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Cosa si rischia con “più Iva e meno Irpef”

Le ragioni per cambiare

Un recente studio condotto dalla Banca d’Italia riporta nuovamente il dibattito sulla possibile revisione complessiva del sistema fiscale e sul ruolo che imposte dirette e indirette potrebbero assumere nel perseguire gli obiettivi di equità e di efficienza.

Il nostro paese non è nuovo a proposte o analisi di questo tipo; si pensi, ad esempio, all’idea tremontiana “Dalle persone alle cose” contenuta nel Libro bianco del 1994. È anche vero che l’Italia è politicamente avversa a cambiamenti radicali. E riforme di questo tipo comportano la necessità di intervenire simultaneamente su molti aspetti del sistema vigente. Ne è un esempio il caso delle imposte sul patrimonio: senza una revisione organica del catasto, la via di un ulteriore incremento di questo tipo di imposte sembra compromesso, anche perché in Italia, storicamente, chi tocca la casa è politicamente sconfitto.

Il tema “più Iva meno Irpef” o, più in generale, “più indirette e meno dirette” è molto complesso, difficile da sintetizzare per ottenere una conclusione univoca. Come in molti altri aspetti, si potrebbe dire che tutto è possibile, basta farlo bene. Vediamo dunque i punti di forza e di debolezza delle possibili riforme.

L’interesse verso il paradigma “più Iva meno Irpef” discende dall’evidenza empirica la quale sembra sostenere che le imposte sul patrimonio e sui consumi incidono di meno sul tasso di crescita dell’economia, mentre le imposte sul reddito di imprese e famiglie incidono di più. Di conseguenza, il cambiamento del mix dirette-indirette favorirebbe la crescita economica. In regime di cambi fissi, il paradigma “più indirette, meno dirette” può avere lo stesso effetto di una svalutazione competitiva, ottenuta tramite la leva fiscale. Per questa via è dunque possibile sostenere la domanda estera e favorire la crescita interna.

È tra l’altro per questo motivo che sono stati proposti interventi come la riduzione del cuneo fiscale tramite la diminuzione dell’Irap oppure la fiscalizzazione dei contributi previdenziali. Sono anche state studiate visioni alternative, in cui il passaggio Iva-Irpef produce aspettative di inflazione futura e quindi uno stimolo alla crescita immediata dei consumi; però dovrebbero verificarsi effetti molto forti per sostenere l’equità nel lungo periodo.

Vi sono chiaramente effetti di breve e di lungo periodo, ad esempio per quanto riguarda la traslazione dell’Iva a seguito del suo aumento; differenti sono anche gli effetti distributivi e sulla crescita se il passaggio avviene riducendo le imposte solo sulle imprese o su imprese e famiglie oppure solamente sulle famiglie. Non è dunque detto che i miglioramenti di efficienza siano superiori ai possibili effetti negativi sull’equità.

A favore di questo tipo di ricomposizione delle entrate si sono da sempre espresse le organizzazioni internazionali e in particolare il Fondo monetario, anche nel suo recente rapporto sull’Italia. Il governo Monti, per esempio, aumentò l’aliquota Iva ordinaria e l’imposizione sugli immobili, mentre furono ridotte le imposte sulle imprese (riduzione dell’Irap e reintroduzione del meccanismo Ace). Per esigenze di gettito si rimandò la riduzione dell’Irpef, successivamente avvenuta con lo strumento del bonus Renzi.

 

Le tre proposte 

Lo studio della Banca d’Italia propone tre riforme a parità di gettito, in cui le maggiori entrate derivanti dall’Iva (fissando le aliquote al 4, al 13 e al 25,2 per cento) finanziano una riduzione dei contributi sociali, delle aliquote oppure un aumento della detrazione da lavoro.

Non sorprende che il risultato meno regressivo (e non più progressivo) sia ottenuto con l’aumento della detrazione da lavoro: concentrando lo sgravio sui contribuenti a basso reddito, caratterizzati da una maggiore propensione marginale al consumo, si mitiga l’impatto dovuto all’aumento dell’Iva, a parità di gettito. A seconda di come viene rimodulata la decrescenza della detrazione, si ha un diverso impatto sull’efficienza: le aliquote marginali effettive, infatti, sono la somma tra l’aliquota legale e l’inclinazione della detrazione per ogni specifico livello di reddito. Senza ulteriori misure di sostegno, la riforma genera molti perdenti nella fascia più bassa della distribuzione, che non beneficia, per incapienza, delle detrazioni da lavoro oppure non è interessata alla detrazione da lavoro, come avviene per i pensionati.

L’Iva è una imposta solo moderatamente progressiva rispetto ai consumi delle famiglie (che potrebbero essere considerati una buona approssimazione del reddito permanente e quindi un indicatore per valutare la bontà delle riforme), mentre è regressiva rispetto al reddito, soprattutto nella parte iniziale della distribuzione, più rilevante per gli effetti di breve periodo. L’Irpef, invece, è progressiva rispetto al reddito, nonostante l’esistenza di svariati regimi sostitutivi. Poiché i contributi sociali sono sostanzialmente proporzionali, ne deriva che il nostro fisco è solo lievemente progressivo rispetto al reddito. Uno spostamento di una certa entità del prelievo dai redditi ai consumi comporta una perdita di progressività del sistema, se non ben bilanciata, e, soprattutto, se non accompagnata da adeguati trasferimenti nella parte iniziale della distribuzione.

In altri termini, in questo contesto lo scambio equità-efficienza è particolarmente rilevante. Il motivo è semplice e discende dalle considerazioni precedenti e dalla forma della distribuzione di frequenza dei redditi delle famiglie: i ricchi sono pochi, ma hanno un reddito elevato; i poveri sono più dei ricchi, ma hanno un reddito molto basso; la maggior parte delle famiglie ha redditi intermedi.

La base imponibile Iva è per una quota maggioritaria soggetta all’aliquota ordinaria. Agire sulle aliquote intermedie, in aumento, non comporterebbe un considerevole incremento di gettito e probabilmente influenzerebbe un incremento dell’evasione.

L’unica via sarebbe aumentare l’aliquota ordinaria, ma siamo già a livelli molto elevati, il 22 per cento, introducendo nel contempo un minimo vitale strutturale (il reddito di cittadinanza sicuramente va in questa direzione) per più che bilanciare il saldo netto per i meno abbienti. Tuttavia ciò ha conseguenze politiche rilevanti: per esigenze di gettito, non si possono ridurre troppo le aliquote sui più ricchi, come di recente proposto, senza prevedere un livellamento della spesa; rimarrebbero sostanzialmente a bocca asciutta tutte le famiglie nella parte centrale della distribuzione, che sono troppo numerose per ricevere benefici tangibili. Questo almeno nel breve periodo. In un orizzonte temporale più ampio, si spera che i pagamenti elettronici influiscano sul tax gap Iva, in attesa che l’Irpef recuperi buona parte dell’erosione attualmente concessa.

Per concludere, sembra oggi difficile pensare di applicare in misura consistente un diverso mix fiscale tale da essere sufficientemente capace di sostenere la crescita senza penalizzare troppo l’equità.

*La voce, 07/02/ 2020

 

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