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NGEU e il quadro politico, un rebus con svariate incognite

Con l’approvazione da parte del governo del piano NGEU inizia l’iter che lo porterà a Bruxelles. Ma, già nelle ore che hanno preceduto la discussione in CdM, Draghi ha dovuto mettere sul piatto il peso della sua autorevolezza rendendosi garante verso l’Europa (e verso l’Italia!) del rispetto delle linee di finanziamento stabilite; ma, in particolare, della realizzazione delle riforme. Pubblica Amministrazione, giustizia e sburocratizzazione sono tra le principali; ma sono anche quelle sulle quali da troppo tempo si tergiversa. 

Già nel 2011 ci trovammo nella situazione di un governo a guida tecnica e la questione delle riforme strutturali fu all’ordine del giorno, a seguito della lettera che proprio Draghi (Presidente designato della BCE) inviò all’Italia. Berlusconi cadde anche per questo; ma Monti, pressato dalla urgenza dello spreed, scelse la via immediata del rigore finanziario e si concentrò sulla stretta fiscale, lasciando evaporare la tensione riformatrice che, peraltro, non entusiasmava la politica, già costretta a fare i conti con la riforma delle pensioni. 

Molta acqua è passata sotto i ponti da allora e le differenze sono rivelanti: la Finanza pubblica ha problemi, ma non è sull’orlo del baratro e la speculazione internazionale è, al momento, meno pressante; anzi lo spreed è un indicatore positivo, al contrario del 2011. Soprattutto, la politica europea è ben diversa da quella del rigore che ispirava le scelte comunitarie di allora. Il NGEU è la dimostrazione e la conseguenza di questo cambio di approccio dell’Europa.

In questo nuovo contesto sarà possibile gestire al meglio gli oltre 200 miliardi assegnati all’Italia? Sarà davvero arrivato il tempo delle riforme? 

La risposta a questa cruciali domande dipende da più fattori. Il primo sta nella capacità della politica di non affidarsi solo alla scorciatoia di scelte congiunturali, anche scomode, rispetto a quelle strutturali. In sostanza, è sempre sconsigliabile    scontentare l’elettorato, ma lo è meno con soluzioni temporanee, legate alle emergenze, che scontentarlo per sempre, facendo le riforme. Diciamolo con una provocazione: è meno complicato mettere una tassa sulla benzina o le sigarette che riformare la P.A. o la giustizia. Ovviamente, in questo scenario, una politica che guarda solo alla convenienza elettorale di breve periodo trova nel corporativismo (anche sindacale) un solido sostegno. 

A complicare il quadro è l’agenda elettorale: in autunno vanno al voto le principali città e, dopo il semestre bianco e la elezione del capo dello Stato, inizia la corsa verso le elezioni politiche che si terranno appena dopo un anno…   La tenuta di Draghi e Mattarella, sostenuti dal quadro internazionale, può evitare la deriva.

Il secondo: la tenuta del quadro politico attuale. Reggerà la eterogenea compagine che dà vita alla maggioranza che sostiene Draghi? Con la formazione del governo, infatti, si è risolta la crisi istituzionale, ma non quella politica. Anzi l’arrivo di Draghi, seguito alla reprimenda di Mattarella ai partiti, ha avviato una transizione i cui esiti sono ancora tutti da scrivere. 

I 5 Stelle sono entrati in una crisi di identità che, nonostante la scelta di affidare a Conte il timone, mette a rischio la loro stessa sopravvivenza. Italia viva, che ha provocato la crisi del governo Conte e sostenuto esplicitamente la Presidenza Draghi, dovrebbe essere tranquilla, ma il disegno di Renzi, che punta ad una scomposizione degli attuali assetti, comporta la costante instabilità del quadro attuale. Il Partito democratico era, anch’esso, mal messo e le tempestose dimissioni di Zingaretti hanno fatto esplodere il problema. Lo scatto in avanti realizzato con la scelta di Letta lo ha rimesso in careggiata, ma la strada è lunga ed insidiosa, visto lo stato del partito in periferia e l’insidia di un nostalgico revival identitario. 

Ma, soprattutto la Lega è di fronte ad una scelta di strategia e di collocazione irrisolta, come dimostra il comportamento bellicoso di Salvini e, al contrario, quello conciliante di Giorgietti. Il punto è che la Lega sta sostenendo un governo che ha una impronta del tutto alternativa a quella coltivata in questi anni. La esplicita vocazione europeista e filoatlantica di Draghi, la sua gestione prudente del Covid; la cultura dell’accoglienza e della integrazione, sono tutti aspetti che rendono precaria la posizione del partito di maggioranza relativa. Solo il prevalere delle componenti moderate dentro le forze politiche ci garantisce la stabilità.

Il terzo: la volontà e la capacità della politica di coinvolgere le parti sociali. Sempre, in Italia, quando ci sono stati degli snodi economico-sociali, accompagnati da crisi delle forze politiche, le parti sociali hanno svolto un ruolo di supplenza contribuendo a transitare il Paese oltre l’emergenza (1984, 1992/3). La proposta lanciata da Letta, in questi giorni, di un grande patto sociale per la ripresa va in questa direzione ed è tempestiva e giusta. Ma, sembra dettata anche dalla preoccupazione che la seconda condizione venga meno. E cioè che la politica da sola non ce la faccia a reggere la posta in gioco. Il reiterato ed esplicito sostegno di Letta a Draghi e gli attacchi a Salvini sembrano confermarlo. Ma, se la politica va in affanno l’asse di un governo con a capo un tecnico e con una forte componente tecnica al suo interno si sposta verso una inevitabile visione tecnocratica, che può essere compensata proprio dalla triangolazione governo, partiti, parti sociali.

Il venir meno di queste tre condizioni (visione, stabilità, concertazione) può determinare una complicazione nella gestione del Recovery. In sostanza, una operazione di portata straordinaria quale quella che ci attende con la gestione del NGEU e delle riforme collegate non può essere persa o rimandata; ma ha bisogno di una vera stabilità politica e sociale. Questa è la prova, senza appello, alla quale siamo chiamati.

 

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