Una mattina ci siamo alzati e abbiamo trovato il virus Covid 19: violento come un invasore, fautore della guerra lampo e soprattutto intenzionato e capace di farla.
Appena il tempo di guardarci un po’ in giro e ci siamo guadagnati lo sgomento: pandemia, impreparazione, ospedali in crisi.
Che fare? È la domanda che rimbomba nei corridoi della politica, dell’economia e della società. Stanno andando in crisi non solo i dati materiali ma quelli politici (perché è stata indebolita l’organizzazione sanitaria nelle quantità e nel presidio del territorio), quelli strutturali (per la crisi di attività lievitate grazie al mercato), culturali perché … chi più ne ha, più ne metta: dai decenni di numero chiuso a medicina alle proposte di lockdown in contrasto con le abitudini e l’organizzazione sociale consolidata.
L’isolamento, la prudenza, la rinuncia alla socializzazione diventano le necessità sociali di contenimento dell’espansione del virus.
Una certezza su tutte: mercato e neoliberismo hanno fallito sia nella versione thatcheriana che in quella blairiana. Ma che fare? Come cambiare? Oltre ai vuoti di conoscenza sociale quanto tempo ci vuole per conoscere, metabolizzare, digerire, accettare e gestire un eventuale “nuovo” e noi in questo “nuovo”?
Vorrei partire da queste domande per parlare dello smart working oggi, quando la necessità d’isolamento ha accelerato molti processi tra cui lo smart working e l’e-learning (che dello smart working fa parte).
Queste forme di lavoro e di studio esistono da anni; mentre fino a ieri nelle nostre società erano solo “assaggi” sociali e organizzativi, con le misure di contenimento del virus sono state catapultate, e in modo estensivo, nella società chiedendo ai singoli e alla collettività di organizzarsi e di auto-organizzarsi.
È evidente come sia diventato imperante il riduzionismo. Agli individui e alla società non si può chiedere di comprendere e partecipare a pieno a un processo di rinnovamento delle abitudini pensando che la mutazione riguardi solo la forma di svolgimento soggettivo e sociale di un servizio o di un lavoro.
Oltre alle altre, questo momento ha mostrato altre ignoranze e altre fragilità; ne cito alcune che riguardano lo smart working e alcune l’e-learning come sua applicazione nella formazione della conoscenza.
Per il primo ricordiamo che è già nato un nuovo capitalismo che ha creato (prendendo a prestito il titolo del volume di Antonio Casilli) “Gli schiavi del clic”. Questa frase certamente dura non si riferisce certo a lavori e lavoratori impiegati nei cicli tradizionali dell’economia, ma ai lavori, ad esempio, di gestione dei dati. Mi riferisco a quelle realtà nate e organizzate negli ultimi decenni partendo principalmente dalla Silicon Valley e che lavorano con una cultura e obiettivi d’impresa specifici.
Il dibattito scientifico e le scelte imprenditoriali sull’intelligenza artificiale, sull’attuazione e organizzazione del lavoro, sull’apporto umano a produrre gli innumerevoli dati da far elaborare all’intelligenza artificiale al fine di affinare programmi (di vendita, di formazione del consenso ecc.), e che si svolgono tutti in smart working, non hanno minimamente toccato il dibattito e la coscienza sociale.
Eppure quasi tutti gli individui che frequentano a qualsiasi titolo la rete, rispondono a questionari, domande, promozioni GRATUITAMENTE o, nella minoranza dei casi con piccolissime remunerazioni (o promesse di premi) essendo piccolissimo, parcellizzato, dequalificato, il prodotto che si richiede.
C’è un’imprenditoria (con relativa forma capitalistica) delle piattaforme informatiche che usa una sterminata mano d’opera nelle aree alfabetizzate del terzo mondo, che legge, analizza, classifica in format, filtra (per quelli culturalmente evoluti), produce e classifica commenti, note informative, informazioni. Tutto questo serve per pompare ossigeno agli algoritmi, a dare loro la linfa vitale dell’apprendimento.
Esiste un nuovo capitalismo, quello delle piattaforme che, come quello espresso nel primo periodo dell’industrializzazione, è posseduto e controllato dai pochissimi che stazionano nei primissimi posti degli uomini più ricchi del mondo. Tutti sappiamo l’imparagonabilità tra queste ricchezze individuali e le ricchezze di molti stati dei paesi poveri. Questo significa che gli abitanti di questi stati possono diventare sudditi? No, non serve, è sufficiente che siano salariati a costi infimi e non sindacalizzati.
Ciò che abbiamo visto nel periodo del decentramento territoriale della produzione manifatturiera e in seguito nella gestione dei processi di globalizzazione attraverso le multinazionali e il capitalismo finanziario rischia di avere lo stesso ruolo di un allenamento rispetto al combattimento vero.
Questa rivoluzione che sta cambiando il mondo è possibile perché il lavoro commissionato e il luogo in cui si svolge sono indifferenti rispetto al luogo di esercizio e di utilizzazione. E questa indifferenza è all’interno del ciclo produttivo e non della distribuzione.
È, e sarà, una rivoluzione che ci coinvolge e coinvolgerà, imperniata sul nuovo grande amore: lo smart working. Ma siamo sicuri che lo smart working è, e sarà, sempre come raccontato da chi lo misura su poche convenienze individuali, possibili solo nelle aree ricche, in presenza di diritti consolidati ma soprattutto per il primo breve periodo?
Quanti miglioramenti abbiamo visto trasformarsi in sottrazione di diritti. Al contrario quanti diritti si sono costruiti come unione e società? Un conto è l’utilizzazione occasionale o programmata su situazioni specifiche, su tempi parziali, etc., un conto è la scomparsa del luogo collettivo di lavoro. Promuoverlo e accettarlo nell’emergenza è giusto, promuoverlo e accettarlo come coadiuvante è saggio e opportuno; farlo diventare LA forma di organizzazione sociale del lavoro è un errore. L’individualità avvantaggia chi detiene il potere e diminuisce il valore dei diritti socialmente distribuiti.
Nella pandemia va benissimo, anzi dovendo favorire processi di rinnovamento è un ottimo suggeritore di modernizzazione, digitalizzazione, cambiamenti. Ma c’è differenza tra particolarità e generalità.
Noi ci sentiamo corazzati e protetti perché decenni di conquiste sociali e sindacali possono farci pensare che i processi siano irreversibili e l’aggregazione sociale, il valore del luogo siano (o possano diventare) indifferenti.
Il luogo non è indifferente. Sono decenni che insegno all’università e da decenni mi occupo e pratico l’e.learning ma senza dimenticare il valore istituzionale, culturale, storico del luogo. Un mio amico, sindacalista di qualità e di ruolo, sostiene che la sua fortuna è aver praticato il sindacalismo in tempo di fordismo. Ma attenzione, non possiamo illuderci di costruire una società come espressione e sommatoria di individui e non espressione di una aggregazione di individui che non si sommano ma si riuniscono in un sistema unitario complesso.
Quando i lavori diventano frammenti, diventano gesti individuali in un oceano di gesti.
Ricordiamoci che quando parliamo di smart working, parliamo di un fenomeno mondiale consolidato, che ha creato gli uomini più ricchi del mondo. Amazon, Facebook, Google, Uber, non hanno concorrenza, violano anche le regole e le tradizioni della pluralità del capitalismo. Nell’assenza della rintracciabilità individuale, dell’impalpabilità, della loro materialità come nebbia, la loro tassazione è irrisoria, il controllo politico e sindacale è nullo, nessuno può controllare nessuno.
Non fa parte di questo scritto analizzare il contributo che queste società ricevono dagli utenti quando, in cambio di un servizio, li trasformano in fornitori di dati. Supero il tema ma invito tutti a riflettere.
Questo non significa che non debba essere riconosciuto il valore culturale della digitalizzazione e tecnologico dell’informatica.
Ma non possiamo confondere lo strumento con la filosofia. È la filosofia che oggi governa lo strumento che non ci piace.
Ed ecco il secondo aspetto, che riguarda quello che sta succedendo in casa.
Nella gestione della pandemia c’è stato un rapido adattamento dell’organizzazione sociale e del lavoro fordista a una pratica di esercizio digitale. Questa accelerazione è realizzata in una società che, a prescindere dalla crisi, è sostanzialmente una società ricca, con diritti politici e sindacali consolidati, da tempo disponibile ad organizzazioni flessibili del lavoro e con una contrattazione già avviata che vede le difficoltà circoscritte a quelle di genere.
Questa organizzazione del lavoro, nuova rispetto alle abitudini ma non innovativa rispetto a tutto ciò che individua il nuovo come diverso per forma e struttura dal precedente, si è riversata su un mondo che, pur non avendola ancora metabolizzata interamente, è in grado di recepirne vantaggi individuali. Tanto è vero che nella vulgata attuale tutti parlano di risparmio sui tempi di trasporto, caffè casalingo, pausa pranzo senza panini e precotti. Grandi vantaggi individuali anche se mi sembrano un po’ pantofoloni.
È principalmente questo, ciò su cui la società sta discettando? Non è poco e implica ripensamenti, aggiustamenti, bilanciamento.
Ripeto, è da tempo che l’indifferenza del luogo di produzione o di formazione fa parte del modo di organizzare il lavoro societario o aziendale. Senza entrare nel settore direzionale dei processi dove, una volta superato il valore degli aeroporti, ha regnato l’indifferenza per il suo luogo di residenza, e volendo parlare solo della parte esecutiva del lavoro, porto solo due esempi che conosco direttamente: le società di progettazione e gli insegnanti dell’e-learning (senza parlare dei nostri call center…rispondo da…)
Le prime si strutturano su 3 cicli di 8 ore con professionisti residenti in città dello stesso emisfero e con meridiani distanti 8 ore; per le seconde gran parte delle scuole a distanza statunitensi hanno insegnanti indiani (inglese perfetto, alta tecnologia ecc.).
Quando parliamo quindi di smart working, dobbiamo avere la consapevolezza di parlare di un argomento che solo in piccola parte è rappresentato dal come trovare vantaggi individuali in processi disponibili a cambiare la forma del lavoro ma non la struttura.
Per grande parte invece parliamo di un mondo nuovo, figlio della globalizzazione, ancora più complesso e parcellizzato del decentramento territoriale della produzione, gestito da un capitale interamente nuovo, impalpabile, capace di non pagare giuste tasse in nessuna parte del globo, che dà lavoro a popoli non sindacalizzati dove la paga giornaliera è inferiore alla paga oraria di un operaio di un paese ricco.
Apprezzo gli entusiasmi per la possibilità di cancellare dalla propria vita termini che anch’io odio, come pausa pranzo, panino, coffee break. Ma lo smart working non è solo un suo aspetto, è un processo mondiale con i suoi capitalisti, le sue lobby, il suo esercito salariale e il suo esercito salariale di riserva. È lì che va analizzato, è lì che va valutato ed è lì che non si sono ancora definite le regole della partecipazione e dell’appartenenza, è nella sua complessità che non si sono definiti i diritti del lavoro. Non è un caso che sia lì che si formano le maggiori e nuove ricchezze mondiali.