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Su troppi fallimenti non si costruisce nulla di buono

La diciannovesima assoluzione definitiva ottenuta qualche settimana fa da Antonio Bassolino ha riportato alla memoria un’epoca – quella del “Rinascimento napoletano” – che sembra remota, ma dalla quale in fondo ci separano meno di trent’anni. Intendiamoci: era un abbaglio, come lo fu più in generale il risultato delle elezioni comunali dell’autunno del ’93, quello che indusse Occhetto ad allestire la gioiosa macchina da guerra che Berlusconi avrebbe annientato. Ma al Sud comunque qualcosa sembrava cambiato. Nelle amministrazioni regionali la sinistra aveva espugnato le casematte della lunga egemonia democristiana (emblematica della resa senza condizioni, a Napoli, la candidatura di Massimo Caprara da parte del Ppi nel 1993): e questo, dopo lo smantellamento della Cassa del Mezzogiorno e degli altri istituti dell’intervento straordinario, poteva preludere ad un inedito protagonismo degli enti regionali nella gestione di un nuovo meridionalismo.

Non fu così. Per rendersene conto basta rileggersi un saggio di Nicola Rossi del 2005 (Mediterraneo del Nord, ed. Laterza) in cui si dimostra come, nonostante l’incremento dei trasferimenti a favore del Mezzogiorno, le regioni non siano state capaci di indicare e percorrere un itinerario di sviluppo: imperdibili le pagine dedicate alla metropolitana di Bari ed ai campi da golf da realizzare sulla Maiella. Così come sarebbe utile riflettere sul fallimento – a cavallo fra prima e seconda Repubblica – di quegli istituti di “programmazione dal basso” (patti territoriali, contratti di programma) con cui la cultura del Censis – quando De Rita era presidente del Cnel – era penetrata nella strategia delle istituzioni centrali e periferiche.

Con questi precedenti, nessuno può stupirsi del successo dei Cinque stelle, e nemmeno dell’estensione al Sud di quella che era nata come Lega Nord: oppure del trionfo, al Comune di Napoli, di un ex magistrato che si presentava come il nuovo Masaniello. Né ci si può consolare enfatizzando la tenuta del centrosinistra nelle recenti elezioni regionali in Puglia e in Campania. A “tenere”, infatti, non è stato il centrosinistra, ma i governatori uscenti: i quali hanno messo insieme un’accozzaglia di liste minori delle quali è difficile apprezzare i profili politici e programmatici, confermando così il carattere oligarchico di una governance fondata sul consenso raccolto da alcune decine di cacicchi. 

Il fenomeno, per la verità, ormai non riguarda solo il Mezzogiorno, se è vero che nel Veneto la lista personale di Zaia ha surclassato quella della Lega. E’ invece il risultato di una schizofrenia che affligge da tempo il nostro sistema politico, e che dipende da un lato dalla diversità delle regole elettorali fra centro e periferia, dall’altro dagli effetti collaterali della riforma del Titolo V della Costituzione, che fa dei presidenti delle giunte regionali “uomini soli al comando” molto più di quanto sarebbero stati i presidenti del Consiglio se i custodi della Costituzione più bella del mondo non avessero interdetto la riforma Renzi – Boschi. 

Questi uomini soli, peraltro, comandano sul nulla: sono galli sull’immondizia, per usare un gergo napoletano un po’ volgare. La parcellizzazione del consenso, infatti, non li aiuta a concepire progetti innovativi, ma li costringe anzi a proteggere i microinteressi di cui è composta la loro constituency politico-elettorale. Per ovviare alla situazione, una decina d’anni fa Giorgio Ruffolo – nel considerare che l’Italia è Un paese troppo lungo – aveva proposto la costituzione di una macroregione del Mezzogiorno continentale: e forse è il caso di prenderlo sul serio.

*Direttore Mondo Operaio

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