A proposito di Europa, mi piace riportare un’esperienza nella quale Nuovi Lavori è stata, sia pure marginalmente, coinvolta. E’ il percorso di studio, ricerca, confronto e sintesi che ha fatto per due anni un gruppo di studenti (16 più 8 tra insegnanti ed esperti) del liceo linguistico “Leopoldo Pirelli” di Roma, assieme ad altrettanti coetanei belgi, spagnoli e tedeschi. Nell’ambito del programma COMENIUS (fratello minore dell’Erasmus) hanno lavorato sulle tematiche del lavoro contemporaneo, utilizzando e producendo vari strumenti di lavoro (tutti rintracciabili sul sito EST, european shared treasure) oltre a partecipare a incontri nei singoli Paesi. Studenti e insegnanti italiani, come gli altri, sono entusiasti dell’esperienza e con loro le famiglie che hanno ospitato nelle proprie case i giovani venuti dagli altri Paesi. Per loro, i confini dell’Europa sono i loro confini. Senza se e senza ma.*
Ma questi giovani non votano il 25 maggio. Votano gli adulti dei 27 Paesi che formano l’Unione, attraversati da paure di vario tipo e speranze altrettanto varie. Le prime sembrano prevalere, anche se, non tanto lontano da noi, in Ucraina, c’è gente che rischia di morire per avere espresso il diritto di scegliere di far parte di questo progetto continentale. Di certo, non sono elezioni come le precedenti. Fino all’ultima, cinque anni fa, l’idea di Europa non era messa in discussione se non da modeste frange politiche, specie in alcuni Paesi come la Francia e l’Italia. Ma il grosso dell’elettorato è sempre andato alle urne per esprimere un’adesione, tra il moderato e l’entusiasta, al rafforzamento dei vincoli europeistici.
Ora la musica è cambiata. L’euro è sotto tiro, dopo anni ed anni di crisi economica. Bruxelles è vista come un luogo che da una spinta, specie per Paesi in maggiori difficoltà, ma per avvicinarli al baratro. L’allargamento a molti Paesi dell’Est non è stato presentato e gestito come un’opportunità per tutti, ma come una convenienza soltanto per essi. Le istituzioni europee non hanno avuto mai parole d’ordine volte allo sviluppo, ma anzi ad un’ossessiva austerità. E’ abbastanza per giustificare quel grande cambiamento di umore che serpeggia in molti popoli dell’Unione. In pochi anni si è consumata buona parte di quel patrimonio di sintonie che accompagnò, dal Trattato di Roma fino all’introduzione dell’euro, il cammino dell’unità degli europei. Ma non per questo, va condiviso l’accumulo di pessimismo.
Non è con le mozioni degli affetti, con enfatizzazioni fuori spartito, con lanci del cuore oltre lo steccato che si possono cancellare le paure e far avanzare le speranze. Né basta dire che uscire dall’euro è una pazzia. Lo è, ma fermarsi a questa affermazione è come dire che “o mangi questa minestra o ti butti dalla finestra”. La nostra moneta è l’euro, ma una pura gestione monetaristica, nonostante gli sforzi della Banca Centrale Europea guidata da Mario Draghi, non ha dato bella mostra di sé. Né agli occhi dei “benestanti” come i tedeschi, né a quelli dei “malestanti” come gli italiani. Verso i primi, allarmati per i costi, più presunti che effettivi, a loro carico per sostenere la stabilità dell’euro e verso i secondi, tormentati soltanto dalle richieste di fare i “compiti a casa”.
Con queste elezioni, o si volta pagina o l’Europa rischia di sfarinarsi. C’è da sperare che tutte le forze politiche che non giocano allo sfascio puntino, innanzitutto, a realizzare l’unità politica europea senza la quale le politiche economiche non riescono ad avere lo spessore che è necessario in questa fase. E’ ormai evidente che se i singoli Stati hanno l’obbligo morale e politico di mantenere in ordine i propri conti pubblici, l’Unione si deve farsi carico di essere il motore dello sviluppo. Se viene meno questo, anche la sopportabilità sociale del pareggio di bilancio diventa difficile. Un convincimento profondo su questa impostazione rappresenterebbe un punto di riferimento importante per tagliare le unghie al qualunquismo e al nazionalismo striscianti.
E poi c’è la questione del lavoro. Grande cenerentola del dibattito europeo: mai una sessione del Parlamento europeo sull’argomento, mai un serio programma della Commissione, tanto da far rimpiangere i tempi di Delors. La ripresa economica mondiale aiuta a frenare la recessione, ma non a rilanciare l’occupazione. Investimenti e consumi possono avere ritmi ben più sostenuti di quelli previsti, soltanto se la funzione keynesiana degli investimenti europei viene spinta al massimo. Associata ad un deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro, potrebbero innestare una marcia in più per l’occupazione, specie giovanile.
In un contesto che assuma questi connotati, non è né azzardato, né utopico ipotizzare che a livello europeo si progettino due nuovi filoni di intervento. Il primo è quello di istituire un Servizio civile obbligatorio di 6 mesi per tutti i giovani diplomati e laureati, preferibilmente da realizzarsi in Paesi diversi da quelli di origine. Per tutti i partecipanti sarebbe un’esperienza indimenticabile. Il secondo è quello di sostenere, con adeguati incentivi, quelle aziende che decidono di diminuire l’orario di lavoro in modo strutturale e non soltanto per far fronte alla congiuntura negativa, favorendo così occupazione aggiuntiva. Una gestione europea di questa misura sarebbe garanzia di serietà e fattibilità.
Infine, c’è la questione fiscale. E’ difficile ipotizzare a breve un sistema fiscale unico per l’Europa. Ma sarebbe almeno auspicabile un rafforzamento delle norme restrittive del “nomadismo” delle aziende e delle loro sedi legali, indotte unicamente da vantaggi fiscali esistenti in questo o quell’altro Paese. Jurger Habermans in un suo recente libro (Nella spirale tecnocratica, La terza 2014) la definisce “offesa alla solidarietà civile”. Ormai lo sanno tutti, il lavoro è locale e il capitale è globale; ma almeno nell’Unione europea va contrastato l’andazzo di avere la testa dell’azienda da una parte e il corpo dall’altro. Prima o poi, il corpo va dove vuole e dice la testa e non viceversa.
Ovviamente ben altre questioni sono in ballo, in queste elezioni. Ma se ci fossero dei punti fermi su materie essenziali per la qualità del benessere dei cittadini, già sarebbe un buon passo in avanti sulla strada della speranza. Non siamo in un vicolo cieco, ma certamente ad un bivio. Il continuismo non attira più; occorrono scelte di rottura con il passato. Di ciò devono farsi portatori i gruppi dirigenti europei, sapendo che saranno valutati soltanto con questo metro. Che, peraltro, è l’unico che può sgonfiare la bolla antieuropeista che è cresciuta in questi anni. E’ l’unico che può consolidare le convinzioni di una generazione, come quella dei giovani del “Leopoldo Pirelli” e dei loro coetanei europei.