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Il valore del lavoro, per un nuovo equilibrio socio-economico

Senza accorgercene, passo dopo passo, si è affermata in Italia una verità tanto banale quanto pesante: sulle spalle di una minoranza che lavora (il 45% dice Luca Ricolfi nel suo utilissimo e chiarissimo “La società signorile di massa”, Ed. la nave di teseo) campa l’intera popolazione italiana. Anzi più precisamente: su quella minoranza e sul debito pubblico si regge l’equilibrio socio-economico del nostro Paese. Detto in altre parole, se non c’è lavoro legale e dignitoso, c’è assistenza. Tertium non datur. 

Infatti, in queste ore è in crescita la voce contraria all’accordo MES (Meccanismo Europeo di Stabilita’). Il motivo è semplice: i “campioni” dell’assistenzialismo (guidati dall’asse Di Maio-Salvini) vedono stringente la messa in discussione della continuità di quell’equilibrio. Scrive Fubini “In Italia, la classe politica si dilania sulle clausole del MES, invece che sul da farsi perché il Paese non debba mai trovarsi costretto a chiedere aiuto ad altri. Così, il divorzio nelle percezioni della realtà fra Italia e Germania diventa totale. Oggi, è la grande minaccia che aleggia sull’euro” (Se la classe politica italiana non capisce più l’Europa, CdS,25/11/2019). 

Darsi da fare, vuol dire far diventare maggioranza la popolazione che lavora e far scendere il debito pubblico. Vuol dire allargare la torta da distribuire e aver meno bisogno, per far quadrare i conti dello Stato, di chiedere prestiti agli altri. Vuol dire non attardarsi nella discussione se è la redistribuzione delle risorse che favorisce la crescita o viceversa. L’una senza l’altra non sortirebbe alcuna prospettiva virtuosa.

Non è un problema di ingegneria economica e sociale. E’ un problema di cultura del lavoro da riaffermare prima ancora di individuare le vie per ridefinire un nuovo equilibrio socio-economico. Per troppi anni c’è stata una svalutazione del significato stesso del lavoro. Si è alimentata una sottovalutazione del rapporto scuola- lavoro, tra sapere e saper fare (la marcia indietro dell’alternanza scuola lavoro ne è ancora plastica testimonianza). Si è tollerata una innovazione tecnologica a macchia di leopardo nel sistema produttivo italiano che ha nuociuto alla produttività, alla crescita dei salari e alla riconversione delle professionalità povere (diffuse) in professionalità elevate (scarse). Inoltre, la narrazione che la società post industriale sarebbe stata un tremendo killer della componente lavoro nella composizione dei prodotti e dei servizi non solo ha frenato gli investimenti, ma ha anche spinto verso forme spurie di lavoro. I poor workers sono in costante aumento, non a caso. I vuoti di alte professionalità manuali e non, che regolarmente vengono denunciati, sono una contraddizione mai sanata.

Specie quelli che considerano gli anni dell’austerità come irripetibili, dovrebbero essere rigorosi nel pretendere che sia il lavoro il fattore che va incrementato. Se lo dimenticano – come purtroppo ancora accade – vuol dire che le invettive sono pura rabbia e che la prassi deve continuare come al solito: meno lavoro e più assistenza. Eppure è semplice: è il lavoro, anche quello più legato all’automazione, che crea ricchezza da redistribuire con equità. Una redistribuzione più equa (si chiami flat tax o riduzione del cuneo fiscale) senza una crescita del lavoro è possibile, ma siamo sempre nello schema equilibrista del professore Ricolfi.

Ammetto che è più facile avere consenso redistribuendo a debito che creando lavoro a debito. Ma è mestiere da dilettanti della politica, per di più di corto respiro. Non a caso, le leadership tramontano con rapidità impressionante anche se si appellano al carisma individuale, che a sua volta si modella sempre più sulla democrazia illiberale. E’ più difficile giocare la carta dell’estensione delle opportunità di lavoro. Ma solo apparentemente. La gente, se chiamata a pronunciarsi, non girerebbe le spalle. Lo dice la realtà. Chi emigra cerca lavoro, chi si adatta a guadagnare poco e male lo fa in nome della dignità personale prima che per fame (a questo basterebbe il reddito di cittadinanza).

Il dossier che abbiamo raccolto, è una piccola miscellanea di pensieri positivi sul lavoro, prima ancora che di soluzioni concrete a cui legare il successo. Abbiamo cercato di distinguere tra radicalità e demagogia, favorendo la prima accanto a valutazioni più riformistiche. C’è ormai molta letteratura a favore di un nuovo equilibrio socio-economico. E’ la palese dimostrazione che è possibile rimontare la deriva nichilista che folleggia nella società italiana. Si tratta di darle spazio e ascolto, di favorire discussioni vere e non di facciata su di esse. Significa preferire il consenso ragionato a quello populista (ius soli non è priorità e quota 100 sì?) per ricostruire la fiducia nella politica. Vuol dire dare un volto nuovo alla società italiana, che merita molto più di quanto sta ricevendo da chi dovrebbe sentirsi e farsi sentire classe dirigente. 

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