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Per il rilancio della formazione in uno sviluppo sostenibile

Mario Draghi già al meeting di Rimini disse che il miglior investimento che l’Italia può fare per il suo rilancio è quello dell’inserimento dei giovani al lavoro. E il debito sarà tanto più “buono” quanto più cresceranno i giovani occupati e la produttività del lavoro, in modo da ripagarci i debiti (ingenti) che stiamo per fare. 

Da oltre venti anni nella nostra esperienza ferrarese ci occupiamo proprio di inserimento lavorativo dei giovani, per cui ci sentiamo di segnalare,  sommessamente, qualche nostra buona pratica e una proposta tesa a concretizzare questa prospettiva che chiameremo con un titolo un pò naif un posto a tavola (per i giovani) e metà pensione – metà lavoro (per gli anziani)”.

Ci sono infatti molte imprese che oggi possono “apparecchiare” un certo numero di posti in modo “permanente” da riservare ai giovani inoccupati (ad esempio, 3 – 4 posti su di un organico di 100-200 addetti); imprese che  hanno sia le risorse che la necessità di disporre di una qualche ridondanza di personale in alcune fasi (vecchie o nuove) del processo di lavoro, perché ciò consente loro di avere a disposizione una maggiore possibilità produttiva (e sollevare più commesse), o di far fronte con maggior prontezza a nuove esigenze dei clienti, o di “allenare” e formare proprio personale che sempre meno si trova già disponibile sul mercato del lavoro. Ma il disporre di una quota di giovani “aggiuntiva” all’organico-base, può consentire anche di “liberare” senior che possono così svolgere “attività  a maggior rischio” in quanto possono, in tal modo, essere sostituiti da membri facenti parte della propria squadra di lavoro, a loro volta rimpiazzati dai novizi neoassunti che completano il team. E’ questo un modo flessibile ed efficace sia di innovare che di formare e autoformarsi nell’organizzazione del lavoro. 

Nella nostra esperienza maturata con il contatto continuo con le imprese, abbiamo verificato come chi opera nella ricerca ma anche chi intende sperimentare nuovi mercati, nuovi processi, nuove soluzioni, agisce in questo modo: c’è forse qualche impresa, in questa tremenda situazione di cambiamento in corso, che può permettersi di vivacchiare o di tornare al passato? In questa mega crisi non basta solo “restringersi”, occorre anche cambiare, e questo lo si può fare soprattutto con “l’aiuto” dei giovani (ma senza disperdere il patrimonio professionale accumulato grazie ai senior). Ed è proprio questo doppio combinato disposto che, a nostro parere,  può portare al rilancio.

I giovani così assunti vengono rapidamente formati, proprio perché inseriti nella comunità di pratiche e, se ben selezionati, aprono spesso nuove prospettive, aiutano a tenere “sveglia” la squadra, contribuiscono ad innalzare la produttività del lavoro e la prontezza di servizio dell’impresa, anche perché liberano i senior da attività routinarie. E qui non parliamo necessariamente di assunzioni  a tempo indeterminato (seppure i giovani occupino pro tempore “posti” operativi): per un giovane ciò che conta è un primo, buon ingresso al lavoro; è questo che determina il successo della futura “navigazione” in un mare, sempre più aperto e senza confini, quale è oggi il mercato del lavoro. E questo tipo di politiche ci sembrano le uniche che possono contrastare sul nascere il rischio per un giovane di diventare un NEET. 

Ci sono quindi buone ragioni legate alla crescita occupazionale dei giovani e alla formazione in azienda (e di contrasto ai NEET) perché lo Stato incentivi quelle imprese che  intendono “apparecchiare” questi “posti a tavola”. Soltanto le imprese possono creare lavoro per i giovani e inserirli in un percorso che è anche formativo. In alcuni casi (in piccole imprese, in servizi di piccola taglia,…) la scelta potrebbe anche essere quella del part-time, della serie “metà scuola/metà lavoro”. 

L’importante è che vi sia un provvedimento, uno “scatto” nazionale che determini una consistente possibilità di un primo inserimento nel lavoro dei nostri giovani, evitando l’istituzionalizzazione della facile via dell’assistenza (per poi disperdere ingenti fondi, ma inutili, al recupero di giovani, ormai troppo lontani dal lavoro).

Sarebbe anche una politica intergenerazionale seria che sa che chi il lavoro non l’ha mai avuto e non riesce a trovarlo non protesta, anche se soffre.

E veniamo agli anziani che stanno per andare in pensione (2,5 milioni nei prossimi 5 anni secondo le stime di Cciaa-Excelsior). In molti casi costituiscono una competenza distintiva di quell’impresa che non di rado malvolentieri se ne priva. O meglio, l’impresa potrebbe essere interessata a tenerli negli ultimi anni almeno a part-time, fruendo di queste competenze nel modo migliore e … “a metà prezzo”. Ma anche per molti senior questa prospettiva potrebbe essere interessante, perché abbandonare in modo “brusco” il lavoro (spesso qualificato) può rappresentare un trauma, come ci dicono da sempre le ricerche su questo tema. E poi non si vede perché se per una vita ci si è specializzati in un certo campo non si possa negli ultimi anni (e per un tempo più lungo proprio perché si è a part-time) collaborare con la propria azienda in modo sostenibile (per un anziano, appunto) sia in termini di prestazione lavorativa diretta ma anche di formazione verso giovani e colleghi.

Da decenni sociologi, psicologi, le stesse istituzioni Europee indicano il tramonto di una epoca governata dalla sequenza meccanica che vede prima lo studio, poi il lavoro e infine la pensione, e suggeriscono il valore di mixare studio e lavoro e di favorire l’accesso al lavoro part-time nelle diverse fasi della vita lavorativa. Fasi nuove per tempi nuovi. Chi prende il part-time negli ultimi anni potrebbe conservare un reddito consistente, perché il 50% deriverebbe dallo stipendio dell’azienda e l’altra quota dalla pensione accumulata. Continuando a lavorare per alcuni anni si potrà poi andare in pensione con una indennità piena perché si prolungherà la vita lavorativa, ma anche la vita di relazione e dunque la vita stessa. Potrebbe anche essere una soluzione volontaria e comunque da incentivare da parte dello Stato proprio perché virtuosa in quanto risponde ai tempi che viviamo (e vivremo) perché gli anziani vivranno sempre più a lungo, come dicono tutti gli studi in merito. Un modo utile, se si vuole, anche per superare l’impasse della “quota 100”.

Forse sono anche queste le “riforme” che l’Europa (Germania, Francia,…) si aspettano da noi, ma sono prima di tutto nel nostro interesse e per stare a testa alta in Europa.

Poco più di un anno fa, in un intervento qui su lavoce.info presentavamo la buona pratica che all’università di Ferrara si sta portando avanti ormai da decenni nella transizione dei giovani laureandi e neo laureati al lavoro; buona pratica  che è anche il frutto di esperienze presso imprese del territorio e di sperimentazioni decennali fatte nello stabilimento petrolchimico locale a partire dal prestigioso centro Ricerche Giulio Natta. E segnalavamo  come le stesse strutture del “collocamento” potessero far ricorso a questi innovativi  tipi di percorsi di inserimento lavorativo   (che indubbiamente favoriscono l’incontro tra domanda e offerta) per migliorarsi con una via tutta “italiana”, meno costosa di quella tedesca (non avendo i soldi della Germania per sostenere il costo di un servizio di collocamento con 80mila dipendenti). In quella occasione, lettori attenti trovarono questa nostra esperienza  interessante e chiesero dove poterne approfondire la conoscenza. La risposta la si può trovare nella monografia dedicata a Giovani e Lavoro predisposta all’interno dell’Annuario socio-economico Cds uscito in ottobre 2020, disponibile on line sul sito web dell’Associazione “Cds cultura” (www.cdscultura.com).

 

 *Associazione CDS Cultura di Ferrara, Direttore dell’Annuario Socio Economico Ferrarese

 **Presidente dell’Associazione Nuove Ri-Generazioni

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