Sarebbe ingeneroso nei confronti dello smart working chiedergli di essere la chiave di volta o almeno il grimaldello per una riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni; e sarebbe presuntuoso chiedere alle amministrazioni pubbliche di rinnovarsi prendendo come leva dell’innovazione lo smart working.
Dico subito che condivido la decisione di diradare al massimo le occasioni e i rischi di contagio da Covid e quindi in questa fase, anche di seconda ondata del contagio, ritengo obbligata per ragioni sanitarie la previsione del maggior numero possibile di lavoro agile. Ma proprio questa consapevolezza della funzione che in questo momento è chiamato a svolgere lo smart working deve suggerirci cautela nell’enfatizzarne eccessivamente le possibili doti taumaturgiche di riforma.
E questo non perché io pensi che per raggiungere l’obiettivo dell’innovazione sia necessaria una legge: da tempo ripeto che il legislatore dell’innovazione delle amministrazioni dovrebbe far proprio l’auspicio contenuto nel titolo della canzone di Celentano “Esco di rado e parlo ancora meno”. Ma proprio perché l’innovazione passa principalmente attraverso l’attuazione di logiche organizzative nella gestione delle risorse e nei comportamenti richiesti, lo smart working può giungere di fatto solo al termine di tali scelte per adattare le proprie modalità ad esse.
Anche perché, pur prescindendo dalle assimilazioni concettuali, lo smart working adottato nelle amministrazioni pubbliche e il lavoro agile del d.lgs. 81/2017 farebbero fatica a riconoscersi un comune grado di parentela. È vero che il terzo comma dell’art. 18 di quel decreto ne prevede l’applicabilità alle pubbliche amministrazioni “in quanto compatibili”; ma qui ad essere minati non sono aspetti secondari della fattispecie legislativa, ma anelli fondamentali delle rispettive catene di DNA.
Infatti, la normativa dello smart working da emergenza Covid non presuppone la presenza di un accordo tra le parti del contratto individuale, non richiede la fornitura degli strumenti informatici da parte del datore di lavoro, non prevede l’alternanza di presenza e assenza, ma soprattutto non prevede la necessità di scopo che oltre a quella della conciliazione è individuata nell’incremento della competitività che, nel settore dei servizi pubblici significa incremento della qualità dei servizi. E non è previsto un criterio selettivo (nel nostro caso la conciliazione vita lavoro e più in dettaglio quello individuato dal comma 3-bis, ma potrebbe anche essere un qualsiasi altro) che lascia presupporre una platea di richieste più ampia rispetto a un numero ridotto di possibilità di attivazione di forme di lavoro agile.
L’assenza di tali elementi fa ben comprendere come lo smart working , essendo semplicemente una modalità di luogo e di tempo della prestazione lavorativa abbia bisogno per prefigurarne l’utilità (fondamentale nella valutazione della prestazione) dell’ambiente organizzativo e gestionale idoneo e in grado di reciprocamente adeguare organizzazione e prestazione. In questa logica comprendiamo cosa ancora manchi nella pubblica amministrazione e cosa invece serva. E sarebbe semplicistico fermarci solo agli aspetti strutturali del problema come la qualità della rete di molte amministrazioni o il fatto che i singoli lavoratori, almeno finora, lavorano a distanza con attrezzatura personali spesso inadatte allo scopo.
Se, come detto all’inizio, la scelta della fonte pubblicistica e unilaterale di conversione del rapporto di lavoro si giustifica sul piano della salvaguardia della salute di operatori e utenti, è altrettanto vero che essa giunge a priori e organizzativamente “a freddo” di una qualsiasi azione progettuale e che non può riguardare solo i singoli lavoratori individualmente considerati, ma va definita quanto meno per segmenti organizzativi autonomamente gestibili e misurabili. In altri termini, la predisposizione di progetti non può servire alla misurazione della produttività o forse della reperibilità oraria del singolo lavoratore, ma deve rappresentare il contesto entro il quale si valuta l’utilità delle prestazioni dei lavoratori coinvolti. E a questo proposito non si deve confondere “progetto individuale” con “accordo individuale”: quest’ultimo nella fase pre-Covid era la fonte della trasformazione del rapporto; il primo ha senso solo se è chiaro il progetto collettivo dell’organizzazione da perseguire. Insomma, se manca questo, lo smart working altro non è che “lavoro a domicilio” di smaltimento di pratiche.
E poi va sottolineata una seconda esigenza che riguarda il tipo di professionalità richiesta per una organizzazione prevalentemente a distanza. Infatti, nelle ipotesi di uscita dall’emergenza, si prevede che comunque un elevato numero di pubblici dipendenti debba lavorare in smart working, anche considerando che, secondo un’indagine Forum PA, circa il 94% dei lavoratori pubblici preferirebbe continuare a lavorare da casa. Ma il sistema di classificazione dei contratti pubblici, il cosiddetto ordinamento professionale, oltre che essere ormai datato, è ancora troppo incentrato su una prestazione valutabile in presenza e poco attenta, se non nei profili più alti, a favorire autonomia e complessità della prestazione (anche allo scopo di semplificare le procedure che spezzettino il percorso di una decisione tra soggetti e uffici diversi).
Se continuassimo questa analisi dovremmo necessariamente giungere a interrogarci sulle attuali modalità di reclutamento ancora spesso orientate a verificare le conoscenze (soprattutto giuridiche) piuttosto che le competenze e le capacità relazionali e di lavoro in squadra o per progetto; capacità che non sono curate nemmeno nelle rare esperienze formative che coinvolgono i dipendenti pubblici.
Le attuali e diffuse modalità di reclutamento, soprattutto se si diffonde il lavoro agile anche per i neo assunti, in mancanza di correttivi che integrino il lavoro tra persone rischia di accentuare la tentazione di più a rifuggire piuttosto che affrontare le responsabilità. E questo vale per i dirigenti e per i lavoratori dei comparti.
In conclusione, ho l’impressione che la tanta enfasi che si sta ponendo sul ruolo dello smart working nelle pubbliche amministrazioni rischi di nascondere quei problemi organizzativi, gestionali e normativi che purtroppo ancora caratterizzano le pubbliche amministrazioni; problemi che anche in passato sono stati celati dietro ipotesi di ricette e scorciatoie miracolistiche le quali, trascorso il periodo di maggiore appeal anche mediatico, sono sparite, mostrandoci lo stesso quadro che già conoscevamo.
*Esperto di diritto del lavoro, già docente nell’Università di Catanzaro