza (io spero che diventerà alla fine della giostra un ampliamento dei regimi esistenti di reddito di inclusione sociale, introdotti nella passata legislatura dal centrosinistra) avrà bisogno di un rafforzamento delle politiche per la formazione professionale e per la facilitazione dell’incontro fra domanda e offerta di lavoro.

Si tratta di politiche che dipendono, in questo caso in tutto il paese e non soltanto nel Sud, dalle risorse di uno dei fondi strutturali, il fondo sociale. Di nuovo: sarebbe irragionevole programmare la spesa di qualche miliardo in più per sussidi al costo di perderne altrettanti per il finanziamento delle azioni e delle strutture (centri per l’impiego, eccetera) che servono a far funzionare i sussidi.

C’è infine un terzo costo. È il più nascosto ma forse è quello più rilevante. Ha a che fare con la reputazione del paese, con la sua credibilità. Con la consapevolezza delle sue fragilità e con il riconoscimento dell’aiuto che l’Europa sta già fornendo e potrebbe fornire in futuro alla stabilità dell’Italia. Circa 430 miliardi di debito pubblico italiano sono oggi nei bilanci del sistema europeo delle Banche Centrali e sono di fatto sterilizzati.

Non sono stati ristrutturati come quelli greci né tanto meno cancellati, ma la BCE ha annunciato che in futuro, mentre il programma di acquisto di titoli pubblici verrà ridotto, i vecchi titoli già acquistati non verranno rimessi sul mercato e il loro volume verrà mantenuto, con acquisti di nuovi titoli per ammontare pari a quelli che vanno in scadenza.

Pensiamo per un attimo di quanto in più sarebbe salito lo spread in questi ultimi mesi in assenza di un simile paracadute. Di quanto potrebbe aumentare la nostra instabilità finanziaria in assenza della rete di protezione europea. È questa, alla fine, la consapevolezza che ha condotto Tsipras a restare con l’Europa, a evitare scontri distruttivi. In Europa si deve, ovviamente, contrattare e talvolta litigare, si può anche proporre e costruire, si deve comunque essere credibili e consapevoli.

Anche per l’Italia allontanarsi dall’Europa è costoso e rischioso. Aspettiamo i prossimi giorni per capire se la merce della ragionevolezza e quella della responsabilità abbiano ancora qualche valore per la strana coalizione che governa l’Italia.

 

*Professore di Economia industriale e di Economia applicata presso l’Università degli Studi di Roma Tre 

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