Volenti o nolenti siamo in una fase in cui dobbiamo cambiare modello di sviluppo, se non altro per sopperire alle difficoltà che hanno gli ecosistemi di assorbire con i loro tempi biologici le celerità dei cambiamenti da noi generati. È l’analisi dei cambiamenti e delle difficoltà ambientali e sociali incombenti, che ci dicono che siamo destinati a passare dallo sviluppo insostenibile a quello sostenibile ed è in questo passaggio che cambieranno i modelli di accumulazione e distribuzione della ricchezza.
In buona sostanza ricerca degli equilibri ecologici e nuovi princìpi di accumulazione saranno la verifica della realizzazione e dell’accettazione sociale del cambiamento realizzato nel rispetto degli equilibri ecosistemici. Questo significa che dobbiamo produrre una nuova cultura, cambiare molti paradigmi della ricerca e della formazione, formare il mercato del lavoro, ridefinire la filosofia e la geografia della globalizzazione, ritrovare il valore dello sviluppo locale e della partecipazione sociale alle decisioni.
È per i cambiamenti preannunciati che i detentori degli attuali processi produttivi, delle fonti energetiche fossili, dell’accumulazione e del suo uso, stanno facendo le barricate; è per questo che Glasgow ha avuto le conclusioni che conosciamo ed è sempre per questo che i cambiamenti attuati, se pur attuati, sono inferiori a quanto richiesto dalla vox populi.
Quello che non si capisce è perché molte volte anche i difensori del lavoro come matrice della cultura, del progresso e delle libertà, si uniscono all’accanimento terapeutico per difendere occupazione e processi di una forma di capitalismo dichiaratamente a termine.
Bisogna aver ben chiaro che lo sviluppo insostenibile può gestire solo lavori che, nella visione e definizione storica, sono residuali. Nello sviluppo sostenibile risiedono i nuovi e futuri lavori, figli della nuova cultura, delle nuove scienze, della sostenibilità dei processi, dell’equità e di una diversa formazione e distribuzione dell’accumulazione.
Non sarà solo sugli indicatori di sostenibilità e insostenibilità che si misureranno i cambiamenti. L’affacciarsi dell’informatica, per ora ai primi vagiti, ha già fatto capire con che peso parteciperà ai cambiamenti. L’espansione delle nuove tecnologie ha creato molte facilità e facilitazioni ma, non governata, ha creato anche settori assurti a veri produttori di ricchezze individuali (social network e distribuzione) tra l’altro difficilmente tassabili. Soprattutto nella sua specificità individuabile nell’annullamento della categoria spazio-tempo, ha realizzato una nuova e inedita distribuzione globalizzata del lavoro amplificando la distribuzione geografica, sociale e individuale del reddito troppo spesso ineguale.
Per concretizzare con un esempio, pensiamo all’elaborazione degli algoritmi attraverso l’uso estensivo dello smart working mondiale, agli eserciti di raccoglitori, analizzatori e aggregatori di dati per l’elaborazione e l’uso degli algoritmi stessi.
L’esempio fa capire come la distribuzione mondiale delle conoscenze finalizzate e del lavoro diventino la struttura per l’uso ineguale dei salari, dei profitti e del lavoro fuori dalle regole politico-sindacali delle democrazie occidentali. Nel mondo del lavoro globalizzato, molti operatori sono impiegati per i pochi dollari previsti dalle economie dei paesi poveri e producono ricavi in linea con le ricche economie occidentali.
Basta questo esempio per capire come sia necessario promuovere (o ripromuovere) la domanda interna nei Paesi di tutti i mondi, a garanzia del ben-essere delle società locali, del loro accesso alla salute e alle necessità primarie, alla crescita dell’occupazione soprattutto nei lavori attuatori del nuovo sviluppo.
Non è un cambio di scena, è un cambio di teatro; è un cambio che tutti vogliamo attuare nelle regole della transizione democratica e partecipata, senza cruenza e senza giacobinismo. Sappiamo tuttavia che lascerà morti e feriti nel campo antico.
È qui che poniamo la domanda: quanto ci faranno diluire i tempi della transizione? Quanto dobbiamo ancora soccorrere quelli che avendo costruito le loro fortune, ricchezze e poteri (anche culturale) sullo sviluppo insostenibile, ora invocano la continuità? La domanda non è peregrina: sono loro le lobby che eleggono i Presidenti e indirizzano la politica e quindi possono (e vorrebbero) essere anche i padroni della transizione.
Per fortuna c’è una forte azione sociale che ci ricorda e che, per mantenere lo status degli equilibri ecosistemici conosciuti (e nei quali viviamo secondo abitudine), dobbiamo passare dal modello di sviluppo che li sta compromettendo a un modello che li garantisca e che dovrà essere in larga parte nuovo e, come abbiamo detto, con nuovi attori, nuove tecnologie, nuova cultura ma anche nuova formazione del mercato del lavoro e della ricchezza.
La certezza che ancora oggi ha il campo antico è che, fino a quando il campo nuovo non produrrà ricchezza vera e diffusa, esso rappresenta solo speranze e aspettative di futuro. Il campo antico sa che i pericoli nasceranno quando il campo nuovo produrrà ricchezza e accumulazione dalle modificazionistrutturali e dai nuovi paradigmi su cui si misurano e convergono i nuovi attori e le nuove azioni.
Se con i dettati dello sviluppo insostenibile abbiamo creato una dicotomia tra tempi storici e tempi biologici, ora dobbiamo riavvicinare i valori del cambiamento ai valori della resilienza e dell’evoluzione. Sono i tempi della cultura e della scienza che devono dare valore ai modi e ai tempi della formazione, della produzione e della vita sociale; dobbiamo fare in modo che i nuovi tempi storici siano compatibili con i valori ecosistemici ammettibili con i cambiamenti possibili nei tempi biologici.
Per ora stiamo vivendo un momento di conflittualità, determinata dalla compresenza di tre elementi: la necessità di marginalizzare l’economia di continuità con il ‘secolo breve’, la nascita e l’uso di nuove tecnologie che rivoluzionano il mondo dell’elaborazione dei dati, della distribuzione e della mobilità delle idee e dell’informazione, e infine l’individuazione di cultura, progetti e azioni per realizzare lo sviluppo sostenibile.
Questo passaggio deve essere gestito dagli Stati, con le sue istituzioni e centri di ricerca, le organizzazioni del lavoro, le fondazioni, le associazioni e le organizzazioni associative che hanno nei loro statuti i valori dello sviluppo sociale e ambientale sostenibile. Gli Stati devono indirizzare le risorse a loro disposizione verso i settori d’innovazione o comunque strutturali e strutturati con i paradigmi dello sviluppo sostenibile.
Certo non si può lasciare indietro nessuno. Non si possono creare nuove povertà e nuove disoccupazioni. Chi è in queste condizioni deve essere reinserito in programmi di riqualificazione e riconversione strutturale e funzionale.
Gli Stati hanno gli Istituti di Ricerca e le Università, ma dispongono anche di reti di formazione, promozione, partecipazione allo sviluppo locale e all’individuazione delle peculiarità e particolarità dei territori nelle quali e con le quali si possono formare progetti, promuovere innovazione, riformare il mercato delle conoscenze e del lavoro. Sarà così possibile gestire la riconversione e riqualificazione dei processi, del lavoro e dell’imprenditoria.
In un precedente articolo proprio su Nuovi Lavori, portavo come esempio la possibilità di legare la ristorazione minuta e delle mense (scuola, sanità, fabbriche …) alle produzioni agricolo-zootecniche locali per superare lo scempio salutare e organolettico dei precotti. Garantire questi livelli di progettualità, di micro progettualità e gestione, è facile; bisogna solo volerli progettare, finanziare, attuare.
Il mercato seguirà ma l’inversione deve essere sorretta nel suo abbrivio, come avviene in un motore a scoppio dove serve il volano di inerzia. Oggi per promuovere e garantire il passaggio allo sviluppo sostenibile serve l’intervento centrale che garantisca i finanziamenti all’innovazione, alle start up, alle cooperative di comunità, allo sviluppo locale, alla partecipazione.