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Quest’ Italia nella morsa tra ragione ed emotività

Sembra che stiamo diventando la sorpresa del mondo. Fioccano elogi sul comportamento degli italiani durante la pandemia, da parte di autorevoli commentatori di rinomati giornali ad influenza internazionale. Capi di Stato e di governo – specie europei – apprezzano i dati della ripresa economica italiana e l’efficacia dell’azione istituzionale. Mattarella e Draghi sono sempre più considerati come l’immagine autorevole di un Paese affidabile, tanto che anche le agenzie di rating – nonostante l’enorme indebitamento pubblico – esprimono giudizi positivi.

Non è un’ illusione ottica, in un pianeta attraversato da rivolgimenti ecologici, economici, sociali e politici di dimensioni inedite. Le vicende degli italiani stanno prendendo, complessivamente, una piega positiva che ha bisogno di consolidamenti, di affinamenti, di irrobustimenti, ma di certo non è effimera. Una piega che si deve ricondurre ad un ricambio di influenza innanzitutto culturale. La pandemia ha disseminato un numero di morti smisurato, ha isolato le persone, ha fatto aumentare i poveri, ha acutizzato la rivolta della natura. Ma ha fatto ragionare la gente. Una conquista.

Veniamo da un trentennio durante il quale il consenso intellettuale, imprenditoriale, sociale, politico è stato costruito più sulle emozioni che sulla ragione. Più sull’apparire che sull’essere. Più sull’urlo che sulla pacatezza. Più sull’”io” che sul “noi”. A lungo è stato sostenuto, favorito, propagandato che i soldi si fanno soltanto con i soldi. E così, il lavoro e il sapere hanno subito una strisciante svalutazione. A lungo, l’antipolitica e la disintermediazione sociale sono state sul palcoscenico. E così, il primato della politica e il valore del ruolo dei corpi intermedi hanno dovuto cedere il passo all’abile pifferaio di turno di sogni irrealizzabili, all’imbonitore spregiudicato dell’”uno vale uno”.

Questa egemonia del messaggio senza basi scientifiche ha anche ridotto l’orizzonte delle scelte che un Paese deve prendere per affrontare il futuro. Queste sono state sempre più legate al consenso immediato, al servizio delle lobbies più attrezzate, alla realizzazione di slogan senza costrutto. Scelte che hanno dato sfogo ai corporativismi. La crescita della povertà culturale ed economica e delle disuguaglianze sociali e territoriali sono state il prezzo pagato per la debolezza e la miopia delle opzioni politiche. 

Con la pandemia questo cortocircuito appare incrinato. La stragrande maggioranza degli italiani ha preso sul serio la gravità di questo virus. Hanno dato credito alla scienza, che inizialmente ha annaspato ma ha saputo lavorare tenacemente per ottenere un vaccino risolutore. Certo, hanno capito – soprattutto i giovani – che in gioco c’erano anche interessi finanziari e di potere, ma solo in pochi hanno aderito alle insinuazioni complottiste e agli allarmi sulla riduzione delle libertà democratiche (anche se suffragate da cattivi maestri).  

Hanno, inoltre, apprezzato tantissimo le competenze mediche ed infermieristiche che sono emerse nel sistema sanitario pubblico e che hanno concorso a ridurre le sofferenze di chi è stato colpito dal Covid e a vaccinare circa il 90% della popolazione sopra i 12 anni. Significative sono state le manifestazioni giovanili in molte università per il superamento del numero chiuso a Medicina. 

Contemporaneamente, i giovani hanno incominciato a ragionare e parlare di futuro, anche per effetto dell’emergenza ambientale. Non c’è genitore che si lamenti della partecipazione dei propri figli alle manifestazioni del Fridays For Future, lanciato da Greta Thunberg. Non c’è persona ragionevole che pensi che il PNRR, finanziato con crediti europei, possa essere piegato ad esigenze di breve periodo o per motivi assistenzialistici.

Quei soldi ci verranno dati se progettiamo un futuro senza inquinamento, digitalizzato, più equo e più inclusivo. Una riconversione sia del nostro apparato produttivo che dei servizi sociali che non fa l’occhiolino ai “lavoretti”, alle attività dequalificate, ai bassi salari come volani della competitività internazionale. Ma punti piuttosto a un sovrappiù di formazione e quindi di alta qualificazione delle competenze dei giovani, da orientare ai lavori che utilizzano le nuove tecnologie e le necessarie riconversioni ecologiche, oltre che impegni formativi massicci rivolti agli adulti che non devono rimanere passivi od opporsi alla perdita di vecchi lavori. 

Di questo c’è diffusa consapevolezza; se c’è un messaggio politico che emerge da questa importante tornata elettorale sui sindaci, è che questo Governo è sulla rotta giusta e va lasciato fuori dalle diatribe partitiche. Anzi, c’è un enorme punto interrogativo che l’elettorato ha espresso disertando il voto. Non è qualunquismo ma richiesta di essere posti di fronte a proposte di alto profilo nel confronto politico. Esso è apparso a troppi, ancora molto lontano dai temi cruciali del futuro e in particolare a come rendere compatibile la ricerca di una nuova sostenibilità dello sviluppo con l’inevitabile tenuta e rafforzamento della coesione sociale. 

Game is over, cantano gli Evanescence. E’ tempo di messaggi robusti,   profetici e partecipativi. Non si sente più il bisogno di spettacoli effervescenti, di parole vuote. Serve la costruzione di un nuovo contratto sociale forte negli intenti e chiaro nel come praticarli. Infatti, o si è protagonisti del cambiamento o lo si subisce. Per questo occorrono più ragione e meno emozioni: questa è una sfida alla quale non possono sottrarsi né i soggetti rappresentativi della società civile, né tantomeno il sistema dei partiti.      

 

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