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“Lottare per il lavoro, non per quel posto di lavoro”

Qualche mese dopo Franco Marini e Pietro Larizza, abbiamo salutato per l’ultima volta Guglielmo Epifani. Tutti importanti Segretari Generali, rispettivamente, di CISL, UIL e CGIL. Tutti e tre carichi di storia, di rispetto e di passione per la loro vita sindacale e che hanno saputo capitalizzare, anche nelle esperienze successive, specie nell’impegno istituzionale e politico. Ma c’è una differenza sostanziale tra i primi due e il terzo: l’anagrafe.

Epifani appartiene a quella “meglio gioventù” che emerse dal 1968 come ribollente energia che non si accontentava del “miracolo economico” ma voleva una società più egualitaria, più solidale, più partecipata. Invece, Marini e Larizza appartenevano alla straordinaria genia dei pionieri del sindacalismo moderno che picconò la cultura corporativa di stampo fascista e mise le basi del futuro sindacato di massa. Epifani, come tanti altri della sua generazione, irrompe tra le file sindacali da acculturato, con a disposizione un impianto contrattuale condiviso tra i lavoratori e tra le categorie più avanzate dell’insieme del sindacato, attrezzato all’autonomia del sindacato, cioè a mettere in discussione – specie nella sua CGIL – la cinghia di trasmissione tra partito e sindacato.

Chi in quegli anni optò per l’esperienza sindacale, aveva grande stima della scienza, del sapere e diede una mano essenziale alla formazione dei quadri periferici e ai delegati sindacali che guidarono lotte fantastiche per eliminare il cottimo, per non svendere la salute, per guadagnarsi la settimana corta e per avere salari di dignità. I dirigenti sindacali di quella fase avevano una capacità di leadership indiscussa. Ma non furono solitari condottieri. Seppero coltivare una schiera di giovani in grado di generalizzare e consolidare le strategie da essi indicate. 

Questa generazione crebbe all’ombra della “conflittualità creativa” come caratteristica fondante del sindacalismo industriale, ma non se ne innamorò. Ho limpido nella memoria le discussioni, anche con Guglielmo, sulle prospettive del ruolo del sindacato, fin dall’inizio degli anni 80 del secolo scorso. La rottura dell’unità sindacale dopo l’accordo di S. Valentino (1984) sulla scala mobile e il successivo referendum perduto dal PCI di Berlinguer aprì la strada alla configurazione del sindacato della partecipazione nei luoghi di lavoro e nel confronto istituzionale. A fare da battistrada fu il più rappresentativo del sindacalismo conflittuale, Pierre Carniti; ma velocemente il dibattito si sviluppò in tutto lo schieramento sindacale. Con Trentin e Cofferati, Epifani fu tra i protagonisti nell’orientare a fatica la riottosa CGIL verso l’approvazione dell’accordo del 1992/3 sul superamento della scala mobile e il nuovo assetto contrattuale, che durò per quasi un ventennio. 

Oggi, la cultura della partecipazione come pratica negoziale e prassi gestionale si può dire che si è consolidata. Si va verso le indicazioni contenute nell’articolo 46 della Costituzione. Questa tendenza la certificano i rinnovi contrattuali più recenti, molte esperienze di contrattazione aziendale, fino alle intese per la gestione della sicurezza nei luoghi di lavoro durante la pandemia. 

Ma non ha avuto ancora la sanzione definitiva, perché è apertissima la sfida che la grande transizione dall’economia della muscolarità industriale, all’economia dell’intelligenza artificiale pone al sindacato. Il suo governo delle prospettive del lavoro, della sua qualificazione professionale, della sua ri-modellazione sociale, del suo ruolo nella società futura deve essere ancora compiutamente definito. Piantato com’è sulla necessaria richiesta del blocco dei licenziamenti, il sindacalismo confederale non ha ancora chiarito ai lavoratori e alle lavoratrici, ai giovani e agli anziani, all’opinione pubblica e ai decisori istituzionali come ci si deve muovere per non contare soltanto morti e feriti nella fase post pandemica.  

Il tempo stringe, le attese si fanno sempre più nervose, i rischi di duri conflitti sociali ci sono tutti, le risposte non possono essere rimandate. Se potessi chiedere a Epifani cosa ne pensa, sono certo che non negherebbe le sue convinzioni più profonde. Con il sorriso sempre disponibile ma con gli occhi pensosi, mi risponderebbe con nettezza: “Lottare per dare lavoro buono in tutti i modi, non per difendere il posto di lavoro”. Anche per me, questo è lo stigma del sindacato della partecipazione. L’alternativa non è il ritorno alla conflittualità ma malinconicamente l’irrilevanza sociale e politica. 

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