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Dejà vu e dejà entendu sulla siccità

È vero che abbiamo il difetto di conoscere e raffrontare ma spesso, ed è un altro difetto che abbiamo, non portiamo la deduzione alle debite conseguenze della denuncia.

Sto parlando della siccità, delle crisi ambientali che si collocano a monte e a valle, delle conseguenze che hanno sull’agricoltura, sulle condizioni di vita e di salute, sui prezzi al consumo. Eppure sono anni che conosciamo problemi e cause con tutta la pletora degli effetti derivati come la siccità, le piogge a carattere monsonico e tutte le variazioni delle quali siamo diventati, conoscitori più o meno colti o informati.

Andiamo con ordine, mettendo a confronto due elenchi molto macro e sicuramente scontati per tutte le volte che li abbiamo letti e sentiti nelle cronache giornalistiche e nei resoconti tecnici tanto che ciò che leggeremo è un vero e proprio elenco di dejà vu e di dejà entendu sulla siccità.

Abbiamo visto, letto e sentito talmente tanto che ci chiediamo perché tutto questo non sia diventato anche il presupposto di azioni amministrative, politiche ed economiche volte, se non alle soluzioni, almeno al governo di processi di gestione e compensazione.

Forse dobbiamo tirare due conclusioni:

  1. repetita NON juvant
  2. le istituzioni amministrative, politiche ed economiche, preposte alla loro soluzione e/o mitigazione-contenimento, non hanno fatto il loro mestiere o peggio ancora il loro dovere.

Guardiamo gli elenchi. Nel primo sono comprese alcune evidenze inconfutabili della realtà; nel secondo ciò che da anni ci dice la cultura, la ricerca scientifica, la conoscenza con ammonimenti talmente chiari e rilevabili che sono ben presenti nei dati ufficiali e nel sentire comune.

Al primo elenco appartengono i cambiamenti climatici (con relativo aumento della temperatura, scioglimento dei ghiacciai, modificazione dei flussi e delle portanze fluviali), pochi e insufficienti imbrigliamenti e recuperi delle piogge, gli acquedotti colabrodo, gli eccessi di terreni impermeabili, i boschi abbandonati a sé stessi con immensi sottoboschi che sono vere micce e massa per incendi, l’uso e l’abuso di inquinanti nel traffico aereo, marino e terreste, l’alta produzione di CO2 delle e nelle città, tanto che nessuna potrebbe partecipare alla lotteria della più inquinata perché ci sarebbe un ex equo sterminato. 

Al secondo appartengono in primis lo sviluppo insostenibile (la contraddizione in termini è voluta, cercata e spero emblematica) e, in successione, tutte le sue derivate a cominciare dal continuo finanziamento alle energie fossili, al rallentamento dei finanziamenti per le rinnovabili, all’incapacità di promuovere azioni volte all’effettivo contenimento dell’aumento della temperatura media di terra e oceani, al perpetuarsi di un’agricoltura che da presidio del territorio si è tramutata in una produttrice di deserti verdi, all’incapacità di costruire acquedotti idonei (incapacità ancora più grave se paragonata alla capacità di costruire gasdotti che traversano mari e montagne). 

Eppure è così facile mettere in relazione gli elementi. Da vecchio montanaro quale io sono, propongo per primo quello dei boschi e dei sottoboschi: sono una riserva di energia per produrre anche con piccoli impianti, acqua calda, gas o elettricità; se lasciamo marcire tutto a terra, abbiamo la trasformazione in esche incendiarie, ostacoli per la flora, la fauna e il godimento umano della montagna. Sempre rimanendo nella montagna, poniamoci questa domanda: è possibile che in un territorio come quello italiano che ha più montagne che pianure, che ha un’infinita varietà di acque minerali, che “da ovunque” scendono ruscelli e cascatelle, sia così difficile prendere le numerose mappe delle sorgenti e affidarle a Università e Istituti Pubblici di Studi e Progetti per arrivare a una loro utilizzazione unitaria e funzionale?

Vogliamo continuare su questo argomento? Allora, quando marane e fossi sono scomparsi come raccoglitori d’acqua dei declivi con relativa diversità faunistica e botanica dei bordi, come sono stati sostituiti?

Se solo raccogliessimo tutti i residui di stalla e li convogliassimo per produrre energia (biogas e biodiesel), quanto inquinamento in meno e quanto lavoro impiegato nello sviluppo sostenibile potremmo avere?

Ho un’altra domanda: i tanti centri agrituristici che danno vita e vitalità alle nostre economie territorialmente periferiche, perché non si dotano di raccoglitori d’acqua dei declivi e/o di laghetti alimentati dai recuperi dell’acqua che, se ben costruiti nel giusto rapporto biologico ed ecologico tra alghe, piante palustri e ossigenanti, fiori acquatici e pesci creano paesaggio, benessere ecologico e fonte di svago (e se ben costruiti anche riserve alimentari)? Del resto nei vecchi fontanili che raccoglievano acque di sorgenti o di declivio venivano messe le carpe per tenere pulita l’acqua, così come nelle cisterne romane venivano buttate per lo stesso fine anguille e capitoni.

Non serve andare lontano; quando andiamo a visitare un castello o un monastero guardiamo la precisione dell’ingegneria idraulica: non una goccia d’acqua poteva andare sprecata e nessuna goccia d’acqua andava sprecata.

I Mandarini in Cina si occupavano del controllo delle acque che ha rappresentato da sempre il grado di civiltà e di evoluzione tecnologica dei popoli.

Oggi anteponiamo ai valori del sistema idrico territoriale quello della percorribilità di trattori che somigliano sempre di più a carri armati. Forse sono proprio carri, ma armati contro l’equilibrio del territorio, la sua salute, il nostro benessere.

Allora, è possibile che le autorità siano come le tre scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano?

Denunciamoli.

Il loro ufficio è quello di garantire la salute e il benessere dei cittadini e del territorio, se non lo fanno è omissione.

E poi lo stato di calamità. Come, a incuria compiuta, non darlo. Ma in uno Stato i soldi non sono infiniti, anzi sono ben definiti dal monte tasse a disposizione con il quale si devono pagare i servizi ai cittadini, lo stato sociale, la salute, il rifacimento del sistema idrico… La coperta si fa corta. La scelta e il sacrificio danno ancora più fastidio quando ci ricordiamo che è da poco finito il settennio di finanziamenti europei dedicati all’agricoltura (e quindi anche all’acqua e all’energia ad essa utile e da essa derivabile). NON ho i dati sottomano perché mentre scrivo sono in campagna ad annaffiare l’orto con la riserva d’acqua che mi viene dalla cisterna romana che raccoglie la pioggia che durante l’anno transita per il tetto di casa, del fienile, dei pollai e della scuderia, ma sicuramente parte dei fondi saranno, come sempre, tornati indietro. Ma anche se non fosse così, non ho visto nessun progetto di nessuna regione volto al governo dei futuri prevedibili disastri.

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