Un tempo, con una certa dose di retorica si diceva: “Noi non sappiamo come sarà il mondo di domani, sappiamo però che esso sarà come lo vorranno i ragazzi di oggi, e sarà sul loro orologio che si dovrà leggere l’ora del futuro”. Allora i giovani erano molti e in forte crescita, si parlava di baby boom, per cui la frase aveva un senso. La società, uscita dagli orrori della guerra, era tutta impegnata a costruire il futuro. Si cresceva a ritmi sostenuti e i problemi dei giovani erano più facilmente individuabili e gradualmente risolvibili: istruzione, salute, lavoro.
Poi è venuto il ’68, e i giovani hanno contestato la qualità di quello sviluppo, chiedendo, con maggiore radicalità e urgenza, più uguaglianza delle opportunità e maggiore distribuzione del potere e del benessere. Io ho vissuto quel periodo nel sindacato, credo il soggetto che più si è impegnato e ha lottato per dare uno sbocco riformatore a quella spinta giovanile. Lo Statuto dei diritti dei lavoratori, le 150 ore per consentire il raggiungimento dell’obbligo scolastico a centinaia di migliaia di lavoratori, e la riforma del Servizio sanitario nazionale rappresentano le conquiste più rilevanti di quegli anni. La fase successiva della società italiana non ha tenuto fede a quelle prospettive di qualità della crescita e di inclusione avviate allora, sia per la carente risposta delle istituzioni, sia per l’emergere di spinte regressive in quel movimento, sia per la crisi della politica, incapace di risposte all’altezza dei problemi, sia infine per il sopraggiungere di crisi economiche che hanno rotto l’equilibrio del vecchio modello di sviluppo rallentando notevolmente la crescita.
Oggi la situazione è del tutto cambiata e la frase suindicata suona come falsa e carica di ipocrisia. Innanzitutto, perché i giovani oggi sono pochi, come da tempo ci spiegano le tendenze demografiche, tanto che l’intera popolazione italiana è in diminuzione nonostante la necessaria integrazione dei migranti. In secondo luogo, perché i giovani oggi paradossalmente contano meno di ieri: in famiglia, nella scuola, nel lavoro e più in generale sono largamente trascurati nelle priorità delle politiche pubbliche. Nella scuola siamo in coda alle classifiche europee per il basso tasso di scolarizzazione dei giovani, per i livelli di dispersione scolastica, e, da anni, ci portiamo dietro una folla di oltre due milioni di giovani neet, che non studiano e non lavorano. In questo campo l’esperienza dimostra che le scelte e i risultati migliori sono largamente influenzati dalla realtà della famiglia di origine, che rimane spesso l’unico ascensore sociale che funziona, ma che, nei fatti, determina una vera e propria discriminazione classista tra i giovani, che influenzerà tutta la vita successiva. Oggi, nella lotta al Covid-19 la scuola rimane, non a caso, l‘ambito nel quale più direttamente si manifestano l’incertezza e la contraddizione tra aperture e chiusure, con effetti negativi sulla formazione dei giovani, anche perché sono loro che pagano il prezzo più alto in termini di minori relazioni sociali e culturali, e possibilità di sport e di svago.
Nel lavoro, in termini di maggiore difficoltà a trovarlo in relazione alle aspettative e al progetto che ha motivato gli studi. L’incontro con il lavoro acquista per i giovani spesso i caratteri di un vero e proprio trauma. E’ infatti in tale occasione che si sperimentano i gravi effetti di un Paese che da anni non cresce, non innova, non offre una consapevole prospettiva di sviluppo nella quale i giovani possano individuare un loro futuro in sintonia con le loro aspettative maturate durante e dopo la scuola. Invece i lunghi, i tempi di ricerca di un lavoro, la qualità scadente e precaria delle concrete possibilità di occupazione che spesso suonano come una svalutazione del valore dello studio precedente. Una condizione di difficoltà e di umiliante subordinazione che spesso determina la scelta di cercare lavoro all’estero dove spesso è più facile trovare una occupazione di qualità. L’emigrazione crescente di giovani, tra i più scolarizzati e dotati di maggiori capacità, costituisce una perdurante perdita di energie vitali che condiziona negativamente le possibilità di sviluppo futuro del nostro Paese.
A queste difficoltà del presente si aggiungono le preoccupanti prospettive per il futuro, che possono determinare una vera e propria frattura generazionale nelle condizioni di vita. MI riferisco al livello del debito pubblico che oggi, dopo le scelte determinate dal Covid, nel suo rapporto rispetto al Pil naviga attorno a 160 e costituisce una enorme zavorra destinata a condizionare le possibilità di investimento e di crescita futura, tanto più pesante in quanto destinata a cadere sulle spalle di una popolazione ridotta nel numero e mediamente più invecchiata, quindi con minore possibilità di reazione e di crescita. A questo si aggiunga un sistema pensionistico costoso (17% del Pil nel 2020) ed esposto a ricorrenti pericoli di finire fuori controllo, per il crescente squilibrio tra pensionati e lavoratori attivi, i cui salari medi consentiranno contributi che difficilmente saranno in grado di pagare le pensioni della crescete popolazione anziana. L’insieme di queste condizioni e prospettive configurano una condizione giovanile gravata di problemi e di difficoltà in una società fragile, dove basta poco per trovarsi improvvisamente in condizioni di marginalità e povertà. Una condizione dimenticata se non negata dalla politica ufficiale, come appare anche in tanta parte dell’attuale discussione sul Recovery Plan. Ci stiamo incamminando sull’impervio sentiero di una ripartenza del Paese, senza rendere esplicita una visione sul suo futuro, con l’aggravante che coloro che, nel bene e nel male, saranno in gran parte i futuri protagonisti dell’impresa, rimasti largamente trascurati e lasciati ai margini. Una realtà che proietta pesanti condizionamenti negativi sul suo esito.
In questo frangente, che l’attuale modo di gestire la crisi della maggioranza di governo, sta ulteriormente aggravando, diventa doveroso porsi la domanda: “Come reagiranno i giovani?”. Se nel ’68 reagirono con la contestazione dei caratteri di quel certo benessere raggiunto, con esiti alterni, oggi la situazione è diversa e peggiore, perché diversa è la fase di sviluppo e i giovani sono pochi e con minori possibilità di mobilitazione collettiva. Ciononostante, come mettono in evidenza le analisi e le testimonianze allegate a questa nota, molti giovani stanno reagendo positivamente con l’impegno personale e nel volontariato. Ma non illudiamoci che questo sia sufficiente. Data la situazione, dobbiamo aspettarci una reazione ben più profonda e diffusa. I segnali che in vario modo le diverse società democratiche stanno inviando riguardano la politica che, essendo in crisi, ricerca vie di ribellismo antidemocratico che spesso non rifiutano la violenza. L’ondata populista e sovranista della destra, anche estrema, che le attuali vicende degli Usa hanno reso evidenti, anche se in difficoltà, rimane un pericolo reale con il quale dovremo fare i conti. Anche da noi una pratica dei rapporti sociali segnati dalla violenza, propri di una destra in fase di crescita, sta lambendo il mondo giovanile con alcuni preoccupanti segnali. La diffusione delle bande giovanili nelle quali la pratica della violenza gratuita risulta l’identità prevalente, e i ricorrenti ritrovi di giovani per dar luogo a risse collettive fine a sé stesse, rimangono manifestazioni presenti e diffuse. Se questi episodi dovessero incrociare organicamente l’ideologia politica della destra, e diventare parte, più o meno consapevole, di una politica, dovremo aspettarci un futuro molto più complicato e difficile. O la politica, nella sua maggioranza, saprà trovare le scelte e la pratica di governo, segnate da una responsabilità all’altezza dei problemi del Paese, o le sorti dell’Italia saranno esposte a tutte le involuzioni possibili. Il rapporto tra i giovani e il futuro rimarrà comunque una realtà.