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La lezione dell’ impennata dei lavoratori dimissionari

Rimbalza dagli Stati Uniti un’attenzione giornalistica ma anche accademica sul fenomeno delle dimissioni dal lavoro, in una fase di crescita rispetto al passato. Provoca meraviglia che, in un periodo di ripresa economica e quindi di maggiore garanzia del posto di lavoro, si registri un volontario abbandono del “certo” per, spesso, l’”incerto”. 

Questo fenomeno è stato battezzato negli USA, “Great Resignation”. Si sottolinea così una tendenza, già da tempo messa sotto osservazione da alcuni studiosi del mercato del lavoro statunitense, partita dai Millennians (26/41 anni) e ora coinvolgente anche la generazione Z (sotto i 25 anni), volta a dare più importanza alle motivazioni esistenziali “del” e “nel” lavoro che quelle strettamente salariali e normative.

Il fatto che la macchia si allarghi anche alla generazione di mezza età, sia nell’area tecnica e manuale che in quella intellettuale e professionalizzata, alimenta una discussione a vasto raggio sul futuro della qualità del lavoro, sul suo rapporto con le esigenze di vita quotidiana delle persone, sulle strutture di supporto a processi di mobilità lavorative, specie in riferimento ai cambiamenti imposti dalla sostenibilità ambientale. Conclusioni non ce ne sono ancora, ma è certo che non è un fenomeno passeggero.

Anche in Italia, ha sorpreso il fatto che si stiano registrando picchi consistenti di dimissioni dal lavoro, soprattutto in concomitanza con la ripresa delle attività lavorative, dopo il lockdown (500.000 circa tra il terzo trimestre del 2019 e l’equivalente del 2021). Americanizzati? Non appesantisco il ragionamento che segue con i dati statistici. Chi sente l’esigenza del loro conforto, rinvio all’articolo di Anastasia ed altri qui pubblicato, relativo soprattutto al Veneto, ma che traccia un quadro anche a carattere nazionale.  

Come si può notare, l’arco dell’osservazione è troppo stretto – un paio d’anni – per trarre conclusioni inoppugnabili. Né si possono traslare le valutazioni che valgono per il mercato del lavoro USA su quello italiano. Sia in fatto di flessibilità che di capacità adattiva, il primo è ampiamente diverso dal secondo. Ciò non toglie che si possono intravvedere tendenze e finanche novità che vale la pena tenere sotto osservazione per non compiere errori in termini di politiche da attivare.

Un primo rilievo è che un tasso di dimissioni intorno al 10% all’anno, se dovesse diventare d’ordinaria rilevazione, metterebbe una pietra tombale sull’enfasi finora assegnato al “lavoro fisso” per tutta la vita. E questo, non per esclusiva pressione delle imprese che vogliono liberarsi di professionalità e attitudini obsolete, ma per crescente scelta individuale che forse mette nei pasticci l’azienda. Di fronte ad un gap tra domanda ed offerta ormai attestatosi a livello nazionale intorno alle 250.000 persone, non deve impressionare che la metà delle persone che si sono dimesse, abbiano trovato lavoro rapidamente. Nel tempo, questa pressione potrà favorire non pochi ricambi nella vita lavorativa di molti lavoratori e lavoratrici. Altro che lotte di resistenza ad oltranza per la sopravvivenza di produzioni e servizi fuori mercato, con professionalità obsolete. Diventeranno un’eccezione di fronte alla mobilità indotta da migliaia di dimissioni e riassunzioni individuali.

Una seconda questione riguarda specificamente la condizione delle donne. Una quota rilevante delle dimissioni è motivata dalla maternità e dalla carenza di servizi alla persona e sociali che consentano un rientro facilitato al lavoro (cfr Ispettorato Nazionale del Lavoro, Relazione sulle dimissioni delle lavoratrici madri e lavoratori padri, 2020). Se si vogliono più nascite e donne che lavorano, non bastano i bonus (che non fanno mai male, anche perché per la prima volta sono diventati più sostanziosi, anche se non ancora concorrenziali con quelli francesi e tedeschi) e più ore a disposizione per i padri. Servono asili nido, tempo pieno a scuola, smart working diffusi, servizi di trasporto e mense che consentano alle donne di avere quanti figli desiderano e di non renderli alternativi al lavoro.  

Infine, vanno zoomate le ragioni e gli stimoli per un ricambio di lavori sempre più esteso. Una cosa è se tale ricambio avviene per carenza di professionalità nel mercato del lavoro e le aziende fanno a gara per accaparrarsi quelle che si dichiarano disponibili ad abbandonare le proprie postazioni. In questo caso, la componente salariale sarà sicuramente prevalente, ma potrà crescere anche quella delle condizioni di soddisfazioni personali, specie se vi sono aziende che curano con sollecitudine questi aspetti della vita lavorativa e della sua conciliabilità con quella privata. 

Altra cosa è se avviene – come si profila con la transizione ambientale e quindi per un periodo medio-lungo – per mutazione del profilo organizzativo aziendale che produce un ricambio di professionalità, non sempre recuperabili riqualificando le vecchie, esistenti in azienda. In questo caso, la pressione per dimissioni “spintanee” diventerà insistente, specie nelle medie e piccole imprese. In questo caso, il rischio che un numero crescente di persone resti per lungo tempo senza lavoro, diventa reale. 

Con queste c’è poco da filosofeggiare sul senso del lavoro, sulla sua autonomia operativa, sul suo valore creativo. L’interesse se non l’ossessione diventano altro. Specie se agli interessati si prospettano un’indennità temporanea e genericamente la possibilità di formarsi, ma senza assicurare un sostegno nella ricerca del nuovo lavoro. Le politiche attive, sono veramente tali, se combinano studio e orientamento verso un nuovo lavoro stabile. Specie per gli adulti disoccupati, allo stato, non ci sono soggetti istituzionali privati e pubblici adeguati per formarli con prospettive certe e accompagnarli verso lavori più qualificati. Lo spettro dei “lavoretti” per questi dimissionari, è dietro l’angolo.

In definitiva, il futuro del lavoro è roseo soltanto per quelli che non rinunciano a studiare per tutto l’arco della loro vita. Quella è la vera assicurazione per la libertà di scelta del lavoro che preferiscono. Non siamo ancora attrezzati per questo scenario e non ancora si vede con nettezza “se” e “come” con il PNRR si sopperirà a questa carenza. Purtroppo non è neanche prevedibile che le dimissioni diminuiscano……    

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