La scuola è scomparsa dai radar della politica. Dopo due-tre anni di aspri conflitti intorno alla Buona scuola, il nuovo governo Lega-Cinquestelle l’ha messa in secondo piano. Ha affrontato pochi problemi circoscritti, smontando qua e là alcune cose fatte dal governo precedente, ma non ha messo in cantiere un progetto di riforma, né investimenti significativi. Le priorità sono altre: reddito di cittadinanza, pensioni, immigrazione ecc. Del resto, le divisioni aperte dalla Buona scuola sembrano avere “scottato” chi si occupa di politica scolastica. Sembra quasi che si abbia paura di sollevare lo sguardo, di impostare i problemi da un punto di vista generale, di sistema. Per evitare nuovi conflitti. Così ci stiamo inabissando lentamente. Stiamo perdendo una prospettiva, in un difficile momento di crisi della scuola italiana. Inoltre, questa sorta di rimozione nasconde un altro problema: la necessità di ricostruire una visione dell’istruzione dal basso, cioè non direttamente dall’iniziativa politica, come è successo con le ultime riforme, ma dall’opinione pubblica, da un consenso cresciuto lentamente intorno a un progetto condiviso.
Da una esigenza di questo tipo nasce Condorcet. Dietro questo nome si raccoglie un gruppo di docenti, dirigenti scolastici, genitori, esperti e appassionati di scuola che vuole aprire un dibattito su un progetto ambizioso di riforma della scuola. Meglio: su alcune riforme necessarie alla scuola italiana.
Andiamo per ordine. Prima di tutto, il nome. Condorcet è stato, durante la Rivoluzione francese, l’ispiratore del primo grande progetto di istruzione pubblica e democratica, fondata sull’eguaglianza delle opportunità per tutti. Rappresenta quindi l’idea di una scuola che realizza le precondizioni sociali dell’eguaglianza: “stabilire tra i cittadini una eguaglianza di fatto e rendere reale l’eguaglianza politica riconosciuta dalla legge. Questo deve essere il primo obbiettivo di una istruzione nazionale e, da questo punto di vista, essa è per il potere pubblico un dovere di giustizia” (Condorcet, Rapporto sull’istruzione pubblica, 1792). Questo è ancora il compito della scuola.
La prospettiva politica del nostro progetto si ispira direttamente alla spinta propulsiva dell’idea di eguaglianza nata dalla Rivoluzione francese. Il presupposto è infatti questo: la scuola italiana, in questo momento, sta vivendo una crisi di crescita, determinata dal passaggio definitivo alla scolarizzazione di massa. Questo dato non è percepito a sufficienza. Si tende a pensare che la scolarizzazione di massa sia stata raggiunta, in Italia, già da decenni, e che ne stiamo gestendo le trasformazioni. Non è così. Il passaggio definitivo alla scuola di massa è avvenuto negli anni duemila, non prima. Ancora nel 1991, il tasso di scolarizzazione tra i 14 e i 18 anni era del 68% circa; solo nel 2002 supera il 90%, e oggi siamo intorno al 93% (ultimo dato disponibile, 2015). Ciò spiega le difficoltà e le tensioni della scuola italiana negli ultimi anni: si è trovata ad accogliere ragazze e ragazzi che prima ne restavano fuori. Questo però è avvenuto all’interno di strutture troppo rigide, rimaste ancorate a una modello storico poco inclusivo. Insomma: la scuola italiana è arrivata impreparata alla scolarizzazione di massa, e fa ancora fatica a diventare democratica e inclusiva.
Occorre superare delle rigidità ereditate dal passato, e fare alcune riforme che sono state rimandate per troppo tempo. Condorcet ha individuato quattro riforme “incompiute”, quattro interventi necessari, che più volte nel passato sono stati affrontati, ma non realizzati fino in fondo.
1. La riforma dei cicli e l’abolizione delle bocciature. Nel 1962 è stata introdotta la Scuola media unificata, che ha dato una spinta decisiva alla democratizzazione dell’istruzione perché ha ridotto la selettività del sistema, unificando il percorso di formazione nel primo ciclo. Dopo, si è iniziato a parlare di riformare la scuola media superiore, fin dagli anni settanta: si è parlato di ridurre la forte differenziazione del sistema, di unificare il primo biennio ecc. Tutti questi progetti non hanno portato a niente, se non a un fiorire di sperimentazioni dagli anni ottanta. Nel 2000 è stata tentata finalmente da Berlinguer la riforma dei cicli, già in ritardo, ed è fallita come sappiamo. Le riforme Moratti e Gelmini hanno preservato la struttura fortemente differenziata, a partire dai 14 anni, delle nostre scuole superiori. Invece i problemi più gravi si annidano proprio lì. È tra la scuola media e i primi anni delle superiori che si concentrano i più alti tassi di dispersione. Un primo punto debole è il passaggio dalla scuola primaria a una scuola media ancora spesso concepita come un liceo “in minore”, con troppe discipline e una didattica a volte tradizionale: un salto troppo forte. Ed è ancora più forte quello verso le scuole superiori, rigidamente distinte per indirizzi, fortemente disciplinari, in un periodo in cui il ciclo dell’adolescenza non si è ancora concluso, e dentro l’obbligo scolastico.
La proposta di Condorcet è di rilanciare la riforma dei cicli, con questo schema: un primo ciclo unitario, dai 6 ai 15 o 16 anni, caratterizzato dallo studio degli assi fondamentali (linguistico, storico, scientifico, matematico), con due sottocicli, il primo dedicato ai saperi di base, il secondo all’approfondimento di questi assi disciplinari, senza la dispersione in tante materie. Dopo, un secondo ciclo triennale, con materie in parte opzionali.
Collegata a questa riforma, la proposta di abolire le ripetenze (cioè la ripetizione dell’intero anno in caso di bocciatura), in modo differenziato. Nel primo ciclo, si propone di abolirle totalmente, trasformando in norma l’attuale situazione di fatto. Nel secondo ciclo, proponiamo di abolire le ripetenze dell’anno intero, ma non le bocciature nelle singole materie: gli studenti che, alla fine di un anno, non hanno raggiunto i livelli di apprendimento previsti vengono “bocciati” solo nella singola materia, e ripetono solo quella; se non la vogliono ripetere, possono fare un esame di recupero a settembre. Alla fine del percorso, verranno certificate le competenze effettivamente acquisite.
2. La seconda proposta riguarda il rapporto tra la scuola e il mondo del lavoro. Questo rapporto continua a essere problematico, come mostra la vicenda contrastata dell’alternanza scuola-lavoro. La prima cosa da fare è un rovesciamento di prospettiva: bisogna abbandonare l’idea che, nel percorso di una persona, ci sia prima la formazione e poi il lavoro, in sequenza. La formazione deve essere garantita sempre, e il lavoro non deve essere estraneo alla formazione iniziale, a partire da un certo momento. Va anche combattuto un pregiudizio “di sinistra”: l’idea che preoccuparsi del rapporto con il mercato del lavoro, da parte del sistema di istruzione, significhi piegare questo alle esigenze del mercato. Non è così. Se la scuola, dopo il primo ciclo, non si pone il problema del rapporto con il mondo del lavoro, fa una scelta socialmente iniqua: lascia al suo destino proprio i soggetti più deboli, perché chi si trova in alto nella scala sociale ha abbastanza capitale culturale e sociale per trovare un buon lavoro anche se la scuola non l’ha aiutato. L’obbiettivo deve essere raggiunto con una prospettiva di sistema, non basta parlare solo di alternanza scuola-lavoro. A questa, che va inserita in modo sensato nel triennio del secondo ciclo, vanno affiancati altri elementi strutturali: un sistema di istruzione e formazione professionale robusto e diffuso su tutto il territorio; una istruzione tecnica superiore, di terzo ciclo, che copra la formazione tecnica post-diploma, in una paese in cui ancora, dopo il diploma, o si va all’università o si va a lavorare; un sistema nazionale di istruzione degli adulti che copra i bisogni culturali e formativi di tutta la popolazione in tutte le fasce di età. Quest’ultima è la battaglia più importante: l’arretratezza italiana sull’istruzione degli adulti è il suo peccato più grave.
3. Un terzo terreno di intervento è la professione docente. La qualità degli insegnanti è un fattore determinante per la scuola. Il lavoro di insegnante deve essere frutto di una scelta consapevole, non di “seconde scelte” più o meno riuscite. Serve quindi una formazione in ingresso seria e impegnativa, con concorsi selettivi; ma per affrontare queste selezione, gli aspiranti docenti devono sapere che il loro lavoro avrà un riconoscimento sociale e prospettive di miglioramento e di crescita. Per ottenere questi risultati, si deve introdurre la carriera dei docenti. O meglio le carriere: si devono differenziare diversi livelli di professionalità, legati alle diverse esigenze delle istituzioni scolastiche. L’accesso ai livelli superiori delle carriere docenti (che possono riguardare attività di formazione dei docenti, di coordinamento didattico, di coordinamento e responsabilità organizzative ecc.) avviene volontariamente, sulla base di selezioni di natura concorsuale (per quanto da definire in modo aperto e decentrato), in cui conta il curriculum del docente, oltre al meccanismo di selezione. In questo curriculum dovrebbero trovarsi anche le valutazioni dei singoli docenti, da introdurre in qualche modo.
4. Infine, l’autonomia delle scuole. Quest’anno ricorre il ventesimo anniversario della legge sull’autonomia scolastica, legata sempre alle riforme di Berlinguer. In teoria, le scuole italiane hanno già preso il cammino dell’autonomia. In realtà, le cose vanno in senso inverso. Le scuole continuano a essere bombardate da prescrizioni amministrative maniacali fin nel dettaglio, in ogni ambito della loro vita quotidiana: sicurezza, gestione finanziaria, gestione degli spazi, didattica. Il ministero riesce a trasformare in circolari ossessive qualsiasi legge pensata più o meno a maglie larghe. Tutto questo in un contesto generale in cui alcune aree fondamentali (il personale e gli edifici) sono sottratti per legge all’autonomia delle scuole. Dall’altro lato, la mentalità di molti docenti e dirigenti scolastici è rimasta quella di chi “aspetta la circolare”: anche quando l’autonomia c’è e si può sfruttare, non lo si fa, si aspetta l’indicazione dall’alto, ci si adagia. Una reazione in fondo razionale all’irrazionalità dei vincoli imposti dall’alto. Così l’autonomia scolastica ha prodotto solo i suoi effetti collaterali negativi: una moltiplicazione di “progetti”, che spesso non incidono realmente sulla didattica quotidiana, una superficiale varietà da scuola a scuola, che non avvantaggia i più svantaggiati. Ci vuole invece una vera autonomia gestionale, che liberi i dirigenti da eccessi di responsabilità, in campo civile e penale; che dia loro la possibilità di amministrare liberamente risorse e edifici; che permetta di scegliere e coordinare in modo intelligente il personale, docente e non. Si deve passare insomma da una astratta autonomia scolastica a scuole realmente autonome.
[Il manifesto completo di Condorcet si trova sul sito. Condorcet è un gruppo aperto che si fonda sull’idea di una partecipazione diffusa, a partire dalle scuole e dagli ambienti a noi più vicini. Per questo cerchiamo di allargare la nostra rete raccogliendo adesioni in tutta Italia. Chi vuole aderire può farlo direttamente, sempre dal sito, a questo link. Abbiamo anche una pagina facebook: Condorcet Ripensare la scuola.
*Da rivista Il Mulino 18/02/2019