Ancora in maniera defilata, ma non per questo meno aggressiva, si sta sviluppando una discussione pericolosissima sul futuro dell’assetto istituzionale dello Stato. Riguarda il così detto federalismo rafforzato, il destino del “residuo fiscale”, la qualità dell’autonomia differenziata. Com’è noto, la scorsa legislatura si chiuse con la firma di intese tra il Governo Gentiloni e tre Regioni del Nord: Lombardia, Veneto ed Emilia. Contenevano il riconoscimento della necessità di un ulteriore trasferimento di competenze alle Regioni e di una nebulosa (ma non meno tossica) possibilità di ridefinizione della ripartizione delle risorse economiche tra Stato e Regioni. Qualcosa di più di un vademecum, ma – per fortuna – anche qualcosa di meno di un protocollo vincolante per la legislatura successiva al voto del 4 marzo scorso e che sta venendo al pettine in queste settimane. I “competenti” e i “contendenti” stanno facendo fuoco e fiamme a sostegno delle proprie tesi. Zaia (Presidente del Veneto) scrive ai meridionali per rassicurarli, De Luca (Presidente della Campania) risponde rivolgendosi ai settentrionali, evocando scenari apocalittici. In questo numero ne diamo conto, con gli approfondimenti di Benetti, Petretto e Viesti, perché è bene sentire tutte le campane. Ne va di mezzo, come dicevo, il futuro della “comunità” Italia.
In questo dibattito si danno per scontate due questioni: che le Regioni siano istituzioni indiscutibili e che il loro funzionamento possa soltanto migliorare, accrescendo le responsabilità. Ebbene, penso che sia un approccio pigro, rinunciatario e probabilmente destinato al fallimento. Infatti, il percorso di revisione è accidentato. Non a caso, il Governo non ha ancora detto la sua nel merito ma anche nel metodo. I testi legislativi non sono ancora pronti, circolano bozze, ma ancora nulla di definitivo. Soprattutto è incerto come si procederà e quindi se il Parlamento avrà voce in capitolo sul merito o sarà chiamato a ratificare quanto concordato tra Governo e Governatori. E’ un classico caso di certezza sulla partenza, ma senza sapere né come, né quando si arriverà in fondo alla questione.
In ogni caso, anche ammesso che questa volta sia quella buona, c’è da chiedersi se il gioco vale la candela. Non c’è nel Paese un giudizio consolidato sull’esperienza delle Regioni, da quando sono state istituite. Si è detto che le Province erano un ente inutile, ma sono lì vive, anche se non vegete. L’unica istituzione inossidabile è il Comune che, nella concretezza della vita quotidiana e nell’immaginario collettivo, viene visto come insostituibile. Le elezioni comunali sono relativamente più partecipate che quelle della Provincia o della Regione. Quest’ultima è più assimilata verso l’alto, lo Stato, che equiparata al basso, il Comune. E quanto più è “speciale” tanto più presenta lati scoperti e dolenti.
C’è un immobilismo istituzionale che cozza con il dinamismo degli avvenimenti. L’Europa già sottrae, giustamente, sovranità agli Stati, perché è a quel livello, come dice Draghi, “che si è permesso agli Stati membri di essere sovrani. E’ una sovranità condivisa, preferibile ad una inesistente” (lezione all’Università di Bologna, 22/02/2019). Se anche le Regioni si mettono a sottrare poteri allo Stato, senza aumentarne la sovranità e l’autorevolezza, dove si va a parare? Già ora, è noto a tutti, che la Corte costituzionale è intasata da vertenze sui conflitti di competenza tra Stato e Regioni. Ma oltre le questioni di confine nei ruoli, c’è lo spettro della Catalogna che incombe come un convitato di pietra. Lì il federalismo esasperato annebbia la priorità della solidarietà e della coesione del popolo spagnolo e non è spettacolo simpatico vedere che esse divengano questioni da tribunale, per evitare la secessione.
Né a favore del rafforzamento del federalismo, ci soccorre l’individuazione di una classe dirigente – a partire dalla politica – che brilli meglio e più di quella degli altri livelli istituzionali. Al netto di poche anche se importanti esperienze regionalistiche, basta fare mente locale alle voci “scandali”( vicenda Formigoni), “inefficienze”(spesi soltanto 3 miliardi su 43 di fondi UE e scadono nel 2020), “sprechi”(solo per la Sicilia, sono stati tagliati 380 milioni su 1,2 miliardi del Fondo sociale dal Tribunale di giustizia UE), per non trovare ragioni di maggiore affidabilità nell’istituzione Regione. Non a caso, da esse non sono emerse ancora dirigenze politiche di stampo nazionale, leadership robuste e collaudate di particolare qualità, indipendentemente dagli schieramenti. Ed in tempi di grande dibattito sul rapporto tra élite e popolo, l’innesto di una problematica come quella del federalismo rafforzato non farebbe fare un millimetro di strada nella direzione di un recupero di confidenza tra rappresentati e rappresentanti.
Infine, un’analisi meno acquietante circa il “mestiere” delle Regioni, metterebbe in evidenza quello che sanno tutti. E cioè che nella sanità – il settore tra le competenze delegate, nettamente più importante per risorse allocate e rilievo sociale – l’immagine che risalta maggiormente è quella di Arlecchino. Sembra di avere 20 sanità, quanto le Regioni. Nel tempo, si sono accumulate: troppi criteri ballerini di spesa, tanti squilibri tra pubblico e privato, diverse modalità di fruizione e di compartecipazione dei cittadini al suo finanziamento, modelli inconciliabili di organizzazione delle prestazioni e delle dislocazioni territoriali. Fino a disparità odiose. Un esempio per tutti. Nel corso di un recente convegno svoltosi al Policlinico Umberto I a Roma, è stato documentato che un bambino che nasce nelle Regioni meridionali ha un rischio di morte del 36% più alto rispetto a un bimbo del Nord. Commentando questo dato, il cardinale Ravasi l’ha definito “una sorta di spada di ghiaccio che entra nell’uguaglianza e rompe l’armonia” e il Rettore della Sapienza Gaudio “una disparità che sta facendo a pezzi il nostro Sistema Sanitario Nazionale”.
Un allarme al quale si aggiunge la constatazione che la sanità è uno dei settori a più alta innovazione tecnologica. Rispetto a 30 anni fa gli ospedali e gli ambulatori sono frequentati più da ingegneri e tecnici del mondo digitale ad alta professionalità che da barellieri. Le attrezzature, come le medicine sono sempre più sofisticate e costose. Veramente ci possiamo permettere alla lunga che vi siano ospedali in deficit di modernità tecnologica e la vicina clinica privata efficientissima? Con la conseguenza che l’ammalato rischia di indebitarsi per la vita pur di farsi curare al meglio. Oppure ci stiamo abituando a non rispettare il dettato costituzionale – articoli 117 e 120 – del diritto per tutti di un’assistenza omogenea, per i singoli e su tutto il territorio nazionale?
Per non passare per chi critica tanto da lasciare le cose come stanno, ecco la proposta. Prima di definire un federalismo rafforzato puramente aggiuntivo, prendiamo in considerazione che la sanità ritorni in capo allo Stato. In nome della grande mutazione sociale della popolazione italiana, sempre più vecchia, sempre più in deficit di nascite, ma sempre più attenta al proprio benessere e sempre più da trattare in modo egualitario. Quando si decise il decentramento, lo scenario sociale era differente. Ora la questione sanitaria è più sensibile, ha bisogno di visione complessiva che nessun coordinamento tra Stato e Regioni può assicurare con efficacia sia in fatto di investimenti, sia in merito alla organizzazione del lavoro, sia al migliore utilizzo delle tecnologie adottate. Ha anche un contesto più articolato, perchè si sta diffondendo una sanità integrativa dove le parti sociali svolgono un ruolo di orientamento e controllo, utile anche per una nuova collaborazione tra pubblico e privato sul territorio, per andare incontro alle esigenze delle persone.
Certo, è in gioco anche il potere tra istituzioni e tra le forze politiche. Non va sottovalutato il problema e quindi c’è bisogno di un processo di approfondimento serio. Ma non può essere questa preoccupazione a condizionare o addirittura bloccare una valutazione serena e nello stesso tempo corale sul futuro della sanità nel nostro Paese. Bisognerà, forse, attendere che la questione incancrenisca e come si sta facendo per la TAV, si debba prospettare il ricorso al referendum, per sopperire all’immobilismo politico? Nel frattempo, si continuerà a discutere del dito che indica la luna. Un dito pomposamente chiamato federalismo rafforzato.