Lo smart working prima del Covid 19.
Negli anni precedenti alla pandemia, la diffusione degli smart phone e delle tecnologie digitali avevano spinto molte imprese a concedere, in via sperimentale e sotto la pressione dei dipendenti, alcune giornate al mese di possibile lavoro a distanza per gruppi limitati di dipendenti, appartenenti a funzioni specialistiche che già lavoravano su sistemi aziendali digitalizzati e spesso dialogavano già a distanza con il proprio ufficio. Queste sperimentazioni, all’inizio molto timide, presentavano molti vincoli, spesso definiti anche nei contratti aziendali o comunque nei regolamenti. Il lavoro a distanza era concesso su richiesta del dipendente, con l’assenso obbligatorio del capo, limitato nei giorni (si arrivò al massimo di un giorno a settimana), con tetti al numero dei dipendenti che potevano essere contemporaneamente in lavoro a distanza, con forti controlli sui risultati e sui tempi di risposta alle chiamate dall’ufficio, con restrizioni sui luoghi e la sicurezza. In cambio il dipendente poteva scegliere il luogo di lavoro, non necessariamente la propria casa, ma comunque un luogo che garantisse la riservatezza; l’obbligo di essere connessi non era continuativo, si doveva in molti casi assicurare una reperibilità o un tempo di risposta predefinito, oppure in altri casi si lavorava solo su obiettivi e sulle consegne. Questi accordi erano tipici delle grandi aziende e riguardavano di solito gli impiegati delle aree amministrative e di progettazione, che operavano su sistemi aziendali evoluti, accessibili a distanza e protetti dal punto di vista della security. L’obiettivo dichiarato negli accordi, oltre che di ridurre il pendolarismo e facilitare la conciliazione tra lavoro e vita familiare, era quello di sperimentare un nuovo modo di lavorare con il lavoro per progetti o obiettivi, basati su scadenze e consegne. Questi obiettivi di innovazione organizzativa erano spesso accompagnati da progetti di formazione per i capi intermedi. Con l’introduzione del lavoro da remoto, infatti, l’azienda aveva il problema di modificare il sistema di coordinamento e controllo evolvendo da forme gerarchiche a soluzioni innovative a cui il middle management non era abituato. Come misura del tempo, pur conservando il riferimento al classico orario di ufficio, veniva di solito vietato il lavoro straordinario, troppo difficile da controllare. Un altro vantaggio per l’azienda era di poter organizzare in modo diverso gli spazi interni ed esterni, con risparmio sia dello spazio-ufficio sia dei parcheggi esterni. Quanto agli strumenti venivano talvolta utilizzati gli stessi mezzi del dipendente, altre volte quelli forniti dall’azienda.
Come noto queste esperienze di smart working, e la relativa contrattazione, si erano diffuse in modo limitato e solo nelle grandi imprese innovative che avevano esigenze di allineare il funzionamento organizzativo ai processi di innovazione tecnologica 4.0 con modelli ispirati a quella che abbiamo chiamato “lean evoluta” o alla recente “Agile organisation”. Nelle piccole imprese la diffusione era limitata alle start up oppure alle software house. Seppure pochi, questi casi hanno tuttavia avuto il merito di mostrare che il lavoro a distanza è possibile in forme più libere e meno vincolate del Telelavoro o “Teleworking”, concepito sin dagli anni ’90 come l’ufficio spostato nel salotto di casa, ma con un sistema di lavoro identico.
Lo smart working durante la pandemia.
Gli standard sanitari della pandemia hanno rivoluzionato questo piccolo mondo antico, obbligando l’immenso e variegato universo degli impiegati e dei tecnici a fare lavoro a distanza quasi al di là di ogni immaginazione. Vi è stato un superamento obbligato del pregiudizio per cui le persone non lavorano se non c’è l’occhio vigile del capo a controllare, e si sono forzate arretratezze di ogni genere. Si sono adattate al lavoro a distanza anche organizzazioni che lo ritenevano impossibile o avevano ben poche precondizioni organizzative e tecnologiche in grado di supportarlo. E’ stata una rivoluzione obbligata e una grande esperienza di massa che lascerà, speriamo, un buon segno e incentiverà l’innovazione sia tecnologica che organizzativa delle nostre imprese e dei nostri servizi pubblici. Ma ciò potrà avvenire a certe condizioni e se sapremo imparare dagli errori e dalla esperienza. L’esperienza del lavoro a distanza nell’era Covid può essere descritta osservando la netta spaccatura che si è creata tra gli ambienti innovativi, più attrezzati tecnologicamente e con più esperienza, e gli ambienti tradizionali, meno dotati sia tecnicamente che sul piano gestionale e delle abilità.
Negli ambienti innovativi, costituiti principalmente dalle grandi imprese già avanti nella rivoluzione tecnologica 4.0, ma anche nelle PMI innovative collegate alle catene del valore globale (Global Value Chain, in sigla GVC) e nei servizi evoluti pubblici e privati, l’adozione degli standard sanitari anti Covid è avvenuto con più facilità e più rapidamente che negli altri ambienti. Queste situazioni innovative che si adattano più rapidamente hanno in comune tre fattori ricorrenti: hanno effettuato ampie innovazioni tecnologiche digitali, hanno adottato soluzioni organizzative di tipo “lean” o “agile” che hanno reso l’organizzazione più flessibile, più manovrabile e più aperta a cambiamenti rapidi; ed hanno un elevato livello di partecipazione e di coinvolgimento dei lavoratori e delle rappresentanze. Il coinvolgimento dei lavoratori ha senza dubbio aumentato la responsabilità, la capacità di autocontrollo degli standard anti-covid, di affrontare i nuovi problemi sanitari, di risolvere problemi tecnici complessi con il supporto a distanza degli specialisti. Si può dire che in questi casi l’organizzazione non solo sa fare cose nuove ma anche ha imparato ad imparare. Una abilità collettiva che è stata preziosa contro la malattia. Rientrano in questi mondi sia le grandi imprese manifatturiere come FCA, Eni, Leonardo e molte altre, sia le imprese di servizi a rete come ENEL, Snamrete gas, sia molti gruppi bancari che avevano già accordi per lo smart working. Per tutte queste aziende è stato attivato un ampio ed efficace spostamento a distanza della grande massa dei lavoratori tecnici e amministrativi. Ma si possono inserire in questo gruppo anche molte PMI innovative che da tempo hanno investito nelle innovazioni tecnologiche e nei sistemi gestionali evoluti, come ERP, sistemi di progettazione evoluti e controllo a distanza dei sistemi produttivi. Tutte queste aziende si sono rivelate nella pratica molto più facilmente e tempestivamente adattabili ai forti cambiamenti richiesti dai nuovi standard sanitari per fronteggiare il COVID19.
Viceversa negli ambienti tradizionali si sono trovate molte difficoltà e problemi che hanno rallentato e reso più difficile l’adeguamento ai nuovi standard sanitari. In questi ambienti almeno tre fattori hanno giocato negativamente. Il primo è la questione dei sistemi infrastrutturali, di cui l’arretratezza tecnologica digitale è solo un aspetto; molto peggio è stata la incomunicabilità tra diversi sistemi informatici aziendali ancora a forma di “silos” verticalizzati, oppure la loro vetustà e rigidità data da procedure antiquate, incomplete e chiuse. Il secondo fattore è stata una organizzazione troppo piramidale e gerarchizzata abituata a lavorare sotto il comando diretto dei supervisori e dei capi e con bassa responsabilizzazione delle persone, e nessun lavoro in team. Un terzo fattore è stato il sistema di coordinamento e controllo tutto spostato sul comando e la supervisione diretta e non abituato a lavorare per obiettivi, risultati o progetti. In questi ambienti lo smart working si è configurato spesso come un trasloco dell’ufficio a casa dei dipendenti, spesso con il trasloco dei faldoni e delle carte e con un coordinamento e controllo fatto di molte telefonate e mail con i capi e i colleghi. Nella pubblica amministrazione sono stati segnalati casi in cui gli impiegati si sono portati a casa non solo le carte ma persino i timbri per assicurare continuità al servizio.
In quasi tutti i casi, la esperienza di massa del lavoro a distanza ha convinto tutti, anche i capi e gli imprenditori più tradizionali che la responsabilizzazione dei lavoratori funziona, che la produttività tende a crescere, che i sistemi di controllo basati solo sulla supervisione diretta sono antiquati e superabili, e che si può organizzare il lavoro diversamente operando su obiettivi, risultati, progetti, lavoro in team e condivisione di percorsi e programmi di lavoro. La grande maggioranza dei direttori del Personale intervistati in questi mesi sugli effetti del lavoro distanza ha affermato senza ombra di dubbio la sua efficacia e produttività e si è detta convinta delle necessità di perfezionare le soluzioni e di stabilizzarle nel futuro. L’esperienza della Pandemia ha però mostrato anche la diffusa arretratezza sia tecnologica che gestionale dei nostri sistemi pubblici e privati, e ha messo in luce quanto siamo ancora indietro nel diffondere e imparare a gestire le opportunità delle nuove tecnologie.
Come Dare continuità al lavoro agile.
Tuttavia la stabilizzazione e continuazione di questa esperienza, che viene da molti auspicata, richiede molte innovazioni e cambiamenti, che si possono descrivere sia dal lato dell’impresa sia da quello del lavoro.
Dal lato dell’impresa ci sono in primo luogo i problemi dell’adeguamento tecnologico e delle infrastrutture fisiche, gestionali e informative. Essi riguardano sia la progettazione di nuovi ambienti tecnologici e organizzativi, sia la progettazione di nuovi spazi, sia un nuovo equilibrio tra attività in presenza e quindi nel luogo di lavoro (o in gergo in “loco”) e attività a distanza. La progettazione di ambienti tecnologici e organizzativi nuovi richiede infatti una rivisitazione e snellimento dei processi, un superamento dei sistemi piramidali e gerarchici tradizionali, l’adozione di nuovi modelli organizzativi basati piuttosto sul lavoro di gruppo e sulla condivisione che sul controllo gerarchico diretto. Queste innovazioni devono poi essere supportate da tecnologie digitali, sia gestionali che tecniche e produttive, di tipo nuovo, orientate alla condivisione e comunicazione dei dati e non solo al loro uso esclusivo dei capi o dei tecnici. Ma tutti questi cambiamenti devono poi tradursi in sistemi innovativi di organizzazione e controllo del lavoro, anche nella piccola impresa, basati maggiormente sulla responsabilizzazione dei lavoratori e sulla gestione per obiettivi e risultati in modo contestualizzato e adattato ai diversi contesti e settori.
Un punto molto critico di questo cambiamento anche per le imprese è l’equilibrio tra attività a distanza ed esigenza di avere rapporti di lavoro diretti faccia faccia e con una vicinanza fisica. Si tratta di un punto delicatissimo, poichè è noto che molte attività di apprendimento e di comunicazione delle conoscenze si svolgono in modo informale e tacito e che si impara molto per vicinanza e per comunicazione diretta. Anche il linguaggio del corpo è spesso essenziale per l’apprendimento e la comunicazione efficace tra le persone. E questo vale sia per il lavoro manuale che per quello intellettuale, tecnico e anche manageriale. Inoltre il funzionamento dei team non può essere solo virtuale, tutte le esperienze anche nelle situazioni più evolute mostrano che i team a distanza, per quanto collaudati e smaliziati, richiedono talvolta e nei passaggi più importanti una relazione diretta per facilitare, con la comunicazione delle emozioni e dei sentimenti, la soluzione dei problemi e la creatività. C’è quindi un gigantesco problema di trovare un equilibrio tra “loco” e “distanza” per assicurare la socializzazione necessaria e di base ai lavoratori, ma anche per preservare l’apprendimento reciproco e il passaggio delle conoscenze tacite e informali, e infine per garantire il successo al lavoro in team e ai progetti. Più in generale i rapporti diretti, di dialogo faccia a faccia, sono quelli che aiutano a dare un senso umano al lavoro, ai rapporti con i colleghi e i capi, alla partecipazione alla cultura dell’impresa, allo stesso gruppo sociale informale che si crea sul lavoro. La ricerca di questo equilibrio tra loco e distanza è un problema del tutto nuovo e molto delicato nella gestione del personale e a maggior ragione nelle relazioni industriali. Sia le imprese che le direzioni del personale e i sindacati sono del tutto impreparati ad affrontarlo, anche perchè è poco studiato e affrontato nella formazione anche universitaria. Esso richiederà a mio avviso molti sforzi di comprensione e soprattutto molte sperimentazioni pratiche: nessuno ha la soluzione in tasca e probabilmente non esistono soluzioni ideali ma solo soluzioni adatte a ciascuna situazione e a ciascuna tipologia di lavoratori. Vale la pena di ricordare che già oggi è emerso, nelle piccole inchieste che abbiamo fatto sul campo, il diverso gradimento del lavoro a distanza tra diverse categorie di lavoratori. Ad esempio lo smart working sembra molto più gradito ai lavoratori tecnici e soprattutto ai progettisti, ma è molto sgradito ai commerciali e agli amministrativi. Verosimilmente, i progettisti sembrano gradire di avere qualche giorno in solitudine (sempre relativa) per risolvere complessi problemi di calcolo e progettazione, mentre i commerciali preferiscono il rapporto diretto, che è l’anima della vendita. Da capire gli orientamenti degli amministrativi, che forse si annoiano da soli sulle procedure chiuse della contabilità, oppure hanno esigenza di contatti informali coi colleghi per risolvere i problemi anomali e le varianze. Infine, per le imprese vi è il problema di riprogettare gli spazi che si vengono a vuotare per i lavoratori che stanno nel lavoro a distanza; gli esperimenti più avanzati sembrano suggerire una forte differenziazione degli spazi per tipo di utilizzo. Ad esempio c’è la necessità di spazi dedicati ai team virtuali e quindi alle teleconferenze, e oggi anche con rispetto delle prescrizioni sanitarie anti covid, poi ci saranno spazi per i lavori in team, per i lavori che devono essere svolti in solitudine e tranquillità, e infine anche per i lavori in piccoli gruppi o in coppia, adatti ai diversi ruoli e con le adeguate tecnologie. Tutto ciò senza contare i notevoli impatti sulle città di un pendolarismo diverso e ridotto, che svuoterà in parte i grattacieli delle concentrazioni impiegatizie dei centri storici o dei centri commerciali, e del parallelo rivitalizzarsi dei centri minori: grandi trend storici che andranno gestiti.
Ma poi ci sono altrettanti gravi problemi dal lato lavoratori. E’ chiaro che da questo punto di vista il vantaggio fondamentale è la possibilità di accrescere la conciliazione vita/lavoro. Ma essa non può limitarsi alla riduzione dei viaggi e alla possibilità di fare qualche piccola commissione durante il lavoro o dare un’occhiata ai bambini, o risparmiare sulla mensa e sulla benzina. Il primo grande problema è quello dell’equilibrio tra la socializzazione e l’apprendimento professionale che è supportato dal lavoro in presenza e la loro mancanza o riduzione durante il lavoro a distanza. A questo problema non si può rimediare soltanto lasciando la libertà di scelta al lavoratore, perchè è possibile che la sua scelta sia guidata più dai vincoli famigliari che dalla conoscenza degli effetti reali delle scelte. Anche qui ci vorranno esperienze e sperimentazioni guidate per aiutare i lavoratori e le imprese a trovare questo equilibrio. Poi un secondo grande problema è la questione degli spazi: infatti le nostre case non sono pensate per essere uffici ma solo per sostenere la riproduzione e il riposo. C’è quindi il problema di individuare o costruire altri spazi o di adattare spazi preesistenti modificandoli. Nel breve ciò sarà reso difficile anche dalle prescrizioni sanitarie, ma nel lungo periodo ciò contribuirà a modificare le città, anche in senso ecologico, riducendo l’immenso pendolarismo che oggi si dirige verso il centro sempre più intasato delle grandi città mondiali.
Centralità del tema della personalizzazione dello spazio e del tempo del lavoro
Infine il terzo grande problema dal lato dei lavoratori è quello della personalizzazione. Come per gli orari di lavoro nei quali è da tempo emersa l’esigenza di poterli differenziare in funzione delle esigenze di ogni fase di vita, così anche per il lavoro a distanza c’è l’esigenza di rendere possibile la differenziazione degli spazi e dei luoghi di lavoro in funzione delle scelte e degli orientamenti individuali che variano in funzione delle età della vita e delle condizioni socio famigliari, ma anche della distanza casa/lavoro. Ci sono periodi dedicati alla cura di bambini e anziani, e periodi più dedicati allo sviluppo professionale e alla ricerca di nuove esperienze. Non si può imporre a tutti gli stessi spazi e distanze come oggi, si può e si deve lasciare una parziale libertà di scelta in base a menù predefiniti e contrattati apertamente e liberamente. Anche la possibilità o volontà di cambiare il luogo della propria abitazione, oltre che il lavoro, può variare nel corso della vita in funzione ad esempio dei figli o degli anziani o anche del desiderio di conoscenza. Consentire diversi menù di scelta alle persone per lo smart working potrebbe favorire la loro vita, e la loro formazione professionale. Anzi i menù spaziali potrebbero integrarsi e fare sinergia con i menù temporali e gli orari di lavoro, offrendo maggiori possibilità per le imprese di flessibilità produttiva e di qualità del servizio e per le persone più libertà personali e maggiore conciliazione. La combinazione di soluzioni spaziali con soluzioni temporali accresce infatti di molto le opzioni sia per l’impresa, che può dilatare i tempi di produzione o di servizio, sia per i lavoratori che possono avere più opzioni e quindi ampliare il menù di scelta di quando e dove lavorare.
Combinare lavoro agile con riduzione di orario: lo spazio tempo del lavoro a menù
Un enorme problema che si evidenzierà nei prossimi mesi sono gli effetti molto negativi sull’occupazione e sul lavoro prodotti dalla somma della recessione economica post covid, con la maggiore produttività del lavoro a distanza, e infine con l’incremento di produttività generata dalla robotizzazione e dalle tecnologie digitali. Si tratta di effetti molto gravi soprattutto nel nostro paese che già soffre di disoccupazione cronica. Il rischio è che gli effetti della depressione post covid si saldino con gli investimenti innovativi nel digitale promossi per il futuro, generando tensioni ancora più forti sull’occupazione, se non saremo capaci di supportare le riconversioni produttive ed economica di cui abbiamo bisogno. L’idea è quindi di ovviare ai nostri mali cronici e allo stesso tempo preparaci al futuro combinando il lavoro agile con la riduzione progressiva dell’orario di lavoro per aumentare la produttività del sistema, ma anche per allargare l’occupazione e il lavoro attraverso più conciliazione, e inoltre per favorire la formazione di massa e la riconversione professionale.
La mia ipotesi è che ridurre l’orario di lavoro, in modi mirati, progressivi e in piccole dosi ma generalizzate, è una leva fondamentale per superare alcune difficoltà strutturali del nostro paese. Si tratta di congegnare riduzioni adatte alle filiere, distretti o alle singole realtà produttive e modulate sulle esigenze delle persone per prepararci ai sistemi produttivi del futuro e soddisfare nuovi modi di vita. Anche dal punto di vista della spesa pubblica allo Stato conviene incentivare forme strutturali di riduzione, flessibilizzazione e modulazione degli orari di lavoro, piuttosto che distribuire bonus e sovvenzioni improduttive e insostenibili. La proposta che ho avanzato in altre occasioni, combina tre interventi strettamente collegati: la lotta allo straordinario, la riduzione generalizzata dell’orario per alcune ore medie settimanali, una maggiore diffusione del part time soprattutto nella forma delle 6 ore medie settimanali
Il primo punto della proposta è la lotta all’uso patologico dello straordinario, molto diffuso nel nostro paese. Essa va coniugata con l’adozione di strumenti alternativi di flessibilità produttiva, più evoluti, meno costosi e che accrescono la produttività delle aziende. Erroneamente si ritiene che lo straordinario sia un risparmio: infatti la singola ora è pagata meno dal momento che su di essa non gravano molti istituti salariali e contributivi (ad es. la liquidazione). In realtà lo straordinario è fonte di costi nascosti e di sprechi con ricadute negative su qualità e produttività. Esso è un malcostume dannoso prima di tutto alle imprese e poi alla salute dei lavoratori e all’occupazione de giovani.
Il secondo punto della proposta è quello della riduzione generalizzata di orario (fra 34-38 ore medie settimanali) ma flessibile e modulabile da 40 ore nei picchi produttivi a 30-35 nei flessi. Questa riduzione strutturale può essere molto utile per fronteggiare le oscillazioni generate dalla pandemia, ma anche per ridurre l’impatto della disoccupazione tecnologica e infine per rendere disponibile del tempo per una nuova stagione di formazione continua di massa indispensabile per adeguarci al 21°secolo. Si tratta di superare l’attuale paradigma di orario standard (centrato sulla giornata lavorativa di 8 ore) con l’adozione di sistemi di orario che combinano flessibilità produttiva e conciliazione vita lavoro.
Il terzo punto della proposta riguarda la maggiore diffusione degli orari a Part Time, cioè quelli con orari medi giornalieri di 4, 5, e soprattutto 6 ore purché resi più flessibili e più modulabili. Anche in questo caso la gestione degli orari Part Time combinati con quelli a Full Time dovrebbe essere modulabile con accordi tra azienda e lavoratore, secondo regole esplicite negoziate a livello aziendale o di filiera con l’obiettivo di offrire alcuni margini di libertà al lavoratore per la conciliazione (cosiddetti orari a menù).
A mio avviso queste manovre di riduzione degli orari potrebbero essere integrate e coordinate con la stabilizzazione in forme nuove del lavoro agile a distanza, con effetti di sinergia a vantaggio sia per le aziende che per i lavoratori. Tutto ciò può sembrare molto fantasioso e fuori dalla realtà. Tuttavia una manovra combinata su riduzione di orario mirata e a piccole dosi, insieme alla stabilizzazione dello smart working potrebbe essere una componente di quel salto nella produttività del sistema che stiamo cercando da molti anni. Questo salto di produttività potrebbe essere generato da tre fattori concomitanti e convergenti.
Un primo fattore riguarda le manifatture e il lavoro operaio in genere: tutte le esperienze aziendali innovative di cui disponiamo mostrano che i turni di 6 ore sono molto più produttivi e meno costosi di quelli di 8 ore, inoltre che per la gestione di ambienti tecnologici evoluti e digitalizzati, con molta robotica e tecnologie 4.0, i turni di 8 ore sono inadatti e che lo straordinario è fonte di sprechi. Un secondo fattore potrebbe essere il salto di produttività che potrebbe derivare dal lavoro a distanza per il mondo tecnico e impiegatizio, se stabilizzato e ben strutturato in forme evolute come abbiamo descritto sopra. Un terzo fattore è dato dalla diffusa innovazione tecnologica digitale nelle su varie applicazioni, stimolata dai programmi europei e collegata a un salto nei nuovi modelli organizzativi, si tratta di innovazioni che senza alcun dubbio produrrebbero un forte incremento di produttività e di competitività del nostro sistema economico. Questi incrementi combinati tra loro potrebbero creare più margini nei bilanci delle imprese per consentire aumenti salariali molto significativi, tali da compensare la riduzione di straordinario e le riduzioni di orario anche nel caso del part time a 6 ore e probabilmente anche per accrescere i salari reali. La manovra consentirebbe di aumentare allo stesso tempo la produttività e di tutelare l’occupazione, e infine di espanderla verso le donne e i giovani con soluzioni di maggiore conciliazione vita/lavoro consentite dalla scelta di menù spazio temporali.
In breve l’idea è che la combinazione di uno smart working stabilizzato, con le riduzioni di orario descritte sopra, potrebbe essere una leva preziosa per accrescere la produttività senza aumentare la disoccupazione ma al contrario difendendo quella esistente e accrescendo quella di donne, giovani e anziani, in virtù della maggior scelta consentita dai sistemi a menù e della maggiore conciliazione tra vita e lavoro.
In questa visione nel lavoro dei prossimi decenni si configurerebbe un superamento del modello spazio temporale tradizionale del lavoro dipendente dei due secoli passati. Esso era centrato sul lavoro esclusivo “sotto padrone” in fabbrica o ufficio con orario standard di 8 ore. L’idea è che si debba abbandonare sia la giornata tipo del lavoratore come era stata pensata nell’800: cioè 8 ore di lavoro, 8 ore di sonno, 8 ore di recupero (8×3=24) e sia il luogo fisso per favorire il controllo a vista. Essi non sono più in grado di sorreggere i nostri sistemi produttivi ad alta tecnologia, alta flessibilità e con richieste di conoscenze nuove, diffuse e in rapida evoluzione. Oggi è necessaria una ridefinizione dello spazio e del tempo di lavoro basata su nuovi criteri di controllo e coordinamento e su una maggiore possibilità di scelta da parte del lavoratore. Gli elevati incrementi di produttività consentiti dalle nuove tecnologie sia nel lavoro manuale che intellettuale non debbono andare solo a vantaggio delle imprese ma devono anche consentire riduzioni di orario per distribuire i benefici a tutti e per liberare tempo per la formazione di massa generalizzata di cui abbiamo disperato bisogno. La riduzione di orario di lavoro limitata ma generalizzata, con variabilità concordabile tra azienda e persone e con ore (almeno 1 o 2 ore al giorno) di formazione continua obbligatoria per tutti è a mio avviso un ingrediente essenziale di questa politica insieme alla stabilizzazione e migliore organizzazione del lavoro agile.