Dopo avere cercato di riflettere sui problemi che l’Italia dovrà affrontare nei prossimi mesi, non è uno sforzo inutile dedicare altrettanta attenzione alle sfide che l’Unione Europea si troverà di fronte nell’anno da poco iniziato.
Le principali linee d’azione presentate dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen sono essenzialmente due: la prima è comunemente riassunta dalla parola “empowerment”, che contiene in sé lo scopo di rafforzare il ruolo dell’Europa nella politica e nell’economia mondiale. La seconda linea d’azione, alla quale è stato dato un fortissimo accento mediatico, è un cambiamento della politica ambientale così radicale da arrivare a un equilibrio di zero emissioni e di sostenibilità economica e sociale entro la metà del secolo.
Si tratta naturalmente di due obiettivi non esclusivi perché ad essi si aggiungono numerosi progetti di intervento nei più svariati settori: dall’agricoltura alla fiscalità, dalla ricerca alla protezione dei consumatori, così come negli altri numerosi settori di competenza europea.
Ci limiteremo per ora a riflettere sui due traguardi più importanti e sulle difficoltà che si oppongono al loro raggiungimento.
Il disegno che potremmo chiamare “geopolitico” non è infatti mai stato in difficoltà come negli ultimi tempi. Da un lato ci troviamo di fronte ad una strategia americana del tutto inedita. L’Unione Europea è oggi considerata dagli USA un pericoloso concorrente nel campo commerciale e un alleato inutile nel campo militare, mentre aumentano le distanze e si moltiplicano le frizioni nel campo strettamente politico. Di fronte a questo mutamento del quadro di riferimento, non è invece cambiata nemmeno di un millimetro la strategia europea.
Le divisioni nella politica estera continuano come prima con la conseguenza che, con l’affievolirsi della solidarietà atlantica, viene lasciato sempre più spazio ad altre potenze regionali, anche nei teatri di maggiore interesse per noi. Il caso della Libia è di per se stesso esemplare. Le divisioni europee hanno fatto in modo che il destino di un paese così vicino sia oggi conteso fra Russia e Turchia.
Tutto ciò, impensabile anche solo pochi mesi fa, ci deve fare riflettere su come sia difficile dare concreta attuazione al disegno “geopolitico”che è alla base del progetto della nuova Commissione Europea. È infatti impossibile mettere in atto una strategia globale quando non si riesce ad avere un ruolo attivo nemmeno in un ambito regionale.
Più facile è, almeno in teoria, iniziare il percorso della rivoluzione ambientale. Il patrimonio tecnico-scientifico disponibile è in grado di farci camminare con appropriata velocità nella direzione giusta, ma il raggiungimento degli obiettivi si trova di fronte ad ostacoli di carattere economico e politico di assai complessa soluzione. Arrivare all’inquinamento zero è ovviamente costoso.
Sono infatti necessari investimenti massicci sia da parte delle imprese che dei cittadini. È evidente che tutto questo provoca seri problemi di concorrenza nei confronti dei paesi che non si sentono obbligati a seguire una simile politica. Per limitarci ai due più grandi “inquinatori” del pianeta, conviene infatti riflettere sul fatto che gli Stati Uniti si ritengono completamente fuori da questi obblighi e che la Cina, la quale pure rimane tra i paesi che a Parigi hanno deciso di passare a una politica ambientale virtuosa, costruisce una nuova centrale elettrica a carbone ogni due settimane e, in conseguenza dei costi eccessivi, ha ormai annullato gli incentivi all’energia rinnovabile.
La necessaria politica europea di intervento sull’ambiente si trova perciò di fronte all’ineludibile problema della perdita di competitività delle proprie imprese.
Come conseguenza il cammino verso una politica ambientale virtuosa si trova dinnanzi alla necessità di aiuti finanziari, già oggi richiesti dalla Polonia come condizione per l’abbandono della sua dipendenza dal carbone.
Questi necessari aiuti finanziari sono però incompatibili con le decisioni del Consiglio europeo, che non trova alcun accordo per accrescere il bilancio comunitario, ancora appiattito attorno all’1% del PIL europeo. La proposta da alcuni avanzata che, allo scopo di finanziare la politica ambientale, si tolgano risorse all’agricoltura o agli aiuti alle regioni più disagiate è al di fuori di ogni concreta possibilità di approvazione.
Di fronte a questa evidente distanza fra i necessari obiettivi e gli esistenti strumenti della politica europea è stato presentato negli scorsi giorni il progetto di una grande Conferenza sul futuro dell’Europa, in modo da affrontare le nuove sfide con i necessari strumenti istituzionali, con le sufficienti dotazioni finanziarie e, soprattutto, con una rinnovata coesione fra i paesi membri.
La Conferenza dovrebbe avviare i lavori il prossimo 8 maggio e durare per un periodo di due anni, coinvolgendo in modo vincolante non solo la Commissione, il Consiglio e il Parlamento Europeo ma anche i parlamenti nazionali e tutta la società civile dei diversi paesi membri.
In questa fase così complicata la proposta è di per se stessa positiva anche perché si fonda su un ampliamento della base democratica dell’Unione, dato che prevede un impegno più diretto dei Parlamenti e del popolo europeo, ma penso anche che l’orizzonte di due anni per la sua conclusione sia troppo lontano.
Non potremo infatti mettere sul tavolo i grandi progetti di rinnovamento dell’Unione se, nel frattempo, non saremo in grado di confrontarci con le sfide che sono oggi sul tavolo. Una grande Conferenza può cambiare i destini dell’Europa se aiuta ad affrontare in tempo i problemi per noi vitali e non se viene messa in atto per rinviare la soluzione a tempi migliori. I tempi migliori, se non sono adeguatamente preparati, non arriveranno mai.
*Da Il Messaggero del 12 gennaio 2020