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Ridare un senso al dividendo Europa

Servono scelte economiche e architettura istituzionale adeguata, serve un ruolo pubblico per uscire  da questa crisi. In Europa è fondamentale spostare  il dibattito dall’ideologia dell’austerità alle scelte sullo sviluppo. Molti adesso sostengono questa tesi, ma tra il dire e atti concreti c’è ancora troppa distanza che alimenta incertezza e  sfiducia.

In un seminario della Fondazione Di Vittorio, il Professor Galbraith, ha definito il dogma dell’austerità come una posizione intellettualmente incoerente. E’ proprio così, e le conseguenze sono verificabili nelle indagini sulla percezione del ruolo dell’Europa da parte dei cittadini italiani. Le rilevazioni riportano giudizi molto negativi da parte della maggioranza assoluta degli intervistati sulle politiche europee e sulle sue istituzioni. La conseguenza però non è la richiesta di uscire dalla UE o dall’euro.

Questa diversità pare più dettata dalla paura dell’incognito e dalla sfiducia negli stati nazionali che dalla credibilità del cosiddetto sogno europeo.

Troppo poco si è ragionato sui cambiamenti che la crisi e la sfiducia ha ingenerato nelle persone.

Le difficoltà di vita, la paura del futuro e l’insicurezza hanno  provocato un disagio crescente e  cambiamenti nelle abitudini.

Al sesto anno di una crisi (un periodo molto lungo e assolutamente anomalo) di cui ancora non si intravede la fine è necessario interrogarsi anche su questo per tentare di dare risposte credibili.

Se poi si tenesse nella giusta considerazione quanto il lavoro è stato colpito, non solo numericamente ma anche nel suo ruolo e funzione universalmente riconosciuta di collante sociale, i problemi ed i pericoli dovrebbero essere ulteriormente approfonditi. 

E’ chiaramente  sbagliato lo schema di un’Europa che decide per tutti sull’austerità (con relative sanzioni) e che lascia ai singoli stati nazionali le politiche di sviluppo.

Ma per cambiarlo  vanno affrontati  nodi strutturali a partire da nuovi poteri delle istituzioni Europee.

Invece, a poche settimane dal voto si registrano ancora affermazioni generiche e nessuna indicazione concreta viene data in questo senso.

L’Europa è percorsa da populismi di cui in Italia abbiamo un primato ma non l’esclusiva (come dimostrano i voti della Francia e dell’Ungheria) e l’idea tecnocratica del ‘fare i compiti a casa’ è un fertilizzante di questa deriva. Si prevede e si teme che quasi il 30% del futuro parlamento europeo sia composto da forze euroscettiche o antieuro, senza alcuna conseguenza però nelle scelte che vengono fatte a Bruxelles e che ancora potrebbero influire su questa prospettiva.

Politiche europee diverse sono quindi da pretendere con fermezza e determinazione.

Nel periodo 2009-2012 la perdita di Pil si è tradotta in una rovinosa caduta fiscale (in Italia 90 miliardi in meno del previsto) e i tagli non hanno portato ad una riduzione dell’incidenza della spesa sul Pil, mentre dovrebbe essere  chiaro a tutti che l’emergenza disoccupazione e decrescita hanno un rilievo analogo al riequilibrio del debito.

Per dare futuro non basta  agire solo su fattori di contesto. Il paradosso europeo è invece di non aver fatto almeno negli ultimi 10 anni (quello dello strapotere della destra e dell’ideologia liberista) quello che Stati e banche centrali svolgono in altre realtà: un ruolo diretto a sostegno del ciclo economico ed industriale.

In Italia le spese per infrastrutture nel periodo della crisi  sono calate  e addirittura il 2011 è più basso della spesa del 2007.

Gli interventi per politiche produttive e servizi subiscono ridimensionamenti in particolare nel mezzogiorno e per le politiche ambientali la spesa è inferiore ai livelli del 2002.

Non è certo una novità il bassissimo investimento in ricerca, ma negli anni della crisi si è calato ancora.

Sono alcuni degli esempi più evidenti di come non si è contrastata la crisi nei suoi fondamentali e del perché è necessario un intervento pubblico anche come traino di investimenti privati.

Non basta superare la logica dei tagli lineari, è proprio su questi aspetti che occorre cambiare rotta se si vuole accelerare l’uscita dalle difficoltà e creare lavoro stabile e di qualità (altro che tempi determinati senza causale per tre anni).

Questo è il confronto, o il contenzioso in caso di disaccordo, da sviluppare anche in Europa.

 (*) Presidente della Fondazione Di Vittorio

 

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