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L’Italia può morire di vecchiaia, a meno che …

L’Italia morirà di vecchiaia, ma non è una buona notizia. L’Italia morirà di vecchiaia non tanto perché viviamo tutti più a lungo, molto più a lungo (alla faccia di quota 100), ma soprattutto perché a una popolazione di vecchi non se ne somma sufficientemente una più giovane. L’Italia è, tra i paesi europei, quello col minor numero di cittadini tra i 15 e i 29 anni, e nemmeno gli immigrati bastano più a compensare l’aumento dello squilibrio tra giovani e vecchi. Il fenomeno è così nuovo che i demografi hanno dovuto inventare un neologismo per definirlo: ‘’degiovanimento’’. Ora questo ‘’degiovanimento’’ si sta spostando verso il centro della vita attiva e produttiva del paese, e quanto le sue conseguenze abbiano a che fare con fatti molto concreti come l’economia, la crescita e lo sviluppo, ce lo ha spiegato nei giorni scorsi Alessandro Rosina, brillante demografo tra i più quotati.

Nel corso di un seminario organizzato dall’Arel, Rosina ha detto cose che se vivessimo in un paese serio dovrebbero far saltare in piedi l’intera classe dirigente e metterla alla frusta per trovare un rimedio. Ha detto Rosina, in pratica, che stiamo buttando nella spazzatura un’intera generazione, cioè quella che oggi sta fra i 30 e i 34 anni. E questo è tanto più suicida in quanto proprio quella generazione lì è destinata tra dieci anni (dieci anni: cioè domani) a sostituire i ‘’fratelli maggiori’’ quarantenni, vale a dire la parte della società italiana oggi più produttiva ai fini dello sviluppo del paese.

Ebbene, questi fratellini minori che tra dieci anni dovranno occupare quel posto sono pochi, troppo pochi: appena 3,4 milioni, contro i 4,4 milioni di quaranta-quarantaquattrenni che dovrebbero, dovranno, sostituire. Dunque, fra dieci anni, l’Italia avrà perduto un terzo netto di quello che viene considerato il pilastro centrale del capitale umano e della forza lavoro: un milione di braccia e cervelli in meno. E il problema che dovremo affrontare sarà l’opposto di quello che oggi va per la maggiore: non sarà il lavoro che manca per i giovani, ma i giovani qualificati che mancheranno per i posti di lavoro.

Ma non è tutto, il peggio deve ancora arrivare. Infatti, si potrebbe ottimisticamente pensare che saranno di meno, sì, ma meglio formati, più determinati, con migliori studi; e quindi in grado di dare ugualmente un forte contributo alla crescita del paese. Insomma, di meno, ma migliori. Purtroppo l’analisi ‘’qualitativa’’ dei trentenni attuali dice tutt’altro. In questa fascia di età l’Italia vanta il tasso di occupazione più basso di Europa (67,9%, contro il 79,1% dell’Ue 28), ed è perfino inferiore rispetto a quello che avevano gli attuali quarantenni dieci anni fa (74,8%). Per colmare il gap causato dalla demografia il livello di occupazione degli attuali trentenni nei prossimi dieci anni dovrebbe arrivare al 95%: praticamente impossibile. Inoltre, proprio nella stessa fascia di età abbiamo anche il più alto numero di Neet d’Europa, e il più basso numero di laureati, il che li rende ancor meno spendibili sul mercato del lavoro.

In pratica, è il ritratto di una generazione perduta, che rischia di trascinare a fondo anche l’Italia. Osserva Rosina: “abbiamo reso le nuove generazioni uno svantaggio competitivo del paese. La loro fragilità sta depotenziando l’Italia”. Una generazione che, oltretutto, ha perfettamente coscienza della propria situazione: via via che entrano nella età adulta i millenials sono sempre più disillusi, abbassano le proprie aspettative e obiettivi di vita. Cresciuti accumulando frustrazione e sfiducia, oggi non si ‘’vedono’’ nel futuro. Con tutte le conseguenze del caso. Avremo pochi giovani adulti, poco preparati e parecchio demotivati. E quando usciranno dalla sfera di ‘’aiuto’’ da parte delle famiglie, diverranno un mero costo sociale.

Possiamo davvero permetterci uno scempio simile? Perdere un’intera generazione così, senza battere ciglio? La domanda chiama in causa direttamente la politica, le sue scelte. Inutile aprire l’ennesima polemica sulle risorse regolarmente destinate alle generazioni mature a scapito di quelle giovani: i vecchi sono di più, pesano di più, decidono di più. E non vale nemmeno illudersi che le cose possano cambiare col voto ai minorenni: i 16-17enni sono così pochi che se pure fosse loro concesso il voto, l’età mediana dell’elettorato italiano, che oggi è di 51,68 anni, scenderebbe appena a 51,09. Nulla, insomma, cambierebbe.

Però qualcosa di serio si può fare. Rosina indica alcuni scenari possibili per venirne fuori. Il primo verte sulle politiche attive del lavoro e la formazione, in modo tale da portare i Neet fuori dalla loro ‘’neettitudine’’ e recuperarli alla vita attiva e produttiva. La tecnologia è un’altra soluzione, ma c’è un possibile scenario negativo: se il paese non si espande nei settori ad alto tasso d’innovazione, il risultato sarà che la tecnologia si limiterà a essere automazione, cioè sostitutiva di posti di lavoro, peggiorando le condizioni delle nuove generazioni. Infine, il terzo scenario punta sulla conciliazione di lavoro e famiglia, in modo da incoraggiare sia le donne a entrare nel mercato del lavoro, sia la riproduzione. Questo richiede forti investimenti economici, in termini di servizi alle famiglie, ma anche culturali, per cambiare un mood che oggi sembra portare in direzione opposta.

Dice Rosina che, data la situazione attuale del nostro paese, sembra maggiormente probabile si realizzino gli scenari negativi che quelli positivi; noi, che siamo un po’ più ottimisti, speriamo non sia così. Speriamo che il tema delle conseguenze demografiche sulla vita quotidiana e concreta di tutti diventi non più solo argomento di distratti proclami elettorali, ma il lavoro quotidiano dei decisori. Perché è innanzi tutto su questo terreno che ci giochiamo il futuro.

* dalla Newsletter Il diario del lavoro – 25 ottobre 2019

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