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«Lo smart working? ora è tempo di riprenderci la vita»*

Con la sincerità che cerco di mettere sempre nel dire cosa penso, torno a confessare che la situazione mi preoccupa, e molto. Abbiamo evitato il collasso della nostra società intraprendendo nuove modalità di vita. Tra queste, il lavoro a distanza. È stato chiamato smart working, ma forse un po’ impropriamente. Ci sono nubi su quell’aggettivo, smart. Le persone che hanno lavorato da casa, spesso, lo hanno fatto con limiti variabili di tempo, al di fuori di un contesto di regole e tutele adeguate per questo nuovo strumento e, sicuramente in molti casi, con grande sacrificio.

Penso a tutte le famiglie, ma in particolare all’impegno delle donne. Penso a tutti coloro che hanno dovuto conciliare questo lavoro in lockdown con la presenza dei figli, dei cari, in situazioni di grave incertezza e fatica. E vorrei mettere in luce l’elemento più preoccupante: la costrizione che deriva dal non avere relazioni fisiche con gli altri.

La nostra società, lo diciamo in molti, è da cambiare. Produce ingiustizia sociale, è sperequata. Dobbiamo trovare il modo di innovarla insieme. Ma non si cambia dall’oggi al domani. I cambiamenti repentini vengono quasi sempre pagati dai più deboli, da chi per diverse ragioni non è pronto al cambiamento, o semplicemente non ha gli strumenti necessari per farlo. Lo smart working non è solo una grande opportunità, ma rappresenta un vero e proprio cambio di paradigma dell’organizzazione del lavoro.

Il Comune di Milano ha da tempo cominciato a sperimentare, positivamente, questa modalità di lavoro, che non consiste semplicemente nello svolgere le proprie mansioni da casa, ma richiede un nuovo modo, e un diverso grado di autonomia, nello svolgere l’incarico a cui si è delegati. La pandemia di questi mesi ha costretto ad accelerare il ricorso a questo strumento, ma per forza di cose è stato un utilizzo in emergenza. Senza una gestione ordinata del processo di transizione.

Penso che lo smart working debba rientrare tra i diritti dei lavoratori nella nuova era digitale, in un possibile ripensamento adeguato ai tempi, dei diritti e dei doveri in generale. Forse di un nuovo Statuto dei lavoratori.

Lo smart working è quindi uno strumento fondamentale per costruire un nuovo modello di sviluppo, ma non può essere preso in considerazione senza valutare sino in fondo anche tutti gli effetti collaterali e le ripercussioni che una adozione massiccia di questa modalità — ripeto, senza un percorso di transizione ben governato — può generare sulle città.

Lo smart working, così come la scuola, non possono essere trattati come temi isolati, perché oltre alla loro ragione specifica — per il primo l’organizzazione del lavoro, per la seconda l’istruzione — hanno una profonda incidenza sulla vita di tutti i giorni di milioni di persone. Non posso pensare ad una cosa slegata dall’altra. È quello che un sindaco fa e deve fare, guardare al complesso della situazione. Il mio invito degli scorsi giorni di tornare al lavoro, o meglio di tornare ai propri posti di lavoro, in persona, guarda alla complessità di tutto questo. Alla necessità che dopo il virus non si contribuisca anche con scelte sbagliate ad aggravare la situazione di diversi comparti economici, non di certo per perpetrare una società troppo basata sui consumi, ma per aiutare chi oggi rischia di perdere il proprio lavoro a riorganizzarsi, a provare a reinvestire nella propria attività e adeguarla ad un nuovo modello, che andrà esplicitato, condiviso, costruito. In una sola parola governato. 

Temo che il lavoro a distanza, non adeguatamente inserito in una strategia complessiva, lasciata al semplice vantaggio economico o alle «forze del mercato», possa aumentare la possibilità che posti di lavoro vengano tagliati. Anche di chi oggi è in smart working. È questa la mia preoccupazione. Corroborata da indizi che raccolgo ovunque e che lasciano presagire prossimi «piani di efficientamento» da parte di moltissime aziende. 

Per questo il mio invito è rivolto a tutte le lavoratrici e i lavoratori, così come agli imprenditori: appena possibile, con le dovute cautele e con la necessaria attenzione per tutti quei lavoratori che devono tenere al momento in un equilibrio difficile lavoro e famiglia, bisogna ricominciare a fidarsi. Tornare a riprendere la ricchezza delle nostre vite, che è anzitutto l’insieme di relazioni che intratteniamo.

Una città, resa fantasma, è un incubo inaccettabile. Tornare a circolare, ad andare in ufficio o sul luogo di lavoro, riprendere la vita vivente: ho inteso dire questo. Uffici, servizi, negozi, artigianato, musei, teatri, cinema: con le distanze di sicurezza e le modalità di protezione che sappiamo, possiamo e dobbiamo rioccupare le nostre esistenze con la relazione fisica, a partire da quella nei luoghi in cui lavoriamo. Dobbiamo evitare che quel «non lasciare nessuno indietro» resti solo uno slogan.Lo sarà se ognuno di noi non si pensa intimamente legato agli altri, nelle scelte che facciamo, nel percorso che disegniamo in questa società per il futuro.

 

*da Corriere della sera 23/06/2020

 

** Sindaco di Milano

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