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Perché – Come, binomio del post pandemia

In questo momento, in cui la pandemia ha creato sconquassi mostrando mancanze, pecche e carenze delle nostre società, vorrei vedere la fila di chi invoca il cambiamento dell’attuale organizzazione sociale trasformarsi nella fila di chi dice come, essendo pronta a partecipare al cambiamento.

Non volendo in nessun modo partecipare alla cultura del tanto peggio tanto meglio, non dirò mai: “Finalmente è nudo il Re dei consumi e del disinteresse umano per la salute degli ecosistemi”. Voglio dire che l’aumento delle negatività introdotte dalla pandemia ha mostrato, con tanto dolore e morti e nuove povertà, i limiti dell’organizzazione sociale, sanitaria e del lavoro costruita negli ultimi decenni dalle nostre politiche economiche.

A prescindere dal numero degli eventuali compagni di strada nel cambiamento, è sul come che vaghiamo nel buio di un presente incerto che non riesce a svincolarsi dal suo passato. Il popolo reclama risarcimenti, restituzioni, compensazioni, non riuscendo culturalmente ad abbandonare i credi e le abitudini sociali, imprenditoriali e individuali consolidatisi con il modello basato sul paradigma dei valori quantitativi e dei consumi.

Nella sua brutalità e aggressività Covid 19 ha mostrato le negatività di cui le nostre società sono portatrici indicando anche il PERCHÉ sono state promotrici e coadiuvanti:

  1. Nasce a seguito di una qualche e più drammatica trasformazione territoriale che ha comportato una significativa variazione degli equilibri consolidati dell’ecosistema esistente. Tutti sappiamo (anche se troppo spesso ci comportiamo come se non sapessimo) che ogni trasformazione che operiamo sul territorio crea spazi, luoghi e relazioni diverse tra gli elementi nuovi e quelli superstiti che sono costretti a trovare adattamenti, fughe ed equilibri di cui non conosciamo né i valori né le dinamiche interne ed esterne.

Siamo culturalmente dipendenti ed economicamente condizionati da teorie che misurano le trasformazioni territoriali sul soddisfacimento immediato della domanda sociale e individuale, incuranti delle conseguenze ecosistemiche che si produrranno.

  1. Si propaga attraverso modelli di residenza e di mobilità forsennata, incuranti dell’igiene (la prima manifestazione conclamata è in un mercato ittico) e del rispetto che dovremmo avere, come individui ed esseri sociali, per la salute propria e generale.
  2. Non trova argini, sia per il suo ingresso a gamba tesa, sia per la presenza di un sistema sanitario (prevalentemente privatizzato e attento al benessere alberghiero) che ha abbandonato o marginalizzato molti ospedali pubblici e presìdi sanitari sul territorio.
  3. Superando le deboli barriere sanitarie, ha continuato la sua espansione grazie alla cultura sociale e individuale che, condizionata dalle necessità di consumare, ha cercato di contrastare prudenze e distanziamenti. Il sentire comune ha mostrato insofferenza per le richieste di modificazione delle abitudini al consumo che, in assenza del vaccino, sono le uniche che possono tamponare la proliferazione. 
  4. Con le stesse accelerazioni con cui si è propagato, ha fatto crescere gli indici di povertà generale e individuale soprattutto nei settori afferenti all’economia del consumo e di quelli strutturati sull’unico valore imprenditoriale della produttività.

Non dovrebbe essere difficile dare una risposta. Anzi, è talmente semplice che uno ha il timore di scrivere pensando di dire banalità:

  1. Quando progettiamo e realizziamo le trasformazioni territoriali, dovremmo considerare il territorio per quello che è: un ecosistema che ha un suo equilibrio. Quando lo modifichiamo, non realizziamo solo ciò di cui la società o l’individuo committente ha bisogno, ma anche una variazione dell’equilibrio consolidato. Produciamo noi un’altra condizione di equilibrio che non è detto sia accettabile dagli elementi sopravvissuti. L’ecosistema prodotto non rimane in attesa di “suggerimenti” a noi funzionali, ma si riarticola autonomamente producendo i suoi nuovi equilibri. Frane, smottamenti, inquinamento dell’aria e delle falde acquifere stanno lì, in bella mostra e, se abbiamo come obiettivo quello di vedere, non dobbiamo far altro che guardare.

Quando si progetta una trasformazione (territoriale, edilizia o altro) le scienze del costruire e della pianificazione fisica devono introdurre nel loro statuto le regole dell’ecologia. Non è più possibile pensare processi trasformativi che non siano misurati sui valori ecologici, la salubrità del luogo, il benessere sistemico.

  1. È vero che siamo passati in tempi rapidissimi da uno a otto miliardi di abitanti, ma abbiamo costruito città, luoghi dell’abitare e territori agricoli preposti all’inquinamento, a consumare e con fabbisogni di surplus energetici.

Non entro nel merito delle scelte, anch’io sono stato un allievo culturale della Bauhaus e del razionalismo, ma era evidente a tutti che l’impronta ecologica (città, trasporti, consumi energetici, impermeabilizzazione del suolo ecc.) era destinata a indebolire gli equilibri degli ecosistemi naturali direttamente o indirettamente dipendenti dalle nostre trasformazioni. Siamo noi che abbiamo costruito le condizioni di benessere o malessere determinando le condizioni generali nei nuovi equilibri e squilibri sistemici;

  1. Sono anni che ogni finanziaria taglia sui servizi sanitari. I motivi sono molti: una lotta prima sorda e poi palese allo stato sociale, il valore economico della sanità privata ecc.

Il risultato è stato un proliferare delle cliniche private, vaste aree non coperte da strutture pubbliche, il presidio medico pubblico sul territorio indebolito e non solo nelle aree interne e montane ma anche in quelle urbane e pianurali.

  1. La grande distribuzione legata ai valori quantitativi e disattenta alla cultura della qualità ha invaso e condizionato il commercio e la ristorazione delle fasce diurne della giornata (colazioni, pausa pranzo ecc.). Ne sono derivati affollamenti, scarsa qualità e igiene, rapporti urbani e sociali che producono rischi e non tranquillità e sicurezza.
  2. I punti deboli dell’organizzazione sociale sono diventati l’anello debole e su di loro sono stati presi i primi provvedimenti. Il collasso economico è stato notevole. Tutte le strutture produttive legate alla ricerca della massima produttività hanno verificato i limiti di queste progettazioni delle e nelle fabbriche; l’organizzazione spaziale legata al massimo profitto è entrata in contraddizione palese con gli spazi necessari al benessere umano e l’aggressività della pandemia non ha concesso sconti e non ha permesso di nascondersi dietro al dito. 

Sono pienamente cosciente dei limiti propri delle sintesi quando semplificano le diversità e le complessità delle culture e degli interessi, ma sono convinto che sia facile arrivare al COME se decidiamo di entrare nella cultura degli investimenti misurati sulla sostenibilità ambientale e sociale, superando la cultura racchiusa nel binomio spesa-risarcimenti:

  1. Il primo obiettivo è quello della riqualificazione degli ecosistemi territoriali attraverso opere di riqualificazione degli ecosistemi, dell’ambiente urbano, dei manufatti edilizi e del sistema della mobilità. I progetti di riqualificazione devono essere misurati su alcuni indici: la produzione di CO2; i consumi energetici legati alle fonti rinnovabili; l’agricoltura ricondotta a presidio del territorio; la riqualificazione delle periferie e delle aree tra l’urbano e il rurale (spesso fonti dei più svariati abusivismi); l’avvio deciso verso il riciclo (senza la demonizzazione dei termovalorizzatori e con incentivi alle imprese che producono imballaggi e contenitori interamente riciclabili); la penalizzazione dei processi produttivi che non si ristrutturano su produzioni di oggetti d’uso e di scarto riciclabili in nuovi processi produttivi.

Per ciò che riguarda le aree interne e montane  vanno avviati processi di riqualificazione ambientale ripristinando le essenze arboree autoctone, eliminando quelle piantumate solo per la facilità di ricavarne legno per l’edilizia (inadatte alla geologia dei luoghi, cadono ad ogni stormir di vento o ad ogni pioggia impetuosa), riproponendo agricoltura, allevamenti e produzioni casearie che oggi, e senza ricorrere agli scempi degli allevamenti intensivi, possono godere delle nuove tecnologie, in primis digitali, capaci di monitorare tempi e condizioni.

Infine vanno costruiti, anche con il supporto dei monitoraggi digitali, corridoi ecologici che leghino il verde urbano con quello extraurbano (agricolo, montano) e i luoghi d’acqua (percorsi fluviali, laghi, coste marine).

Questi tipi d’interventi hanno il vantaggio di essere partecipi e propulsori dell’economia locale, sollecitano l’interesse degli abitanti che vivono direttamente i disagi, favoriscono i processi partecipativi e sono a grande intensità di lavoro.

È chiaro che per questo tipo di economia servono, tra le altre, tre cose: una forte determinazione degli Enti Locali, un cambio culturale e comportamentale che punti sulla partecipazione e sui valori dello sviluppo locale, un forte supporto formativo e informativo attuabile attraverso la scuola e l’uso (come strumento) delle tecnologie digitali.

  1. Le nostre città fanno pena e non solo nelle periferie. Mostrano tutti i segni del sovraffollamento: inquinamento da CO2, polveri sottili, surriscaldamento con una cupola di aria calda di diversi gradi superiore alla temperatura delle aree contermini, sovraffollamento animale alla ricerca di caldo e cibo. Dobbiamo progettare e realizzare un sistema di mobilità che si svincoli dalla cultura del consumo individuale e si misuri sulla rapidità e facilità della mobilità.

È sul tema della città che va organizzato un grande piano di investimenti rivolto alla qualità e sostenibilità. Sono queste le grandi opere che devono garantire, oltre a una migliore mobilità, l’avvio di una fase di ridisegno/costruzione delle città attraverso una fase di demolizione/ricostruzione. Dobbiamo sostituire le orribili periferie con luoghi in cui sia piacevole vivere. 

  1. Bisogna ricostruire un sistema sanitario legato al territorio. Oggi con la possibilità d’uso dell’informatica e della digitalizzazione serve solo la volontà di costruirlo. 
  2. Per il settore alimentare, la ristorazione ecc., ci vuole uno sforzo culturale. Passare dalla cultura quantitativa ritornando a quella qualitativa non è facile. La medicina, la cultura dell’igiene, la rieducazione al cibo, ai sapori, alla salute, devono diventare un impegno sociale e culturale a cui nessuna istituzione può e deve sottrarsi.

Un nuovo rapporto individuo-qualità è il presupposto di nuove economie; tra queste (e per citare solo le più percepibili e immediate) ci sono quelle che legano i distretti agricoli-zootecnici ai luoghi di consumo in un abbraccio capace di trasformare le future pause pranzo in momenti di benessere e non di progressivo avvelenamento. 

  1. È su questi punti che si creano nuovi lavori e nuova imprenditoria in un passaggio virtuoso da politica della spesa a politica degli investimenti, ed è su questi punti che possiamo costruire un modello di sviluppo incentrato sulla qualità e sulla sostenibilità.

C’è bisogno di una reale disponibilità al cambiamento sorretta da una nuova cultura dello sviluppo e del benessere individuale e sistemico-collettivo.

Abbiamo bisogno di una cultura sociale e individuale, istituzionale e imprenditoriale rivolta alla sostenibilità dello sviluppo, alla partecipazione, alla ripartizione equa delle ricchezze. Le conoscenze e le risorse tecnologiche ci sono, ora anche le risorse economiche.

Certo le nuove povertà ci sono e reclamano soluzioni immediate ma non dimentichiamo che forse sono state solo accelerate dalla pandemia. Aiutiamo ma non finanziamo il passato. Ora si tratta di convincersi che un nuovo modello è possibile guardando la realtà con occhi disposti a vedere: bisogna cambiare e partecipare al cambiamento costruendo cultura, lavoro e nuova imprenditorialità collettiva e individuale.

P.S. Abbiamo presente quante start up stanno nascendo? Evviva.

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