“Un grande organizzatore, un combattente della politica che alla stesura di manifesti preferiva la lotta per raggiungere l’obiettivo, un uomo intransigente che sapeva superare anche le sconfitte”. Pierluigi Castagnetti ha condiviso con Franco Marini cinquant’anni di vita politica – prima nella Dc, poi nel Ppi, infine nella Margherita e nel Pd – e di amicizia personale. “I suoi limiti derivavano dal carattere pugnace, la sua popolarità pertiniana era dovuta al forte ancoraggio con il mondo degli alpini, di cui non perdeva né un’adunata né la visita a una sezione”.
Con Marini vi conoscete dai tempi della Dc. Quando vi siete incontrati?
Alla fine degli anni Sessanta. Eravamo entrambi nella corrente democristiana Forze Nuove, che faceva capo a Donat Cattin. Franco militava ancora da sindacalista e non da politico impegnato, mentre dopo l’esperienza al vertice della Cisl assunse poi la leadership della corrente. Sotto la segreteria Martinazzoli abbiamo lavorato fianco a fianco: io come capo della segreteria politica, lui come responsabile organizzativo del partito. Era un grande organizzatore: quando si decise la trasformazione della Dc in Ppi, fu lui a gestire quella partita.
Foste anche rivali per la segreteria del Ppi nel ’97. Questo incise sui vostri rapporti?
No, affatto. Siamo sempre rimasti amici. Il clima nel Ppi era molto diverso dalla vecchia Dc: era un partito piccolo e unito, senza correnti. Andò così: dopo aver appoggiato Buttiglione, Franco se ne staccò quando Rocco scelse di allearsi con il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi, e sostenne Gerardo Bianco. Quando poi si candidò a succedergli, io fui il suo competitor. Mi sconfisse, ma al giro dopo non si candidò e mi sostenne. Fui il suo successore.
Com’era il giovane Franco Marini?
Uguale. Un grande combattente politico. L’agonismo della competizione tra correnti lo appassionava. Anche per questo si trovava bene nella Dc: era uomo da grande partito e grande sindacato. Nella Cisl perse con Pierre Carniti, suo storico amico, ma ne divenne il numero due preparandosi a vincere il congresso successivo, come poi accadde. Ricordo che non gli piacevano i manifesti. Quando c’era un obiettivo, prendeva in giro quelli che stendevano manifesti: per lui la politica era lotta. Si trattava di raggiungere un risultato, anche personale ma sempre dichiarato.
Un grande organizzatore e un combattente. Difetti?
Era anche un ottimo oratore. I suoi limiti derivavano dall’animo pugnace: chi non lo seguiva veniva spesso marginalizzato. Aveva un carattere forte da leader.
A tratti scorbutico, ma molto amato da chi ha lavorato con lui.
Potevano scappargli parole forti, ma non era mai subdolo. Combatteva le battaglie a viso aperto, senza opacità, e tutti gli hanno riconosciuto l’integrità personale. Ha visto il tweet di Arturo Parisi, suo apparente avversario nella Margherita?
Questo: “Era un lupo, fedele al branco chiedeva fedeltà. Lontano dalla retorica ravvivò l’appartenenza. Un popolare radicato nel suo popolo”.
E’ così. Era intransigente. Molto amato. E se perdeva, ripartiva.
Ci fu la sofferta “sera dei Franceschi Marini”, che comunque gli valse la presidenza del Senato nel 2006. L’amarezza peggiore rimane però il mancato approdo al Quirinale nel 2013, per colpa dei franchi tiratori e del no di Matteo Renzi. La delusione si era attenuata con il tempo?
Gli era passata perché conosceva l’ambiente della politica. All’epoca ci rimase male perché aveva ricevuto assicurazioni dentro e fuori la sinistra senza le quali non si sarebbe candidato e che poi non si sono rivelate corrispondenti ai comportamenti. Si sentì umanamente tradito. Ne parlammo, ma fu rapido a metabolizzare il dispiacere. Sapeva che sul Quirinale si addensano molte aspettative e non ha mai perso lucidità.
Ma in cuor suo, Marini era davvero convinto della nascita del Pd?
Molto. Era convintissimo che servisse un passo ulteriore verso l’unità più larga del centrosinistra. In un sistema tendenzialmente bipolare il Pd era una scelta inevitabile per competere con il centrodestra con prospettive di vittoria.
Non fu mai in sintonia con Romano Prodi, però.
Non fu prodiano e nemmeno veltroniano. Le allusioni al superamento della forma partito, a un movimento come fu l’Ulivo, a una categoria di rappresentanza diversa da quella tradizionale, non lo convincevano. Non era una questione caratteriale né personale: era un giudizio politico. Aveva anche riserve, meno accentuate, nei confronti di Veltroni: non accettava l’idea di un partito liquido.
Era soprannominato il Lupo Marsicano o Scintillone, meno frequentemente, non si sa se per il colore delle cravatte o perché aveva un carattere che si “accendeva”. Gli piaceva o gli dava fastidio?
Se ne compiaceva. In realtà non veniva dalla Marsica, ma aveva un legame carnale con l’Abruzzo, il suo territorio.
Aveva persino organizzato la Festa invernale del Ppi a Roccaraso…
Quello avvenne durante la mia segreteria. La facemmo per due anni di seguito. La vita vera di Franco, fuori dalla politica, era in Abruzzo. Si fermava in ogni frazione: se non c’era una sezione del partito ce n’era una degli alpini.
Negli alpini aveva prestato servizio militare da ufficiale. Era rimasto in contatto?
Non perdeva un’adunata nazionale. Conservava il cappello originale da tenente con la penna nera: era sgualcito, ogni volta gliene regalavano uno nuovo, ma lui si teneva quello. Credo che la sua popolarità, intesa come affetto e riconoscimento da parte del popolo al di là delle alterne fortune che si possono avere in politica, nascesse proprio da questo ancoraggio nel mondo degli alpini. Quando passava, in testa al corteo, era sempre applauditissimo. La sua era una popolarità “pertiniana”.
Negli ultimi anni aveva abbandonato la vita pubblica. Cosa pensava di questa fase della politica?
Non si riconosceva più. A gennaio, pochi giorni prima del ricovero, ci eravamo fatti gli auguri, e mi aveva espresso il suo senso di sbigottimento. Ha smesso di partecipare alla vita politica e del Pd nel 2018, la cesura sono state quelle elezioni e la maggioranza di governo che ne è derivata. In quel momento la nostra generazione ha capito che era finita una stagione e ne iniziava un’altra dagli esiti imprevedibili.
Avete condiviso mezzo secolo di amicizia. Se dovesse ricordarne un momento?
Abbiamo avuto una vicinanza particolare, condivisa anche con Sergio Mattarella, dovuta alla nostra comune vedovanza. I politici di rado condividono i sentimenti, sono troppo abituati a vivere una vita pubblica e provano pudore. Ma in un’esperienza così forte si cerca la stessa sensibilità, e quel momento di vicinanza umana ci ha unito in modo forte.
*da Haffpost 09/02/2021