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Una mina sotto l’europeismo dell’Italia

Tutti vorrebbero andare in pensione il più presto possibile. Il senso di libertà, che si avverte dal giorno in cui non “devi” andare a lavorare perché il tuo reddito sarà assicurato regolarmente dall’Inps, è di portata colossale. Anche per questo, il desiderio è legittimo. Deve, però, fare i conti con la sostenibilità finanziaria del sistema, con l’invecchiamento della popolazione, con la contrazione strutturale dei contribuenti, con l’allargamento della zona grigia che sovrappone previdenza ed assistenza. Cioè con i grandi cambiamenti che stanno avvenendo nella società post industriale e che allontanano sempre di più la situazione attuale da quella degli albori del welfare di massa, propri degli anni 60 del secolo scorso.

Allora, quando si introdusse la doppia regola pensionistica dei 40 anni contributivi (pensione di anzianità) e dei 60 anni di età individuale (come limite minimo per acquisire la pensione di vecchiaia), la speranza di vita non superava i 70 anni di età, l’entrata al lavoro era sotto i 20 anni, le attività lavorative erano per lo più labour intensive. I conti erano stati tenuti in ordine con relativa facilità, tanto che per alcune categorie – per esempio i coltivatori diretti – vi furono recuperi contributivi detti “figurativi” che diedero l’accesso alla pensione a centinaia di migliaia di piccoli coltivatori. Seguirono generosi pre-pensionamenti nel settore pubblico (i famosi “scivoli”) e anche nel settore privato (i “prepensionamenti”, indispensabili per gestire le crisi senza tensioni sociali, specie nell’industria).

Siamo lontani da quel quadro di riferimento ed infatti la questione previdenziale, da almeno 30 anni, è sottoposta a manutenzioni più o meno pesanti per mantenere in equilibrio la stabilità del suo impianto normativo e della sua gestione finanziaria. Un equilibrismo che ha consolidato un’idea di welfare di stampo europeo. Nei Paesi europei più industrializzati ed evoluti, la previdenza è quota parte importante del loro welfare, si ispira ad un universalismo proprio anche al nostro sistema (obbligatorietà della pensione di base, volontarietà di una pensione complementare), ha subito modifiche indotte dal mutare della struttura produttiva e del lavoro. L’Europa, se ha un marchio che la differenzia dal resto del mondo, è proprio questo: ha un modello di welfare – e in esso, di previdenza – che bada alla dignità della persona, sia che lavori che non lavori, sia se è efficiente che disabile. La globalizzazione ha piallato molte problematiche: sulla distribuzione territoriale della produzione, sulle condizioni di commercializzazione di beni e servizi, finanche sulla dinamica dei salari. Ma non ha omologato in basso i sistemi di welfare. Quello europeo regge l’impatto e ne dovremmo andare orgogliosi, come italiani e come europei.

Almeno fino ad ora.  Il Governo Conte ha proposto, soprattutto per pressione della Lega e con il consenso del M5S, di introdurre, con la nota “quota 100”, un forte scossone alla stabilità del sistema pensionistico. Per di più finanziato a debito, per cui l’incertezza della copertura nei prossimi anni – a pressione fiscale immutata – è molto più che un’opinione. Al punto che la legge di stabilità non la rende strutturale (è catalogata come sperimentazione per 3 anni), ma non per questo perde di pericolosità. Il rischio che si corre è che quel filo di equilibrio che è stato mantenuto con sacrifici e rinunce nel corso degli ultimi 15 anni (vedere il 6° Rapporto di Itinerari Previdenziali 2018) siano compromessi irrimediabilmente. Un equilibrio non solo quantitativo, aggravato dalla mancata distinzione tra costi della previdenza e costi dell’assistenza, ma anche un equilibrio qualitativo. I cambiamenti nel mondo del lavoro avevano spinto negli ultimi anni il legislatore a introdurre flessibilità in uscita dei lavoratori (a partire dai lavori usuranti, dalle donne lavoratrici), accogliendo la richiesta di anticipare il tempo del pensionamento per vecchiaia. 

Si tratta di una tendenza ragionevole su cui si poteva intervenire per migliorare la qualità della selezione dei soggetti interessati; in tempi in cui si accelerano le obsolescenze professionali per effetto delle nuove tecnologie, spesso non sostituite in sincronia con quelle nuove e comunque non convertibili per le fasce di età più alte, una flessibilità nelle uscite dal mondo lavorativo verso il pensionamento ridurrebbero le difficoltà per molte persone. “Quota 100”, invece, massifica di nuovo la dinamica del pensionamento; fa di ogni erba un fascio. Certo, andando incontro ad aspettative comprensibili e ben alimentate da una martellante propaganda “spensierata”. Infatti, l’interesse individuale ha fatto premio su quello della comunità. Tutti ora si attendono che il deficit dell’Inps schizzi verso l’alto, senza che si intravveda come si possa contenerlo nel tempo. E tutti si stanno chiedendo come, soprattutto nell’impiego pubblico, si potrà nel breve periodo trovare i rimpiazzi, sia pure non equivalenti alle uscite, per continuare ad erogare i servizi con efficacia. 

Ma c’è un’insidia più grande in questa deriva da falsa società opulenta. Quella che si mini dal di dentro il sistema di welfare europeo, il marchio d’identità dell’Europa unita. Questa noncuranza identitaria sarebbe coerente con la vocazione antieuropeista che, rapidamente accantonata come obiettivo esplicito, viene perseguita e alimentata con scelte che allontanano dalla coesione europea. Non a caso, tanto la Gran Bretagna quanto i Paesi come Polonia e Ungheria non sono realtà in cui è sviluppato un modello di welfare simile a quello dell’Italia, della Germania, della Francia. Brexit convince ancora una maggioranza di inglesi, anche se in via di riduzione, perché i vincoli culturali e soprattutto di modello economico e sociale sono più blandi di quelli dei Paesi fondatori dell’unità europea. Se si sbaraccasse il welfare tradizionale, anche in Italia la logica separatista riprenderebbe fiato e consistenza.

Ci sono, quindi, ragioni pratiche ma anche strategiche che sollecitano una visione critica delle scelte più recenti in merito al sistema previdenziale. Questo non vuol dire restare immobili sulle scelte del passato. Anzi, è urgente affrontare la questione previdenziale dalla nuova composizione del mercato del lavoro che vede crescere la quota del lavoro autonomo e flessibile, che divarica le aree ad alta professionalità da quelle a bassa qualificazione, che certifica una entrata al lavoro più ritardata dei giovani, rispetto a quella delle generazioni che li precedono. Sotto il profilo previdenziale, c’è molto da fare per non creare figli e figliastri, per interpretare e non massificare le dinamiche del lavoro e per non abbandonare surrettiziamente l’appartenenza alla migliore cultura della coesione europea, di cui il welfare è parte determinante anche per il futuro.     

 

 

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