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Il sindacato italiano se la cava nella sfida del cambiamento

1. Le associazioni – partiti, sindacati, gruppi, etc.- sono animali strani: a volte invecchiano malamente finendo per lasciare il posto ad altre istituzioni collettive, altre volte al contrario dimostrano una straordinaria vitalità anche oltre la loro epoca e la loro missione originaria. Oppure si dovrebbe parlare di   resilienza, come va di moda dire oggi, tanto da ritrovare questa espressione perfino nell’acronimo del Pnrr presentato dal governo italiano alla Commissione europea. 

 

Il pensiero corre immediatamente all’insospettato e rapidissimo declino dei partiti politici, un tempo potentissimi e a lungo, almeno per un secolo e mezzo,   creduti imperituri dalla letteratura sociologica e giuridica di mezzo mondo.  Oppure, al lato opposto, vale la pena citare la riscoperta di antiche forme di solidarietà collettiva – ad esempio, la mutualità e le fondazioni caritatevoli – che ritornano oggi di attualità, magari dopo una lunga eclissi che sembrava a prima vista essere il prodromo di una loro inevitabile decadenza. Capita cioè – a dire la verità, non molto spesso – che soluzioni inventate per rispondere ai problemi sorti in epoche storiche oramai definitivamente concluse si rivelino, per riprendere il gergo della teoria dei giochi, ‘soluzioni di ottimo paretiano’ anche in epoca contemporanea. Di più, esse si mostrano talmente flessibili da costituire uno strumento adeguato per soddisfare anche   le nuove   sfide avanzate dal cambiamento sociale. 

 

La domanda a cui rispondere è ovviamente se, quando e a quali condizioni si realizzi il miracolo rigenerativo di una forma associativa, nel nostro caso quella del sindacalismo.  Per trovare   la risposta dobbiamo cercare di comprendere non il nugolo dei casi ‘normali’, dove cioè è minimo l’indice di eterogeneità di Gini,   ma le eccezioni talmente positive da suggerire che altri mondi – tanto improbabili quanto possibili –  si possono realizzare solo che si abbia il coraggio di esplorare strade alternative alle esperienze medie. In fondo è quanto ci insegna la storia mondiale e plurisecolare del capitalismo, con la sua invidiabile caratteristica di evolvere ‘tradendo’ il suo passato e le sue regole consolidate nel nome di una continua apertura al nuovo, quel nuovo improbabile ma possibile verso cui il capitalismo è destinato da una  “tempesta che  lo spinge irresistibilmente verso il futuro” (W. Benjamin).

 

Questa premessa appare necessaria per valutare pregi e limiti dell’ultimo lavoro di Jelle Visser, uno studioso olandese che da decenni aggiorna il più completo database sulla sindacalizzazione nel mondo. Nel rapporto predisposto per l’Oil,   I sindacati in transizione (2020),  Visser analizza le ragioni del declino sindacale nei quarant’anni successivi all’apice di fine anni settanta, accentuatosi nel nuovo secolo,  dal 2000 ad oggi, con le uniche eccezioni dell’Africa del Nord e dell’America meridionale (p. 40). Invecchiamento degli iscritti e mancato ricambio giovanile, calo del settore industriale, crescita del terziario e dei rapporti di lavoro non standard, aumento del settore informale, immigrazione, contrazione o stagnazione  dell’occupazione nel  settore pubblico,  lavoro a tempo parziale e temporaneo sono indicati come i principali responsabili di un declino sindacale che appare quasi impossibile da arrestare, tanto da mettere in serio pericolo in molti paesi la stessa esistenza del sindacalismo in quanto tale. 

 

La documentazione statistica appare ineccepibile sotto il profilo descrittivo, mentre la diagnosi, le terapie non sono particolarmente originali dal momento che riprendono la spiegazione mainstream del declino sindacale nel mondo come dovuta alle difficoltà nell’entrare in rapporto con quella che, con gergo desueto, potremmo chiamare “la nuova composizione di classe”: terziario, piccole dimensioni aziendali, giovani, donne, precariato, immigrati, ecc. Di qui un’attenzione – forse eccessivamente esasperata -ai temi della sindacalizzazione dei nuovi lavori (piattaforme, logistica, e così via), magari con l’aiuto del   sostegno politico e istituzionale o, alternativamente, dei movimenti oppositivi di base a scala locale. Dato il taglio globale dell’analisi, poca attenzione viene dedicata ai casi devianti, in particolare non viene neppure messo a problema il perché della stranezza del caso italiano, il quale avrebbe dovuto collocarsi nel gruppo di coda dei paesi occidentali,  non fosse altro perché accomunato da tutte le variabili negative di tipo socioeconomico, ma con in sovrappiù altre due variabili avverse quali  la competizione sindacale  e il basso grado di neocorporativismo; al contrario, il nostro paese ha tuttora un tasso di sindacalizzazione che è secondo solo all’Europa del Nord (Finlandia, Norvegia, Danimarca, Svezia) e al Belgio (Grafico 17, p. 52). Solo un outlier, una fastidiosa    eccezione a cui non vale la pena prestare attenzione, oppure la spia di qualcosa che non funziona nella diagnosi e, dunque, nelle successive indicazioni terapeutiche? 

2. Visser enfatizza “il calo dell’occupazione nel settore manifatturiero e la nascita di nuove forme di lavoro flessibile e atipiche (non standard)”,  ricorda come “la copertura della contrattazione collettiva in molte parti del mondi è pericolosamente bassa e in continuo calo”, deplora il fatto che “una ‘nuova instabilità del lavoro’ caratterizza i rapporti di lavoro nel XXI secolo” (p. 9),  per poi concludere  che l’avanzata dell’economia digitale e il divario tra i lavoratori stabili e retribuiti da una parte e i disoccupati e i lavoratori instabili, mal pagati e precari dall’altra “compromette la principale attività dei sindacati, ossia la definizione delle condizioni di lavoro attraverso la contrattazione collettiva e la gestione dei conflitti” (p. 13). 

 

Di conseguenza propone quarto scenari: a) emarginazione, da interpretarsi come il risultato di un processo di liberalizzazione dei movimenti e di svincolo del capitale dalla sua dipendenza dal lavoro, dagli stati nazionali e dagli obblighi internazionali; b) dualizzazione,  con  un divario sempre più netto tra le imprese sindacalizzate e quelle non sindacalizzate, dove le seconde prevarranno sulle prime; c) sostituzione,  con i i sindacati che lasceranno gradualmente il posto ad altre forme di azione e di rappresentanza sociale previste dalla legge (garanzie sui salari minimi, organi arbitrali, etc.), promosse dai datori di lavoro (coinvolgimento dei lavoratori, partecipazione), oppure  da nuovi  intermediari (studi legali, uffici di consulenza); d) rivitalizzazione,  attraverso  un’inversione della  tendenza attuale attraverso strategie di reinventing unionism, garantendo protezione e rappresentanza alla “nuova forza lavoro instabile” dell’economia digitale (p. 10 e pp. 51-61). Visser considera irrealistici il primo scenario; non ama per nulla l’ipotesi della ‘sostituzione’ e di conseguenza non approfondisce la possibile esistenza di strade alternative suggerite dalle esperienze nordiche e da quella italiana;  si allinea alla letteratura prevalente che predilige il secondo e il quarto scenario, non fosse perché  “presuppongono entrambi non solo la necessità, ma anche l’esistenza di un contropotere sotto forma di azione collettiva da parte dei lavoratori, seppure su basi completamente diverse” (p. 10). 

 

Come si è detto, con ogni probabilità per questioni linguistiche, ma anche in ragione di un certo formalismo tipico degli studi internazionali sulle  relazioni industriali (copertura contrattuale, grado di centralizzazione, e così via),  il caso italiano appare poco presente in queste comparazioni a largo raggio, anche se potrebbe offrire spunti di riflessione alternativi, non fosse altro perché le  ricette alternative, in larga parte accolte da Visser e  proposte da almeno tre decenni nella letteratura internazionale di settore, a partire dalle esperienze anglo-americane di Revitalizing unions, finora hanno mostrato poca o nulla efficacia dove sono state sperimentate. 

 

Per procedere in una direzione alternativa vanno prese sul serio le esperienze nordiche, quella belga e quella italiana, bisogna cioè affrontare una dimensione poco amata – di conseguenza poco frequentata – dagli studi di relazioni industriali. Anche Visser ne discute ma con un certo imbarazzo, da cui deriva una trattazione frettolosa e esitante.   La variabile chiave è quella che  Visser definisce ‘garanzie istituzionali all’attività sindacale’, non a caso è quella con l’indice R2 (0,62) più alto rispetto a tutte le elaborazioni condotte nel suo studio su ben 96 paesi (p. 48).  Visser osserva che  “è importante sottolineare che le garanzie istituzionali non sono da considerarsi un parametro esogeno” (p. 49), ma poi non va oltre, anzi mette in guardia dalla “maledizione delle garanzie istituzionali”, le quali condurrebbero a un rilassamento nelle politiche di nuova sindacalizzazione. 

 

A me pare che non venga messo a fuoco un punto decisivo, vale a dire cosa deve fare un sindacato una volta che siano state vinte le ‘battaglie per il riconoscimento’ (Pizzorno) e acquisite larga parte delle ‘rivendicazioni contrattuali’ (Clegg) riversandole in diritti soggettivi tutelati dal diritto (del lavoro). Continuare a scioperare per ulteriori rivendicazioni (p.53)? Spingere sempre più in là l’asticella dei diritti sui luoghi di lavoro? Entrambe queste strategie hanno condotto nel vicolo cieco delle heroic defeats.  

 

3. Nei due decenni passati, modificando e riadattando un noto modello interpretativo elaborato da Schmitter e Streeck (1981) ho provato  ad analizzare le ragioni del relativo successo del modello sindacale italiano, secondo nel mondo ormai solo a quello nordico, mettendo a fuoco il fatto che il sindacato può mantenere la sua forza solo quando: a) agisce come una agenzia quasi statale, svolgendo attività di servizio rivolte ai lavoratori, ma anche ai cittadini, su delega della pubblica amministrazione e offrendo beni autoritativi”, in termini di adempimenti burocratici, certificazioni e controlli, primariamente nellarea del welfare; b) assume comportamenti responsabili tanto a livello macro (concertazione) quanto a livello micro (partecipazione); c) ha una elevata capacità inclusiva (nuovo lavori, immigrati, giovani) spesso favorita da un  modello organizzativo di tipo confederale. 

 

In questa prospettiva si è aperto un dibattito tra la strategia dell’organzing e quella del servicing, a cui anche Visser fa qualche cenno. Tuttavia si tratta di una discussione troppo influenzata dalla tradizione  a cui abbiamo già fatto cenno del Revitalizing unions.  La strategia dellorganizing si sostanzia in attività svolte al livello locale, spesso con il coinvolgimento dell’associazionismo di base,   finalizzate al reclutamento e al coinvolgimento nella vita del sindacato dei non iscritti, mobilitando il consenso intorno alle  tipiche attività sindacali di contrattazione e mobilitazione collettiva. Lapproccio del servicing è invece orientato alla fornitura di servizi rivolti ai lavoratori dentro e fuori dai luoghi di lavoro, attraverso un apparato di dipendenti specializzati e di consulenti esterni, spesso in concorrenza di mercato con altre agenzie (ad esempio, le Acli) o  con i  privati (in primis, gli avvocati e i consulenti del lavoro). 

 

Che sia il modello Ghent dei paesi nordici oppure il modello di agenzia substatale all’italiana, gli alti tassi di sindacalizzazione derivano dalla capacità di far transitare le iscrizioni al sindacato tramite i servizi: nel caso italiano, a seconda dei territori, anche oltre il 50% delle nuove tessere l’anno. E non è un caso che nel nostro paese, nonostante le critiche malevoli cadute loro addosso nelle più diverse diverse stagioni politiche, i patronati  e i caf non siano mai stati seriamente messi in discussione, anzi, nell’emergenza Covid, si sia subito pensato a loro per fare fronte ai nuovi e molteplici adempimenti connessi alle misure statali dei cosiddetti ‘ristori’.  La prospettiva qui proposta si propone di non limitare l’analisi dei servizi sindacali alla logica degli ‘incentivi selettivi’ all’iscrizione (Olson), ma di considerarli come un tassello all’interno delle trasformazioni delle società contemporanee, con al centro il ruolo dello stato e del diritto.   Proviamo a riflettere. Qual è il segreto della strategicità dei servizi individuali? Perché sono così centrali tanto da sopravanzare il ruolo dell’azione collettiva?  Partiamo da lontano, accettando con realismo che l’idea di ridurre il peso dello stato nella società e nell’economia si è rivelata ingenua. Il punto è che non si è portata sufficiente attenzione al fatto che la crescita del mercato ha comportato un aumento spropositato di norme di tutti i generi a difesa di prerogative di ogni tipo, anche e soprattutto del cittadino lavoratore, basti pensare alle norme in materia di sicurezza sul lavoro. Non solo: l’imprenditore stesso vuole essere tutelato da ogni rischio nell’esercizio della sua attività, così pure il consumatore, il lavoratore, la donna, l’ambientalista, il malato, il gestore, e così via. Ogni possibile pezzo di società invoca riconoscimento e tutele e lo fa attraverso la rivendicazione di diritti che ritiene legittimi per tutti.  Ma il riconoscimento dei diritti produce diritto: norme, regolamenti, decreti, circolari interpretative, sentenze giudiziarie.

 

Tuttavia, se dobbiamo rassegnarci ad una marea di norme e regolamenti pubblici, questo non significa accettare l’inefficienza dei poteri pubblici.  Il nodo da scogliere è che l’amministrazione non deve scaricare sui cittadini o le imprese l’onere burocratico, ma deve fare in modo che qualcun altro lo faccia – la stessa p.a. oppure una agenzia autorizzata – in modo da rendere la vita il più semplice possibile all’utente. Qui interviene la positiva esperienza dei patronati e dei caf e il rapporto di agenzia tra lo stato e questo tipo di istituti, qui la ragione della loro costante attualità. Nonostante le mille grida manzoniane nessuno in occidente è riuscito finora a trovare la chiave per ridurre le norme o semplificarle. Forse, la strada da esplorare è un’altra, e va nella direzione della riscoperta e attualizzazione del principio di sussidiarietà nella messa in opera delle politiche pubbliche.  L’esempio dei servizi sindacali è sotto questo profilo il più significativo perché risolve alla radice il problema del cosiddetto back-office, di chi si prende carico dell’infinita stratificazione di norme, regolamenti, procedure amministrative.  Il punto è tutto qui, ovvero quale sia il modo più efficace per semplificare la vita al cittadino e all’operatore economico: la via della semplificazione, oppure quella dell’ingegnerizzazione (preventiva) dei processi di back-office,  anche attraverso l’affidamento a terzi di frammenti di procedimento amministrativo? Il modello Ghent nei paesi scandinavi e i servizi sindacali nel nostro paese sembrano indicare una strada che andrebbe ulteriormente esplorata e sperimenta, quella del rapporto di agenzia con soggetti privati in grado di garantire il pino rispetto delle finalità statali, la correttezza dell’applicazione di norme e regolamenti sotto il controllo della pubblica amministrazione e, contemporaneamente, il minor intralcio possibile alla vita dei cittadini e degli operatori economici. 

 

Nel caso italiano, ciò che è realmente curioso non è il declino del fenomeno sindacale, ma le ragioni che ne spiegano la sopravvivenza, la persistenza, a volte perfino il rafforzamento organizzativo. Pertanto la domanda da farsi è: come mai il sindacato italiano, il sindacato confederale, non è stato travolto dall’onda montante della rivoluzione digitale, della globalizzazione e delle politiche no-union? Se il trend degli anni Ottanta fosse proseguito con lo stesso andamento negativo, oggi i tassi di sindacalizzazione sarebbero sotto il 20%, invece si mantengono leggermente sopra o sotto la soglia del 30%, a seconda dei metodi di calcolo. Di nuovo: come mai questa “resilienza” sindacale? Di questo successo organizzativo del nostro sindacalismo si parla poco o nulla, anzi i sindacalisti quasi se ne vergognano, per la probabile ragione che analizzare questi dati porterebbe alla luce aspetti del modello organizzativo confederale non del tutto compatibili con le retoriche sindacali di tipo tradizionale, tutte rivolte alla rappresentanza sui luoghi di lavoro e all’azione collettiva ma  poco  interessate – almeno a  parole – alle tutele specifiche dei singoli lavoratori e dei cittadini. Parlare delle ragioni per cui alcuni sindacati occidentali siano andati meglio del previsto, significa riscoprire alcuni effetti non previsti di scelte (in parte) non volute e non previste compiute nei decenni passati. Su questo ha ragione Visser quando scrive che “è importante sottolineare che le garanzie istituzioni non sono da considerarsi un parametro esogeno, quanto piuttosto il risultato delle scelte e delle politiche passate e presenti dei sindacati stessi” (p. 49).

 

4. Perché quasi ci si vergognava, anche tra gli studiosi e gli addetti ai lavori, di prendere atto di questa ‘grande trasformazione’ del sindacalismo, almeno di quello capace di reggere le sfide della contemporaneità?  Una spiegazione un po’ malevola rinvia al fatto che il sindacato ha perso il suo fascino, non interessa dal punto di vista intellettuale, è visto con sufficienza dai mezzi di informazione. Ne deriva una sorta di strabismo analitico dovuto alla circostanza che, mentre il sindacato si ringiovanisce, chi continua a occuparsi di sindacato invecchia. Come gli ex militanti, anche loro sono innamorati del piccolo mondo antico, del sindacalismo dei tempi che furono. Ciò suggerisce l’opportunità di guardare con occhiali nuovi e diversi dal passato al fenomeno sindacale, quantomeno se si vuol davvero capire in quale direzione sta andando; viceversa, il rischio è di rimanere prigionieri degli infiniti stereotipi del “mondo di ieri”. Sotto questo profilo alcune esperienze sindacali nazionali   mostrano una straordinaria capacità di aderire alle trasformazioni del mondo del lavoro, cambiando la propria pelle: vale a dire adeguandosi alla terziarizzazione dell’economia, trasformandosi in organizzazioni di servizi e tutele prevalentemente individuali, adeguando in questo modo quello che definisco  il loro  “sistema di offerta” alle domande del mondo del lavoro di oggi, in prevalenza più femminilizzato, più giovane, più istruito, più mobile, più multiculturale.  Questa mutata “composizione di classe” – per usare i termini antichi utilizzati più sopra – esprime domande di tutela che il sindacato italiano  e quello nordico sono stati  in grado di intercettare attraverso una trasformazione, implicita, del loro  “sistema di offerta”, e nonostante uno iato evidente tra la retorica antica delle dichiarazioni ufficiali e una prassi quotidiana molto pragmatica.

 

Si tratta di un cambio di pelle in parte inconsapevole, in parte dovuto al caso, ma se, ad esempio,  il sindacato oggi gode di (relativa) buona salute, sempre tenendo conto dei tempi difficili nei quali viviamo e del confronto con le altre esperienze sindacali, lo si deve ad alcune scelte preterintenzionali compiute dai tre sindacati confederali negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, proprio nel momento di massima divaricazione delle strategie di Cgil, Cisl e Uil:  la linea di Bruno Trentin (Cgil)  di difesa antagonista dei diritti individuali di tutti i lavoratori; b) l’opzione dello scambio politico e del neocorporativismo proposta da Pierre Carniti (Cisl) con l’ambizione di farsi carico di un  ruolo politico del sindacato; c) infine l’idea di Giorgio Benvenuto (Uil) di un sindacato capace di andare oltre i confini corporativi del lavoro dipendente, e in grado di tutelare i cittadini in tutti i mondi vitali in cui si trovano a vivere in condizione di subalternità o disagio.  

 

5. La miscela generata in modo involontario trent’anni fa non ha equivalenti noti altrove nel mondo: tre sindacati nazionali, tutti e tre confederali, in tutto e per tutto simili tranne che per una blanda colorazione politica, formalmente divisi ma quasi sempre uniti, tutti e tre a svolgere a Roma e sul territorio più o meno le stesse identiche cose, ovvero contrattazione nazionale e aziendale, tutele individuali, difesa dei pensionati, servizi ai lavoratori e ai cittadini. Non stupisce la difficoltà di Visser – come della gran parte degli studiosi stranieri – a capirne qualcosa. Ma non c’è dubbio che se guardiamo al  sindacato italiano dal punto di vista organizzativo c’è da rimanere sorpresi: oggi Cgil, Cisl e Uil hanno il massimo di sedi mai avute in Italia, più di 7.000; un numero di stipendiati mai avuto prima, circa 25.000; almeno 200.000 delegati eletti nei luoghi di lavoro; un fatturato di oltre un miliardo l’anno; oltre 5.000.000 di pensionati iscritti; un numero di iscritti attivi più basso dell’apice di fine anni Settanta, ma sempre  più di 6.000.000, anche se in tema di tesseramento le valutazioni sono sempre articolate, per usare un’espressione diplomatica, data la natura volontaria -diciamo così –  delle autocertificazioni sindacali. Molti altri sindacati in giro per il mondo ci invidiano questa tenuta organizzativa. Essa dipende in primo luogo dal “multiverso” di attività offerte; e questo vale per una qualsiasi sede sindacale nel più sperduto angolo del paese. 

 

Proviamo allora a elencare i mestieri svolti dentro una qualsiasi delle tre confederazioni. In primo luogo i sindacalisti fanno dalla mattina alla sera una certosina manutenzione contrattuale: senza contratto nazionale di lavoro, niente sindacato come lo conosciamo qui da noi. Anche quando, come in anni recenti, il contratto nazionale di lavoro porta a casa poco o nulla, la sua funzione è importante per il solo fatto di esserci e di venire rinnovato, magari con contratti separati come per due volte nei meccanici: è comunque utile, e questo anche per chi non lo firma. Questa manutenzione contrattuale viene fatta ogni giorno in azienda, nei recapiti sindacali, negli uffici vertenze, dal momento che il contratto produce diritti legalmente riconosciuti davanti a qualsiasi pretore del lavoro (il recupero inatteso di Trentin). Ora, questa dimensione del contratto nazionale – come sottolinea Visser – spiega la differenza tra i sindacati che resistono, specie in Europa, e quelli che vacillano, come nel mondo angloamericano. La seconda azione che il sindacato italiano effettua è una continua attività di lobbying e pressione su ministeri, parlamento e governo, per garantire una legislazione di favore ai lavoratori dipendenti e ai cittadini meno abbienti. Siccome lobby sembra una brutta parola nessuno ne parla, ma si tratta di un’attività importante, fatta dalle segreterie confederali nazionali con sede nella Capitale, e tutta basata su di un implicito scambio politico, con alla base richieste responsabili e conflitto regolato (il recupero inatteso di Carniti). La terza grande area di attività sono i servizi individuali ai lavoratori, ai pensionati ai cittadini (patronati, caf vertenze individuali, tutela dei consumatori, accoglienza degli immigrati, etc.). Ad esempio, i caf e i patronati non sono solo il 730 e le pensioni, ma anche Isee, successioni, reddito di cittadinanza, badanti, disoccupazione ecc., una marea di attività minute ma indispensabili per sopravvivere nella giungla di adempimenti in cui tutti noi siamo coinvolti (il recupero inatteso di Benvenuto). Attraverso questa marea di pratiche e di servizi individuali, il sindacato italiano entra in contatto grossomodo con oltre 10.000.000 di persone l’anno, il che significa 10.000.000 di persone che una o più volte l’anno entrano in una sede sindacale. 

 

Qualcuno potrà storcere il naso, ma in tempi difficili come gli attuali c’è qualcuno che ha fatto meglio? Non a caso le sedi sindacali di moderna concezione assomigliano sempre più a un centro commerciale: sono collocate in periferia, con grandi parcheggi, preferibilmente a piano terra; all’ingresso si trova un banco di accoglienza, poi sale di attesa, il bar, lo spaccio di prodotti equo-solidali, e così via. I vecchi uffici delle categorie stanno ai piani superiori o in una sede laterale. Lo ripeto: si tratta di un esito non voluto e non previsto delle tensioni sindacali di quarant’anni fa. Per non parlare di un altro filone, anche questo non teorizzato né dichiarato, relativo alla diffusione della bilateralità, ovvero degli istituti di codecisione paritaria tra organizzazioni datoriali e organizzazioni sindacali, ad esempio nella formazione professionale, nella previdenza integrativa, nella sanità integrativa, nell’integrazione in caso di disoccupazione, e così via. Stiamo parlando di centinaia di istituti bilaterali, in grado di generare risorse organizzative e servizi ai lavoratori.

 

Questo vero e proprio sistema di offerta, lo ripeto: via via cresciuto nel tempo in modo involontario e inconsapevole, protegge il sindacato dalla crisi di consenso dei partiti di sinistra. La ricetta del successo sindacale italiano è costituita in primo luogo dalla pervasività del contratto nazionale di lavoro; poi, in secondo, dalle deleghe di agenzia da parte dello Stato. Ma ci sono altri fattori esplicativi: ad esempio, un ruolo importante viene dal pluralismo a competizione limitata tra Cgil, Cisl e Uil, che consente di diversificare i marchi e raccogliere i delusi di questa o quell’altra sigla. Sempre che la competizione sia limitata e controllata; siccome il sindacalismo italiano, a parte qualche momento di sbandamento pericoloso (quasi sempre alla Fiat), ha mantenuto la competizione entro confini ragionevoli, la divisione sindacale va interpretata non come un limite ma come una risorsa. Quarto ingrediente: il modello confederale, vale a dire che le tutele e i servizi individuali a base confederale vengono prima delle categorie, come pure che il nazionale viene prima dei territori. Infatti, solo organizzazioni nazionali con forte guida centralizzata garantiscono strutture e società di servizi in grado di garantire la più ampia diffusione territoriale.

 

Rimangono tuttavia alcuni problemi legati alle situazioni border line, sulle quali si sofferma più e più volte il saggio di Visser. L’esempio più tipico è quello di alcuni segmenti della logistica, il fronte del porto, il quinto stato della concorrenza al ribasso sul solo costo del lavoro e sui contratti sub-standard. Si tratta di un problema reale, ma non dobbiamo confonderlo con l’universo delle relazioni di lavoro. E neppure, a nostro avviso, è indicativo di una tendenza generale prossima ventura. Parliamo di una parte, che va trattata per quello che è, ovvero una parte limitata del mondo del lavoro, dove sono saltate le regole di base delle società (post)sindacalizzate. Va anche tenuto presente come, pure in questo caso, sia il contratto di lavoro standard a fare da riferimento delle inadempienze, come anche a segnalare le situazioni di “fuori gioco”. Infine, come ricorda Visser, è bene che in quei settori ci sia un pluralismo sindacale anche di tipo funzionale, è bene cioè che dove non si rispettano le regole di base ci sia campo aperto per il sindacalismo militante, i Cobas, l’Adl, e così via. Quando qualcuno rompe le regole ci deve essere qualcun altro che si contrappone con modalità altrettanto dure, poi, forse, a valle del conflitto militante, si riaprirà  di nuovo un suo spazio per ri-regolare per via confederale le  relazioni di lavoro sub-standard, visto la loro natura  di comportamenti opportunistici tipici dei free-rider. Si tratta, insomma, di un ultimo modo di vedere il bicchiere mezzo pieno di un sindacalismo che sopravvive e si adatta al mondo che cambia,  senza la nostalgia dell’effetto ‘colonna in marcia’ (echelon advance effect), tipico del sindacato di classe,  di cui parlava negli anni settanta Fred Hirsch e di recente ridiscusso  da Giancarlo Provasi. Una nostalgia che costituisce, a sua volta, l’aspetto meno convincente anche del pur interessante lavoro di Visser..

 

*Recensione a J. Visser, I sindacati in transizione, ILO, 2020

 

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