Vi sono tante ragioni, tutte da tempo molto evidenti, per ritenere opportuna una profonda riforma del nostro sistema fiscale e in particolare dell’Irpef. Sono ragioni nazionali, tipiche della storia e della logica del nostro sistema tributario, ma anche esterne, legate alle trasformazioni dei mercati mondiali e alla diffusione dell’economia digitale. Ed è un peccato che non siano state perseguite, come invece annunciato nella legge di bilancio.
I limiti concettuali dell’Irpef, in termini di logica tributaria e di aderenza alla realtà economica, sono da decenni assai evidenti. Essa infatti è un’imposta che è nata già “vecchia” e che fin dall’inizio, per varie ragioni note, presenta numerose eccezioni al criterio della progressività e contempla diverse forme di tassazione cedolari. Per queste ragioni è ora di riconoscere che l’Irpef è un’imposta progressiva essenzialmente solo sui redditi da lavoro dipendente e da pensione. Gli altri tipi di redditi sono sempre riusciti a godere di fatto di forme di tassazione proporzionali. E questo ragionamento senza considerare la diffusa ed elevata economia sommersa, che produce (come stimato dalla Commissione ufficiale sull’evasione del Mef) un’evasione fiscale nel nostro paese molto elevata superiore a 100 miliardi di euro. Perciò un’Irpef con un numero di aliquote minori e più ridotte in percentuale, adeguatamente collocata all’interno di una riforma del sistema tributario complessivo non è detto che riduca comunque irrimediabilmente la progressività del sistema tributario (relativa a tutti i redditi) – soprattutto se la si associa a una tassazione adeguata delle altre basi imponibili e a una revisione ampia dei regimi di tax expenditures.
È ovvio che lo stato preferibile sarebbe quello di una significativa progressività dell’Irpef su tutti i redditi, non solo su quelli da lavoro dipendente e da pensione, che realizzi un’azione redistributiva importante e aumenti il grado di equità del sistema tributario. Questa progressività, per vari vincoli amministrativi e per l’evoluzione delle basi imponibili, è adesso, con la completa liberalizzazione dei capitali, la diffusione di strumenti finanziari complessi e l’avvento dell’economia digitale, di fatto complessa e forse irrealizzabile. L’aumento delle aliquote finirebbe per aumentare il carico sui redditi da lavoro dipendente, quindi proprio l’opposto di quello che si vuole ed è necessario.
La pressione sui redditi da lavoro va ridotta, come il cuneo fiscale e il peso dei contributi, anche usando la tassazione dei consumi se necessario, come hanno fatto molti paesi dell’Est Europa e i nostri principali competitor, per stimolare la crescita economica e gli incentivi. Purtroppo la riduzione delle aliquote Irpef nella Legge di bilancio è stata realizzata solo per le partite Iva con fatturato inferiore a 65 mila euro, con evidenti rischi di incentivo al sommerso e all’elusione. La riduzione delle imposte e del carico tributario di per sé è un fatto positivo, può incentivare gli investimenti, stimolare il lavoro e la crescita economica. Essa va però realizzata per tutti i contribuenti Irpef, anche per i redditi da lavoro dipendente e da pensione, che restano essenzialmente le uniche figure a pagare le aliquote marginali del 38, 41 e 43 per cento.
I confronti internazionali mettono in evidenza che in Italia il lavoro e le imprese sono troppo tassate rispetto alle altre basi imponibili. Vanno quindi affrontate quelle che per diverse ragioni, legali o illegali, riescono ad evitare l’imposizione o a sopportare aliquote alquanto ridotte. La tassazione in sé, al limite anche proporzionale, ma con aliquote adeguate, di queste basi, sarebbe chiaramente un passo in avanti: ci riferiamo ai patrimoni, ai consumi, alla divere forme di ricchezza, alle nuove basi imponibili digitali, dove per fattori strutturali la progressività, così come l’abbiamo conosciuta a partire dagli anni Settanta, non è di fatto (più) applicabile.
L’attenuamento della progressività dell’Irpef non è quindi una scelta politica; è invece un fenomeno avvenuto già da tempo: sarebbe ora di rendersene conto. Il sistema fiscale nella sua essenza è già largamente cedolare – la misura nella legge di bilancio per le partita Iva va in questa direzione. Se si vogliono tassare le basi imponibili diverse dai redditi da lavoro dipendente si deve far uso di imposte sostanzialmenteflat.
La tendenza alla riduzione della progressività, già chiara negli ultimi decenni, ha avuto negli ultimi anni una brusca accelerazione, con il diffondersi delle piattaforme multisided. Le società del web, data la natura immateriale delle basi imponibili e il ruolo degli intangibles, riescono nei fatti ad aggirare spesso qualsiasi forma di imposizione. Tra poco, larga parte delle basi sarà pienamente digitale con il rischio che possano del tutto scomparire.
Vorremmo tutti, per ovvi motivi di giustizia distributiva, un sistema tributario progressivo ma siamo costretti ad accontentarci di soluzioni di secondo ordine. La Costituzione parla di progressività del sistema tributario nel suo complesso, non solo di quella dell’Irpef. Vanno pensate soluzioni diverse: rivedere i criteri di finanziamento dei servizi pubblici, fino a scelte più forti e innovative come, una differenziazione delle aliquote in base all’età anagrafica o al tipo di lavoro. Le basi imponibili vanno tassate dove si formano e si trovano e nelle condizioni storiche date. Paradossalmente una riduzione oggi del ruolo dell’Irpef potrebbe non danneggiare il grado di progressività del sistema complessivo, ma anzi in teoria aumentarlo. Negarlo significherebbe sostenere che l’Irpef attuale rappresenti un modello di progressività, il che sappiamo non essere vero.
In breve tempo, larga parte delle basi imponibili sarà completamente digitale e quindi sarà già molto se si riuscirà a tassarle con un prelievo proporzionale e sostitutivo. La proposta della Commissione europea per un prelievo sul valore dei ricavi delle transazioni digitali – non più sui profitti – e la diffusione di forme di tassazione delle transazioni con imposte reali, non più personali, può piacere o meno ma è nella logica delle cose. Continuare a mitizzare l’Irpef, assegnandole obiettivi irrealizzabili, così come continuare a caricare sulle spalle del sistema tributario l’intero onere delle politiche redistributive è iniquo e inefficace. Di fronte alla rivoluzione digitale che sta sconvolgendo il modo di produrre, lavorare, consumare, e con esso tutte le basi imponibili, il dibattito non può limitarsi a un ritocco dell’Irpef, ma deve investire la struttura complessiva del sistema tributario. Anzi, dell’intero bilancio pubblico.