Ci sono ormai centinaia di migliaia di lavoratori in CIG che si sentono collocati in una sorta di limbo. Sospesi in uno spazio – quello che con una certa gentilezza viene chiamato inattività – e in un tempo che, per le modalità adottate, non può che essere classificato come incerto. Soltanto qualche giorno fa, il Presidente del Consiglio ha detto che può finanziare la CIG fino alla fine dell’anno. E’ immaginabile che stessa scadenza sarà data al divieto di licenziare. Così, il 2020 sarà l’anno ricordato da troppe persone per l’inattività e l’incertezza in cui sono precipitate, per colpa di un nemico invisibile. E poi?
“Non lasceremo indietro nessuno”. Soltanto un cinico o un fatalista possono considerarla una parola d’ordine impronunciabile. Questi ragionano come per la cura estrema della pandemia. Ritengono che anche in economia ciò che può funzionare con efficacia è solo l’immunità di gregge. C’è chi salverà posto di lavoro e reddito e chi perderà l’uno e l’altro. Molti, invece, a qualsiasi livello di responsabilità, non fosse altro per opportunismo, la usano e ne abusano anche. I più avveduti, però, sanno che quest’espressione di solidarietà è veramente impegnativa.
Per due motivi. Il primo è che la crisi non è un fuoco di paglia, si dilungherà anche nel 2021, come minimo. Trovare i soldi per finanziare la CIG trimestre per trimestre è un errore. Costringe lavoratori ed aziende a vivere sul tempo brevissimo, consente anche abusi e furbizie, alimenta il lavoro nero. Più serio è costringere le aziende a programmare con un respiro di medio periodo ed in ogni caso discutere con i lavoratori come affrontare al meglio anche il tempo breve. Si sta favorendo la visione corta. Infatti, non c’è notizia dell’uso dei contratti di solidarietà che, nella precedente crisi, furono un utile sistema per trattenere al lavoro quanta più gente possibile. Con la visione corta, c’è quasi l’affermazione dell’ineluttabilità dell’attesa. Stare a casa.Ma questo non è tranquillizzante. Infatti, quando chi riceve assistenza dallo Stato passa da pochi a molti, si corre il rischio che essa non sia più vista come uno strumento per superare situazioni difficili e contingenti, ma venga percepita come un «diritto» a prescindere. E’ un confine sottile, carico di complicazioni, che può sfociare finanche nell’accrescimento del risentimento verso gli assistiti, con la conseguenza di alimentare ulteriormente il conflitto sociale e incorrere in una deriva dove lavorare onestamente e pagare le tasse sarà sempre meno incentivante.
Il secondo motivo è che si sta discutendo – non proprio sempre al meglio – di quale Italia vorremmo che emergesse da questa batosta. Sia pure a fatica, molte opinioni convergono sulla necessità di investire in servizi efficienti, tecnologie avanzate e sostenibili, capitale umano qualificato. A riguardo di quest’ultimo, tutti sono d’accordo che i danni della pandemia sono stati attutiti dall’emersione della grande professionalità ed etica di tutta la filiera umana del sistema sanitario. In buona parte, è successo anche nella scuola, con il salto tecnologico compiuto dagli insegnanti con la didattica a distanza, mettendosi paradossalmente alla pari dei loro alunni (purtroppo non la totalità per via della condizione di povertà familiare) nell’uso dei mezzi informatici.
La competenza, l’arricchimento delle conoscenze escono esaltate da questa dura vicenda. In fondo, è bastato un trimestre per capovolgere la gerarchia delle priorità per avere successo nella vita e per formare una società più coesa, dopo decenni di svilimento del sapere e del saper fare.
Ma per non sprecare questo enorme bagaglio di convincimento e per non lasciare sul divano troppe persone, non si dovrebbe perdere neanche un minuto per agevolare, stimolare, supportare chi non vuole stare in attesa di un ripristino di “com’eravamo”. Chi è in CIG non dovrebbe restare passivo, dovrebbe essere orientato a fare qualcosa di utile per sé e per la comunità.
Offrire alternative, è un dovere per le istituzioni. E quindi, monitorare individualmente i fruitori della CIG. Liberi di rifiutare le proposte che verranno fatte, ma candidandosi ad ottenere un contributo di sostegno al reddito decrescente nel tempo. Oppure disponibili a fare dei lavori socialmente utili per i Comuni o per altre strutture pubbliche, guadagnando anche di più se si fanno più ore del minimo definito. O meglio, partecipando a corsi di qualificazione professionale per aumentare le proprie competenze specifiche o aggiungerne delle altre. Insomma, un vasto menù di opportunità per dare senso a ciò che può diventare pericolosamente insensato.
Lo strumento per gestire questa mobilitazione dall’inattività all’impegno c’è. L’ANPAL potrebbe assumere il compito di regista dell’iniziativa a livello nazionale, essendo anche partecipata dalle Regioni. Assieme alle parti sociali e alle strutture della formazione a tutti i livelli si possono avviare molte esperienze territoriali, settoriali, nazionali nel più breve tempo possibile e alimentare così il mercato del lavoro di competenze che risultavano già deficitarie prima ancora dell’arrivo della pandemia.
In questo modo, lo slogan “non lasceremo indietro nessuno” perderebbe quell’alone di solidarismo caritatevole che rischia di consolidarsi, in chiave negativa, nella testa delle persone, per assumere un significato concreto, di preparazione all’uscita dalla crisi. Che non ci riporterà a ieri, dove tutti tornerebbero a fare quello che facevano. Ma che ci proietterà nel futuro, dato che ci faremmo trovare un tantino più preparati ad affrontarlo senza soverchi affanni.