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Il costo della CO2 deve essere uguale ovunque

Da Roma a Glasgow è stato un susseguirsi di impegni, sulla carta, importanti delle diplomazie internazionali e senz’altro sono legittime le dichiarazioni dei Presidenti dei Ministri , quello italiano Mario Draghi a conclusione del G20 e del leader britannico Boris Jhonson al termine della COP 26, che hanno rivendicato la positività e il successo del lavoro svolto.

Mille miliardi di nuova piantumazione di alberi, riduzione dell’uso dei combustibili fossili, abbattimento delle emissioni globali di CO2 del 45% entro il 2030, creazione di un mercato internazionale  per i crediti di carbonio, sostegno di 600 miliardi entro il 2026 ai Paesi in via di sviluppo per far fronte alla transizione energetica, costruzione di modulistiche e sistemi che rendono possibile la verifica della  veridicità dei dati delle emissioni dichiarate da ciascun paese, revisione a partire dalla prossima COP 27 degli impegni nazionali di riduzione delle emissioni, impegno più deciso sul contenimento a 1,5° dell’aumento della temperatura globale entro la fine del secolo, l’impegno a bloccare la deforestazione a partire dal 2030, ecc.

Sono dichiarazioni e impegni sottoscritti da tutti paesi del globo e solo per questo meritevoli di essere apprezzati e valorizzati e sono anche più stringenti e precisi rispetto a quelli precedenti e questo costituisce senz’altro un valore positivo per questi meeting globali che hanno una crescente attenzione e partecipazione dell’opinione pubblica. Questa vetrina mondiale costringe gli Stati a portare alla conoscenza delle opinioni pubbliche dell’intera umanità le loro intenzioni e i loro impegni sulla salvaguardia e la tutela della condizione umana sul pianeta Terra. 

In questa operazione di “attenzione pubblica mondiale crescente” senz’altro un merito notevole lo ha Greta Thunberg che è stata ed è la vera promotrice di una mobilitazione giovanile mondiale mai vista fino ai giorni nostri sui temi dell’ambiente, se non forse i movimenti per la pace dell’epoca della guerra fredda e della minaccia della guerra atomica. Bisognerebbe ringraziarla per aver offerto alle giovani generazioni, in particolare, questa forte motivazione di responsabilità verso il proprio futuro e verso quello delle popolazioni più fragili. Ma dobbiamo ringraziarla, anche noi adulti, troppo disposti ad assecondare i tempi e i metodi di una diplomazia e un sistema politico internazionale lento che media sulle mediazioni e rinnova e rinforza gli impegni già presi precedentemente, ma sempre rimandati. Ad esempio l’impegno delle nazioni ricche a finanziare con 100 miliardi di dollari all’anno la transizione energetica nei paesi più poveri risale almeno al 2015, all’accordo di Parigi, ma non solo l’impegno non è stato rispettato ma non sono stati ancora definiti né le modalità della contribuzione per gli uni né la modalità e i criteri di attribuzione delle risorse ai destinatari.  Se ne parlerà in preparazione della COP 27, almeno così speriamo.

Stati Uniti e Unione Europea, compresa la Gran Bretagna per questa tematica    possono e devono prendere decisamente e congiuntamente la guida del processo della transizione ecologica e della messa in sicurezza del Pianeta Terra dagli effetti micidiali del riscaldamento globale. Come per la vicenda del COVID – l’Occidente e i Paesi democratici sono stati in grado di garantire una risposta efficace con i vaccini alla salvaguardia della salute pubblica, anche se è ancora carente la copertura vaccinale delle popolazioni povere del pianeta – anche per il contrasto al riscaldamento globale devono essere messe in campo risorse strategiche e straordinarie.

Ci sono nodi cruciali che sono tutt’ora irrisolti. Il mondo, le popolazioni hanno bisogno di energia per vivere e progredire. Se dobbiamo abbandonare, presto, i combustibili fossili, bisogna avere un piano tecnologico, industriale che renda credibile questo obbiettivo. L’India ha posto il problema vero della situazione attuale: il suo fabbisogno energetico a basso prezzo o comunque a prezzi accettabili è possibile soddisfarlo solo con il ricorso ai combustibili fossili e al carbone in particolare. Al momento attuale e per i prossimi anni, almeno un decennio, solo queste fonti energetiche possono soddisfare le proprie esigenze di rispondere alle necessità primarie della sua popolazione.

L’occidente e le democrazie liberali devono risolvere a breve questo problema di fondo. Quindi grandi investimenti nella ricerca delle tecnologie per la produzione energetica da fonti pulite, come ci sono stati grandi investimenti nella ricerca dei vaccini anti Covid.

La Cina da un lato, sostanzialmente dietro le quinte, ha sostenuto l’India, dall’altro, per evitare l’isolamento in cui si stava cacciando, la Cina ci tiene moltissimo alla sua reputazione nei confronti dei paesi del terzo mondo, ha ufficializzato il patto diretto con gli USA per un impegno alla lotta ai cambiamenti climatici.

La Cina è una potenza economica industriale e finanziaria che sta sfruttando al massimo sul piano industriale e produttivo le scelte dell’Occidente verso la green economy. In Cina si produce oltre il 50% delle macchine elettriche del mercato mondiale e oltre l’80% delle batterie per alimentare le stesse, si è accaparrato la maggior parte delle risorse minerarie per la produzione delle batterie elettriche, produce la quasi totalità dei pannelli fotovoltaici che si installano nel mondo. Nello stesso tempo, continua ad installare decine, centinaia centrali a carbone che inquinano il mondo intero. Oltre il 50-70% della propria energia viene dall’uso del carbone e fino al 2030 ha dichiarato che non avrebbe ridotto le proprie emissioni rivendicando il diritto ad inquinare, visto l’accumulo di emissioni prodotto dall’Occidente nei decenni precedenti. E inoltre è stata inflessibile nel non assumere l’impegno allo zero di emissioni nette di CO2 al 2050, ma ponendo tale obiettivo al 2060.

Bisogna ridurre le importazioni dalla Cina. Bisogna che le catene mondiali di produzione e fornitura di prodotti e componenti di prodotti e apparati riducano la fornitura dalla Cina, in quanto ogni prodotto che viene dalla Cina ha un carico notevole di emissione di CO2 superiore alle emissioni dello stesso prodotto realizzato in quasi qualsiasi altra parte del mondo.  Oggi in Europa qualsiasi produzione, specialmente quelle energivore, cemento, acciaio, carta, vetro, ceramica, chimica, metalmeccanica, ecc.  paga un prezzo per la CO2 che emette. Il prezzo della CO2 è arrivato ad oltre 60 euro a tonnellate e tende a salire costantemente. Questo comporta due effetti. Da un lato le imprese sono costrette a forti investimenti in efficienza energetica e ad approvvigionarsi di energia pulita, dall’altro, però, hanno prezzi più alti dei prodotti made in China che non hanno questo sovrapprezzo della tassa sulla CO2. Per questo la proposta della tassa sulla CO2 dei prodotti in ingresso sul territorio europeo deve essere prima possibile operativa. Ma più che la tassa ai prodotti in ingresso, che comporta la guerra delle dogane e del commercio internazionale, bisogna realizzare un sistema PARITARIO in cui il costo della CO2 abbia un valore uguale per tutti i prodotti sulla base del mercato di destinazione. Se ogni chilo di acciaio ha un sovrapprezzo di CO2 pari a 10 per il 2022 se prodotto e commercializzato in Europa, lo stesso chilo di acciaio prodotto in Cina e venduto in Europa deve avere un sovrapprezzo di 10 + X ( X= alla CO2 in più che comporta la produzione dell’acciaio in Cina che ha un sistema produttivo con maggiore utilizzo di carbone) che deve essere versato dal venditore all’Europa. Quindi non si applica una tassa al prodotto perché viene dalla Cina, ma da qualsiasi parte del mondo, sulla base del suo fardello di CO2, di quanto veleno climatico è stato immesso in atmosfera. Si pone quindi la necessità di una contabilità e della tracciabilità della CO2 e dei gas climalteranti. Il sistema della tracciabilità della CO2 deve applicarsi all’intera filiera produttiva e in questo modo si favorisce maggiormente la filiera corta  e l’economia di prossimità, ma anche la produzione energeticamente più efficiente e meno inquinante.   Un sistema che deve arrivare gradualmente all’etichettatura di tutti i prodotti, compresi quelli degli acquisti dei prodotti quotidiani in maniera che il singolo cittadino può essere protagonista con le sue scelte negli acquisti, compresi i prodotti finanziari, di essere un protagonista diretto della salvaguardia del benessere dell’umanità sul pianeta Terra.

Per questo la COP 26 ha compiuto molti passi in avanti, ma Greta ha ragione quando sostiene che ci sono anche operazioni di semplice makiage e soprattutto il mancato confronto e le risposte credibili sulle questioni di fondo circa scelte e decisioni convincenti su impegni di spesa per nuove tecnologie, nuove e soddisfacenti fonti energetiche, nuovi modi di produrre e consumare, nuovi stili di vita. Insomma i ministri dell’economia e della finanza, quelli della ricerca e dell’innovazione tecnologica, quelli dell’industria e della regolazione dei mercati, al momento sono solo sfiorati dalle decisioni di Glasgow.

Infine il sindacato internazionale, ancora una volta presente con una delegazione importante, ha ribadito che Just Transition è la garanzia del successo della sfida al riscaldamento climatico. Ma sono pochi gli Stati che hanno definiti i piani della Just Transition, vale a dire la gestione della perdita di tanti posti di lavoro e l’accompagnamento ai nuovi lavori e professionalità della economia della sostenibilità. La vera sostenibilità rimane quella sociale, del lavoro dignitoso e legale, della giustizia sociale, oltre a quella ambientale ed economica.  Solo una vera alleanza Ambiente e Lavoro, economia verde e giustizia sociale rende credibile un futuro migliore.                                                                                                                                                                                          C’è da chiedersi come mai il sindacato italiano, che ha un prestigio anche internazionale, non ancora assume la guida di questo cambiamento epocale almeno in Italia.                                                                                            

 Rimane però confermato il ruolo importante e incisivo di Papa Francesco, che anche in questa circostanza ha contribuito a fare avanzare il concetto dell’Ecologia Integrale. Un’ ecologia sostenibile che è tale se ha alla base il benessere degli ultimi, degli“scarti”.                                                                                                             Un’ecologia inclusiva, condivisa, partecipata è segno di nuova fratellanza tra gli uomini e di riconciliazione con madre Terra. 

 

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