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Facciamo costare di più il lavoro a tempo determinato

Sull’innegabile e inedito risultato del PIL del 2021 – un 6,2% di incremento annuo, il più forte nell’area dell’Unione Europea – si allunga un’ombra grigia che lo rende fragile. Non è né quella dell’inflazione che sta crescendo un po’ ovunque nel mondo e frenare l’andamento dei consumi. Né quella dell’aumento vertiginoso dei prezzi del petrolio e di alcune materie prime che qualche seria difficoltà la stanno creando, ma senza particolari drammatizzazioni. Per ora, l’uno e l’altro fenomeno hanno natura sostanzialmente congiunturale.

Quello che si profila come un dato che può avere caratteristiche di strutturalità è la qualità dell’occupazione. Pur non recuperando ancora i livelli pre-pandemia, la dinamica dell’occupazione è stata vivace e diffusa. Il punto di debolezza è la sua composizione. Dopo quasi due anni di crisi sanitaria, gli occupati (sia dipendenti che autonomi) sono tornati ad essere oltre 23 milioni. Prendendo l’ultimo dato disponibile, quello di novembre 2021, si hanno 494.000 attivi in più rispetto allo stesso mese del 2020. Ma il 90,6% di essi hanno in tasca un contratto a tempo determinato. 

La spiegazione non è difficile. Nella stragrande maggioranza delle imprese, il fatturato cresce, ma in un contesto di perdurante incertezza. Gli ordini arrivano ma a scadenza troppo ravvicinata. Il futuro più vicino non è chiaro. Come è stato detto,si vive “in una condizione di tempo sospeso” nel quale può diventare normale “la stessa continua messa in discussione della normalità” (A: Rosina, Oltre la pandemia, 24 ore 11/01/2022). Infatti, c’è la consapevolezza che l’instabilità sanitaria sarà compagna durevole dell’attività produttiva. Da qui, la prudenza nel ricorrere alle assunzioni a tempo indeterminato. Siamo a 3 milioni 86 mila lavoratrici e lavoratori coinvolti, il 17,11% degli occupati dipendenti. 

E’ uno spaccato del mercato del lavoro non più marginale e neanche soltanto dequalificato. L’indagine IAPP Plus ha censito 570.521 lavoratori delle piattaforme digitali in Italia che vanno dai riders ai programmatori informatici e per la gran parte senza contratti a tempo indeterminato. Anzi, tre su dieci lavoratori non hanno neanche un contratto scritto. Il 26% non gestisce direttamente l’account di lavoro per accedere alle piattaforme. Il 13% ha il pagamento del lavoro svolto da un gestore esterno.

Molti Governi si sono cimentati nel cercare di riportare il contratto a tempo determinato in un alveo di eccezionalità. Con scarso successo. La forza della ricerca della massima elasticità possibile da parte delle aziende, in un contesto di disoccupazione sopra il 10% e di scarsa innovazione tecnologica e quindi di modesta esigenza di professionalità evolute ha favorito un uso sempre più vasto di tante forme di contratto a tempo determinato o a partita IVA. Modificare le normative di legge, non è servito a contenere il fenomeno. La precarietà della condizione delle persone, specie se giovani e donne, è diventata endemica.

Prendere atto di questo sostanziale fallimento non vuol dire dichiarare fuori legge il contratto a tempo determinato. Alcuni commentatori, anche autorevoli (intervista di Bombardieri su Il Fatto Quotidiano, 04/01/2022), hanno letto fugacemente il nuovo patto sociale spagnolo e chiedono di adottarlo. In realtà, in quel documento diventato nel frattempo legge, si mettono paletti all’uso del contratto a tempo determinato, più o meno come in Italia. D’altra parte, è sconsigliabile una drastica decisione. Alimenterebbe la corsa verso le partite Iva e il lavoro nero. Con tutte le conseguenze del caso.

C’è solo una decisione da prendere se si vuole effettivamente contenere di più e tutelare meglio la fascia di quei lavoratori che vogliono accettare o non possono rifiutare gli “n” tipi di contratto a tempo determinato. Bisogna farlo costare di più di un pari lavoro a tempo indeterminato. Questo maggiore costo per l’azienda deve essere significativo e deve andare ad incrementare un “tesoretto pensionistico” in modo tale che quel lavoratore al termine della propria vita lavorativa, specie se ha avuto molte interruzioni e quindi buchi contributivi, non sia penalizzato troppo nel calcolo della propria pensione. Si tratta di un disincentivo serio al ricorso sfrenato all’uso di questo contratto da parte imprenditoriale e di un sostegno per circoscrivere la precarietà di chi lo accetta.

In questo modo si taglia la testa al toro della ideologizzazione del dibattito tra possibilisti e negazionisti. Un lavoro a tempo determinato è legittimato dalla qualità del tempo e del contenuto del lavoro che viene svolto. Diventa una dannazione soltanto se è palesemente utilizzato per avere mano libera nel pretendere prestazioni esagerate e nel fare a meno delle persone, senza passare attraverso la tagliola del licenziamento. In ogni caso, l’impresa, usandolo, ne trae vantaggio. Questo vantaggio deve essere indennizzato ed il modo migliore è quello di farne un “risparmio” per la vecchiaia più che un “consumo” per il presente.     

 

 

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