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Andiam, andiam, andiamo a lavorar …

Il lavoro è la grande categoria con la quale sono state costruite antropologia e storia, gerarchie sociali e organizzazioni politiche, proprietà e distribuzione della ricchezza.

Il lavoro è una categoria generale non semplificabile nella sua sola variabile occupazionale ed economica, misura la società e la sua cultura, nei rapporti sociali e individuali con il mondo. È la sintesi del valore culturale di una società e ne disegna la storia e, se saranno attuati i cambiamenti di cui necessitano natura e società, sarà ancora una volta la categoria sulla quale potremo raccontare il nuovo modello di sviluppo. Un sussurro dell’utopia? Forse sì, ma se non ascoltiamo l’utopia rischiamo grosso.

Il lavoro è categoria generale perché è con il lavoro che i cittadini, superando tradizioni e “comodità” di alcuni, possono partecipare alla costruzione di un mondo costruito sulla sostenibilità dei processi (produttivi e di trasformazione degli ecosistemi). 

Il Lavoro non è una richiesta sociale, non può essere ridotto a sola domanda; il lavoro è categoria del governo sociale, e perciò deve partecipare alla governance dei processi.

Il lavoro è azione partecipativa e attuativa della cultura, ne costruisce i paradigmi e ne realizza i processi. Legato indissolubilmente al “modello di sviluppo” contribuisce, con le sue componenti culturali, progettuali e attuative, a definirlo e a realizzarlo con tutti i soggetti in grado di promuoverlo e attuarlo.

Il lavoro è frutto di un’azione culturale, plurale e collettiva, capace di delineare i tratti dello sviluppo; è la matrice del grande laboratorio della creatività delle persone e delle loro passioni per il sapere, il saper fare, il saper divenire. 

Anche oggi, nel tempo minimo di osservazione dell’ultimo decennio (o poco più), è con le categorie della cultura e del lavoro che possiamo e potremo analizzare con quale visione storica, con quale produzione e distribuzione sociale della ricchezza, e quindi con quali lavori, metteremo in essere l’uscita dalla crisi pandemica, economica e di modello. Il lavoro da fare è enorme e di portata storica e vi debbono partecipare la società civile e i sistemi produttivi, le università, i centri di ricerca e di formazione con tutto il bagaglio delle loro conoscenze e la sapienza dei loro lavori. Dobbiamo progettare e gestire il nuovo mondo dello sviluppo sostenibile, della digitalizzazione, della modifica del rapporto spazio-tempo che l’informatica impone nel dettato del quotidiano umano e produttivo.

Da una prima analisi delle reazioni sociali sembra che ci sia più attrazione per il recupero che non per il cambiamento; eppure i minus ambientali, sociali ed economici sono sotto gli occhi di tutti e tutti ne stiamo soffrendo. In molti studi leggiamo che l’era attuale sarà chiamata antropocene poiché (seguendo la felice espressione del Club di Roma) la soggettività delle azioni di trasformazione imposte dall’uomo continua a produrre variazioni e alterazioni degli ecosistemi con tempi storici dissonanti dai tempi biologici necessari all’ecosistema terra per ri-formare i suoi equilibri in continuità e non in conflitto con quelli precedenti. I nuovi equilibri prodotti spesso entrano in tutto o in parte in conflitto con gli assetti raggiunti dalle specie nel loro lento processo di evoluzione e adattamento realizzatesi nei tempi biologici necessari.

Tutto si può adattare, correggere e, per quanto possibile, mutare ma è necessario seguire dottrine di sostenibilità formate sullo studio dei tempi biologici dei processi naturali. Fino ad ora i segnali non sono positivi. La corsa al ripristino dello status ante pandemia è superiore alle richieste di modificazione e cambiamento. E invece ci sono molte cose da fare: dobbiamo modificare modi e rapporti di produzione, passare dall’energia da fonti fossili a quella da fonti rinnovabili, da città che disperdono energia, tempo e prodotti a città con consumi ecologicamente ed economicamente sostenibili, dobbiamo ridurre la mobilità delle merci e del lavoro per utilizzare i vantaggi del nuovo rapporto spazio-tempo così come possibile con l’uso dell’informatica.  

Proviamo a fare un breve elenco per cenni:

Cultura e quindi lavoro nella ricerca, educazione e formazione.

Qui i parametri si ampliano perché è proprio il mondo della cultura e della ricerca che deve essere protagonista del passaggio dallo sviluppo insostenibile a quello sostenibile.Bisogna ridisegnare le reti di produzione e distribuzione energetica e, in questo ridisegno, riprogettare i sistemi urbani con le loro tipologie residenziali, i loro apparati produttivi e distributivi, i modi di produzione e di consumo delle merci, l’economia circolare.

Bisogna progettare la rete dei corridoi biologici, la permeabilità e la salubrità dei suoli per diminuire la produzione di CO2, produrre beni e non scarti e polluzione, ripensare la produzione di energie alimentari nelle quantità, qualità e sostenibilità ambientale, porre finalmente attenzione ai processi di fotosintesi clorofilliana con un vasto piano di forestazione.

Gli ecosistemi vanno monitorati e per questo vanno costruiti Sistemi Informativi Territoriali capaci di portare a tutti la conoscenza di ciò che sta succedendo e di cosa potrà succedere in seguito alle trasformazioni richieste dalla società. Senza conoscenza sociale e diffusa non può esserci partecipazione e senza partecipazione non può esserci sviluppo locale equo e solidale, bilanciato sui valori ambientali e sul ben-essere dei cittadini. E ancora, non può esserci un rapporto virtuoso tra locale e globale, tra mercati interni e domanda generale, tra uso dei patrimoni locali e domanda globale. L’impronta ecologica va misurata, e per questo serve costruire Sistemi Informativi Territoriali capaci di leggere la salubrità degli ecosistemi e di valutarla quando vengono proposte variazioni e trasformazioni.

Il mondo della formazione (professionale, scientifica e fattuale) ha di fronte a sé praterie smisurate nelle quali ridisegnare il mondo del lavoro fino ad oggi impegnato nello sviluppo insostenibile; dobbiamo ridisegnare arti e mestieri per costruire il mondo del lavoro per lo sviluppo sostenibile.

Purtroppo stiamo perdendo tempo. Sono state sprecate due occasioni: un anno e mezzo di lockdown e i lunghi periodi di cassa integrazione non sono serviti neanche a suggerire l’inizio del percorso, come se il passaggio dallo sviluppo insostenibile a quello sostenibile fosse possibile senza azioni culturali, formative e sociali.

Il mondo della produzione materiale delle merci (fabbrica, artigianato, agricoltura), dei servizi privati e amministrativi, deve essere ridefinito secondo i paradigmi dello sviluppo sostenibile, nei suoi modi di produzione e nei tempi di lavoro. Ai sindacati spetta un compito importante di dialogo e proposte ma anche di partecipazione alla gestione dei processi.

In questa fase di cambiamento dobbiamo pensare anche a soggetti imprenditoriali e gestionali nuovi come l’imprenditore collettivo e la gestione di processi, integrazioni e mercati con le piattaforme digitali. Se l’economia circolare sarà attenta (come per definizione dovrà essere) ad annullare le voci spese, residui, inquinamento ecc. dai processi, una grande parte dell’economia d’area, che dell’economia circolare è l’ambito territoriale di riferimento, non potrà che essere gestita da piattaforme digitali idonee a legare al di fuori del rapporto spazio-tempo finora conosciuto le integrazioni produttive tra settori e tra prodotti. Non è solo un problema di tecnologie: quello che serve è un mondo del lavoro formato su questi nuovi paradigmi e processi.

Formarsi! È l’imperativo che gran parte del mondo del lavoro esistente (progettuale e attuativo) deve rivolgersi per attuarlo.

Pensiamo ai processi legati alle produzioni di alimenti; oggi sono esercitati in luoghi e con metodi tra i più inquinanti e spesso formano prodotti sempre meno idonei a soddisfare parametri energetici, salutari e organolettici almeno soddisfacenti.

E i servizi, le amministrazioni, la burocrazia? È un capitolo troppo lungo per essere esaurito nelle poche righe di un articolo, ma non può non essere almeno citato e riportato nel grande alveo della formazione e di una cultura che si faccia carico del valore del servizio.

Infine abbiamo il mondo dell’educazione che ha due compiti enormi: educare la società al digitale e educarla alla sostenibilità, ai valori ecologici e dell’equilibrio, a considerare l’uomo come faber ma con enormi doveri verso sé stesso\.

Partiamo dall’educazione al digitale. L’Italia è un Paese che si distingue per tante cose ma, per quello che riguarda questo capoverso, per essere un Paese tra i più vecchi (forse il più vecchio) d’Europa. Le generazioni non digitali sono prevalenti e per quelle digitali le tecnologie informatiche sono tecnologie d’uso. In più, tutta la tecnologia informatica d’uso si basa sull’intuito e sulla facilità dei processi. Questi processi però sono intuibili per le generazioni digitali ma non per le generazioni che si sono formate su studi metodologici, sulla riforma di Giovanni Gentile. Per questo servono lunghi e pazienti processi educativi non semplificabili semplicemente con l’immissione di strumenti e semplificazioni digitali che sono tali solo per i digitalizzati

Non porre la dovuta attenzione alle difficoltà che una grande parte della popolazione incontra, significa non rendersi conto che stiamo avviando numerose generazioni alla marginalizzazione, alla dipendenza, a sentirsi umiliati proprio perché nella vulgata queste innovazioni sono introdotte dicendo che “semplificano”. Il problema si accentua se pensiamo alla debolezza del nostro stato sociale (incapace di garantire l’assistenza come diritto), alla rigidità e farraginosità della burocrazia, alla povertà diffusa tra le generazioni dei pensionati che non possono ricorrere alle strutture private a pagamento. I patronati fanno quello che possono ma spesso sono lontani, la mobilità urbana è faticosa e quando è veloce è troppo costosa. 

È quindi un problema di educazione oltre che di strumenti: per fare bisogna saper fare, altrimenti tutto è difficile. E’ soprattutto questione di educazione istituzionale che troppo spesso promuove servizi che gran parte della popolazione non sa come usare. E quando quell’accesso è inaccessibile, perché non sorretto da pazienti processi educativi, scattano i drammi e le umiliazioni. La digitalizzazione deve essere sorretta da un’azione paziente e capillare di alfabetizzazione alla digitalizzazione e da stanziamenti ingenti per dare strumenti digitali idonei e conoscenza a tutti.

La seconda lama della forbice è l’educazione alla sostenibilità e non solo nei suoi valori culturali ma anche in quelli che si rappresentano nel quotidiano.

Anche qui l’opera deve essere paziente a causa delle difficoltà enormi, perché troppe sono le lobby e gli interessi che remano contro. Quando entrano in gioco potere e valori economici, vince chi ne ha di più.

Possiamo arricchire tutti i programmi scolastici e educativi ma senza strutture organizzate capaci di promuovere i valori della sostenibilità non si arriva da nessuna parte. Le organizzazioni sindacali e la politica possono e devono fare molto.

Nella storia del sindacalismo italiano c’è l’esempio delle 150 ore, e allora?

E allora! Andiam, andiam, andiamo a lavorar … per cogliere i diamanti non in miniera come i sette nani di Biancaneve, ma nella vasta prateria dello sviluppo sostenibile, per impegnare la società istituzionale e civile in un vasto programma culturale progettuale, formativo e occupazionale.

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