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Riformisti versus corporativi

Ci stiamo avvicinando ad un momento cruciale per la sorte politica, economica e sociale dell’Italia. Man mano che scema la tensione e l’emergenza del Paese sulla pandemia – con tutti i gradualismi che l’intelligenza collettiva suggerisce, per non far diventare una illusione di breve periodo la riduzione della gravità del Covid 19 – si alza l’attenzione sul PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) approvato dal Governo e dal Parlamento, pochi giorni fa. 

E’ un’attenzione ambigua e tendente alla deviazione dalla questione vera. Infatti, tutti hanno chiaro che Governo e Parlamento hanno preso l’impegno di spendere bene e in tempi realistici il “debito buono” contratto assieme alla UE, ricorrendo ad un approvvigionamento massiccio sui mercati finanziari. 

A questo fine, hanno preso l’impegno di realizzare alcune riforme, prime fra tutte quelle sulla giustizia, sulla semplificazione amministrativa, sulla fiscalità. Vale sempre avere a mente che l’ultima discussione ufficiosa sul testo del PNRR è stata quella tra von der Leyen e Draghi nientemeno sulla mai realizzata liberalizzazione delle spiagge. Le antenne europee sono sensibilissime sul fronte riformistico e a ragione.

Ebbene, in questi giorni si stanno alzando voci sempre più autorevoli contro questo scambio. Quella più bislacca, ma uscita da labbra non insignificanti, è che le riforme le può fare soltanto un Governo emerso da nuove elezioni politiche. Quello attuale, anche se espresso dalla stragrande maggioranza del Parlamento, non è legittimato. In più, è guidato da un Presidente del Consiglio che non è neanche parlamentare.

In realtà, questo è soltanto l’antipasto di uno scontro strisciante che non riguarda soltanto destra e sinistra del Parlamento, ma soprattutto tra chi, anche nell’insieme della società, è autenticamente riformista e chi è radicalmente corporativo. 

Il riformismo nel nostro Paese ha avuto sempre vita difficile. Ma mai come ora l’insidia del corporativismo, della difesa di posizioni di rendita di ogni tipo (immobiliare, amministrativa, giudiziaria, collusiva, elusiva e via citando) ha posto con le spalle al muro chi era disponibile al cambiamento. Cioè quelli che hanno sempre pensato che benessere e democrazia possono andare a braccetto soltanto se costantemente c’è un intervento correttivo delle tendenze devianti del sistema redistributivo della ricchezza, dell’equa presenza territoriale del potenziale produttivo del Paese, della dote di democrazia che ci viene dal giorno dell’approvazione della Carta Costituzionale.

Nel passato, abbiamo registrato momenti fecondi del riformismo, specie quando hanno coinciso con ampi movimenti di opinione civica (divorzio, aborto, parità di genere, pace) e di diffuse lotte sociali (contrattuali e per il welfare state) come nella seconda metà degli anni 90. Con l’entrata in un cono d’ombra, quelle pressioni di massa, lentamente ma inesorabilmente hanno lasciato spazio alle pretese corporative, che hanno riconquistato terreno in quasi tutti gli ambiti della società italiana. Molte hanno avuto finanche patinate argomentazioni a loro sostegno; basti pensare alla forza espressa dal tema della prescrizione giudiziaria per cui mentre ieri l’avvocato più bravo era quello che portava il proprio assistito al trionfo della verità, oggi il più gettonato è quello che riesce a trascinare le cause fino alla prescrizione.

I partiti si sono dimostrati troppo fragili – specie dopo la tragedia di “mani pulite” – nei confronti del pressing delle forze conservatrici dei piccoli o grandi privilegi. A trovarsi più a proprio agio, ovviamente, sono stati i partiti di destra; ma l’inquinamento corporativo ha riguardato anche quelli di sinistra, spesso in imbarazzo nel contrastare la cavalcata protestataria di quanti si sentivano lesi nei loro interessi. Per non farsi del male, si è ricorso a san Rinvio, a santa Proroga ma ora il giochetto rischia di essere costosissimo. 

Non a caso Draghi sembra determinato a realizzare le riforme strettamente vincolate agli investimenti previsti dal PNRR. Anzi, a stare alle dichiarazioni, le vorrebbe concretizzare prima di andare a riscuotere la prima rata di luglio del NGEU (Next Generation EU). Non vuole lasciare molto spazio all’aggregazione delle resistenze corporative. Ma queste non punteranno tanto a mettere in ginocchio il Governo. Prenderanno di mira il Parlamento, considerandolo più “burroso” che l’Esecutivo. E’ lì che si potranno consumare i più potenti annacquamenti delle proposte di cambiamento. 

A meno che….

A meno che i riformisti di tutt’Italia si facciano sentire, sappiano trovare una reale unità, vogliano dimostrare agli italiani e agli europei che non siamo dei cialtroni. Non sarebbe uno sforzo inutile portare al dibattito pubblico nel Paese i contenuti degli impegni presi con l’Europa, con un’iniziativa capillare e impegnativa. Saremmo tutti più certi che il PNRR sarebbe finanziato e capace di produrre i suoi effetti di benessere anche a favore di chi, pur di lasciare le cose come stanno, tenterà in tutti i modi di non fare arrivare neanche un cent da Bruxelles. 

 

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