Newsletter

In politica, è un’ arma non un problema da risolvere

L’accusa di corruzione è fra le armi più usate (ed efficaci) per colpire un avversario politico. E’ capitato di recente a Lula ed al suo partito: ed in Italia, una trentina d’anni fa, servì addirittura a demolire un intero sistema politico. Inutile dire che l’uso dell’arma è selettivo: nel mirino non ci sono mai, per esempio, i governi africani destinatari di cospicui aiuti internazionali ai quali non segue nessun itinerario di sviluppo; in alcuni paesi postcomunisti (da ultimo Albania, Slovacchia, Romania) le piazze abbaiano alla luna quando denunciano la corruzione dei governanti, non trovando nessun sostegno non solo da parte del sistema giurisdizionale interno ma nemmeno da parte della comunità internazionale; ed anche in America latina l’arma colpisce a ragion veduta (generalmente nell’ottica della Cia).

Ma veniamo al caso italiano. Di corruzione (e di lottizzazione) i media cominciano a parlare con l’avvento del primo centro-sinistra. In precedenza però, nel 1955, c’era stata la famosa inchiesta di Manlio Cancogni pubblicata dall’Espresso col titolo Capitale corrotta, nazione infetta. E sempre nella seconda metà degli anni ’50 Enrico Mattei era chiacchierato per la disinvoltura con cui finanziava partiti, correnti di partito, riviste e quotidiani.   

Nel primo caso si trattava di speculazione edilizia: un evergreen fra le fattispecie di reati corruttivi, tanto che era ancora viva e vitale negli anni ’90, quando costituirono un filone non secondario delle inchieste su Tangentopoli. Nel secondo caso, invece, si trattava di scambio politico: l’ultima arrivata (e la più innovativa) fra le aziende pubbliche che la Repubblica aveva ereditato dal fascismo costruiva una sua rete di protezione e contestualmente interveniva a gamba tesa nell’indirizzare l’evoluzione del sistema dei partiti.

Il centro-sinistra, al quale si approdò faticosamente solo fra il 1962 e il 1963, fu appunto uno degli esiti dell’iniziativa di Mattei: ed allora cominciò una nuova fase nei rapporti fra politica e affari. In principio fu la “lottizzazione”: la necessità cioè di rendere esplicita una prassi che prima era implicita, e che coinvolgeva senza scandalo le correnti democristiane e – in misura minore – i tre piccoli partiti centristi. La stampa “moderata” insorgeva ogni volta che veniva nominato dal Psi il responsabile di un ente o di una banca fino ad allora designato secondo il “manuale Cencelli” (non a caso compilato per misurare il peso delle correnti democristiane). Ma non mancarono denunce di episodi corruttivi veri e propri.

L’esordio dell’Enel, per esempio, fu contrassegnato da uno scandalo che arrivò a lambire perfino Riccardo Lombardi: per non parlare delle avventure degli ex monopolisti, che si protrassero fino agli anni ’80, generando “la madre di tutte le tangenti” che accompagnò la fusione fra Montecatini ed Edison. In quel caso, peraltro, non fu lo statalismo dei socialisti a creare il brodo di coltura di tanti successivi episodi corruttivi, ma la paradossale sfiducia dei liberali nei confronti del mercato. Fu infatti Guido Carli a paventare le ripercussioni che il rimborso agli azionisti mediante obbligazioni negoziabili avrebbe avuto sul mercato finanziario per la dispersione di risorse che poteva derivarne: per cui si preferì garantire il capitale degli ex monopolisti pur di non favorire una salutare scossa ad un mercato finanziario costruito ad immagine e somiglianza di un capitalismo sonnolento come quello italiano.        

Poi, negli anni ’70, altri due scandali campeggiarono sulle prime pagine dei giornali: quello definito “dei petroli” e lo scandalo Lockheed. Al primo si pensò di porre rimedio introducendo il finanziamento pubblico dei partiti. Il secondo, invece, fu l’occasione per la prima (ed ultima) applicazione delle norme sui reati ministeriali, che prevedevano un processo davanti alla Corte costituzionale dal quale uscì assolto Luigi Gui e condannato Mario Tanassi.

Ma gli anni ’70 segnarono soprattutto una evoluzione del contesto politico che – preterintenzionalmente – moltiplicò le occasioni corruttive. Da un lato, con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario, si moltiplicarono i centri di spesa. Dall’altro, con le maggioranze di unità nazionale, si alterò il sistema di checks and balances previsto dalla Costituzione, fino a coinvolgere il Parlamento in processi decisionali propri del potere esecutivo.

C’era quanto bastava perché, nel 1975, Giuliano Amato denunciasse il “modulo spartitorio disfunzionale” che ormai caratterizzava il governo dell’economia, e perché proponesse riforme istituzionali volte a meglio garantire gli esecutivi nell’esercizio delle proprie funzioni (e delle proprie responsabilità). Non c’era quanto bastava, invece, per convincere il sistema politico ad autoriformarsi, ponendo fine a quella “singolare modalità vampiresca di aumento dei poteri di chi gestiva la cosa pubblica e che si nutriva di dissesti aziendali”, secondo l’analisi di Luciano Cafagna. 

Anzi: ai precisi rimedi politico-istituzionali auspicati da Amato ci fu chi preferì agitare una generica “questione morale”, che nell’intervista a Scalfari del 1981 Enrico Berlinguer individuò nel fatto che i partiti avevano “occupato lo Stato e le sue istituzioni”: denuncia piuttosto singolare da parte del capo di un partito che aspirava a “farsi Stato”, come del resto aveva fatto Lenin nel 1917; ma soprattutto denuncia fuorviante, e tale da sostituire il moralismo alla politica, ed il populismo giudiziario al corretto esercizio della giurisdizione.

Tanto più che proprio negli anni ’80 si cominciava ad allestire quel “circo mediatico-giudiziario” che nel decennio successivo avrebbe dato prova di sé: e che da un lato vedeva l’associazionismo dei magistrati virare verso la formazione di un unico “partito dei giudici” in grado di dialogare con l’opinione pubblica senza la mediazione di correnti collaterali al sistema politico; e dall’altro, come avrebbe poi segnalato Alessandro Pizzorno, di sostituire al controllo di legalità il “controllo della virtù”.

E’ in questo contesto che si sviluppa la vicenda di Tangentopoli, sulla quale non è il caso di dilungarsi in questa sede. Ma è sempre in questo contesto che il “partito dei giudici” ritiene di poter svolgere la propria funzione per porre rimedio a quella eterogenesi dei fini che si verifica con la sconfitta della gioiosa macchina da guerra allestita da Occhetto nel 1994.

Sono gli anni dell’antiberlusconismo, che unisce sotto un’unica bandiera giudici e opposizione di sinistra, non senza colpire quest’ultima (effetti collaterali) quando a sua volta va al governo. Esemplare, da questo punto di vista, la vicenda della moglie del Guardasigilli nel secondo governo Prodi, che finisce imputata di estorsione per avere condotto una dura trattativa con Bassolino in vista della formazione della giunta regionale della Campania.

L’antiberlusconismo peraltro finisce quando Berlusconi viene espulso dal Parlamento in base ad una legge che lui stesso aveva votato. Non finisce invece la corruzione, che anzi si ramifica in mille canali, conformi alle pezze a colore cucite di volta in volta per coprire vuoti veri o presunti che si riscontrano nel procedimento amministrativo. Paradossalmente, infatti, dopo Mani pulite non si era proceduto nè ad una riforma organica della pubblica amministrazione, né tanto meno alla riforma dell’ordinamento giudiziario. 

Finisce anche il “partito dei giudici”: ma non c’è più neanche un sistema politico che possa fare da sponda alle rinate correnti dei magistrati: da un lato si afferma una “partitocrazia senza partiti”, dall’altro un collateralismo senza principi, come emerge dalle poco edificanti vicende che hanno terremotato il Csm. Quanto alla corruzione, si procede a tentoni: senza che a nessuno venga in mente che il modo migliore per combatterla è quello di responsabilizzare fino in fondo la pubblica amministrazione, come da tempo sostiene Sabino Cassese anche in polemica con l’istituzione di nuove Autorità che ad essa si sovrappongono.

                                                                                                                                          

Condividi su:

Scarica PDF:

image_pdf
Cerca

Altri post

Dialogo, per costruire un futuro di pace

Egregio Presidente dell’Università di Pechino, Magnifico Rettore dell’Università, Magnifici Rettori e Illustri Professori, Care studentesse, cari

Iscriviti alla newsletter

E ricevi gli aggiornamenti periodici

NEWSLETTER NUOVI LAVORI – DIRETTORE RESPONSABILE: PierLuigi Mele – COMITATO DI REDAZIONE: Maurizio BENETTI, Cecilia BRIGHI, Giuseppantonio CELA, Mario CONCLAVE, Luigi DELLE CAVE, Andrea GANDINI, Erika HANKO, Marino LIZZA, Vittorio MARTONE, Pier Luigi MELE, Raffaele MORESE, Gabriele OLINI, Antonio TURSILLI – Lucia VALENTE – Manlio VENDITTELLI – EDITORE: Associazione Nuovi Lavori – PERIODICO QUINDICINALE, registrazione del Tribunale di Roma n.228 del 16.06.2008

Iscriviti alla newsletter di nuovi lavori

E ricevi gli aggiornamenti periodici