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Dare forza ai potenziali di cambiamento positivi

Più che domandarsi perché il Sud non si ribella all’evidenza del declino economico e della marginalità prolungata (pre-esistenti a questa crisi ma da essa aggravati) – che continua a escluderne i cittadini, più che altrove, dalle opportunità e dai diritti civili e sociali – conviene, forse, ritornare a indagare i fattori di cambiamento e quelli di conservazione che convivono sulla scena del Mezzogiorno. 

Con uno sguardo a ritroso e uno sull’oggi.

C’è un passaggio della storia del Mezzogiorno al quale, nella riflessione comune, è importante tornare. L’Italia è una Repubblica grazie alla vittoria del referendum costituzionale. Ebbene, quella vittoria ci fu anche grazie al compatto e non scontato voto repubblicano dei contadini e dei braccianti meridionali. La parte più povera, dunque, della società meridionale si rivelò essere fortemente dinamica in un passaggio decisivo. E fu dinamica nonostante due decenni terribili, vissuti proprio da questa parte della popolazione più esclusa dai diritti e dalle opportunità. 

Ricordiamolo. Tra il 1926 e il 1941 – mentre vi fu un nuovo aumento demografico più rapido di quello del Nord – la recessione mondiale e la sua gestione da parte del regime fascista imposero la riduzione dei salari agricoli a sostegno dei latifondisti e fecero crollare i prezzi in agricoltura che allora contribuiva per il 70% alla formazione del reddito meridionale. E, intanto, si arrestarono l’emigrazione verso l’America e il flusso delle rimesse degli emigranti, colpiti dalla chiusura all’emigrazione italiana del 1921 e, poi, dalla grande crisi del 1929. Così, la disoccupazione di massa e la miseria investirono soprattutto contadini e braccianti. E non bastarono ad arginarle né l’arruolamento nelle guerre di Spagna e d’Etiopia né le lente politiche delle opere pubbliche (limitata bonifica, estensione delle reti stradali, lavori nelle città), né le fragili protezioni sociali (prima previdenza, piccolo imponibile di mano d’opera). Quel Mezzogiorno legato alla terra e stremato dalla miseria fu portato a conoscenza del grande pubblico italiano e mondiale dal Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi. 

A tale povertà accentuata, si aggiunse il lutto tremendo della guerra (1939 – 1945), con gli uomini che morirono al fronte e, poi, le città bombardate, le industrie e le infrastrutture distrutte e anche la popolazione urbana ridotta alla fama. 

La risposta, nel complesso tessuto sociale, a quel ventennio e alla catastrofe della guerra si mosse lungo più dinamiche: le occupazioni delle terre (1943 – 1948), il diffondersi dei nuovi partiti di massa (DC, PCI, PSI) che diedero voce alle aspirazioni, la ripresa massiccia dell’emigrazione che – dal 1943 alla fine degli anni ’60 – vide partire dal Meridione 5 milioni di persone, dirette nell’Europa e nell’Italia del Nord e che costituirono una parte importante delle “risorse umane” del miracolo economico italiano grazie al lavoro e alle rimesse. 

Ecco: proprio mentre riprendeva a muoversi tutta la scena sociale, nel passaggio decisivo, la parte lavoratrice e povera del Mezzogiorno agricolo andò oltre la mera rivolta e seppe dare un sostegno politico consapevole a una nuova cornice istituzionale, a differenza dei loro proprietari che sostennero la monarchia conservatrice.  

Senza quel voto repubblicano inatteso non ci sarebbero state Repubblica e Costituzione. 

Quel passaggio – fortemente voluto dalla grande cultura meridionalista, che diede voce alle aspirazioni di libertà e giustizia anche per il Sud, in modo argomentato e articolato e non meramente rivendicativo o lamentosamente opportunista – mise fuori gioco le élites conservatrici  (l’antico notabilato) e favorì la piena immissione del Sud nella ricostruzione, nel ciclo dello sviluppo e in nuovi e più larghi processi partecipativi legati a maggiori effettivi diritti. 

E’ dopo tale passaggio che si schiuse una grande stagione di speranza: restituiti i diritti politici e civili, ricostruite le città, i porti, le industrie e le reti stradali e ferroviarie, debellate la malaria e la miseria contadina, avviata la scolarizzazione di massa anche femminile, avviate esperienze di punta di ricerca – investimento pubblico – produzione -riqualificazione urbana, attuato l’esproprio del latifondo e ridistribuite le terre, create estese opere di irrigazione, costruite infrastrutture, diffusa la sanità pubblica esteso il welfare per tutti. 

Così, grazie all’intervento pubblico e al lungo ciclo espansivo, vi è stato il raddoppio della produzione agricola, la crescita costante del reddito pro capite, delle conoscenze e dell’aspettativa di vita e un’ampia industrializzazione, che ha permesso al Mezzogiorno, insieme alla crescita dell’occupazione, di contribuire alla pari ai grandi movimenti civili del Paese. 

Nel riguardare a quel momento, col tempo, se ne sono scrutate luci e ombre e si è imparato a evitare un’interpretazione fondata sull’alternativa rivolta/sudditanza – una categorizzazione troppo semplice per esaminare processi sociali complessi. Più promettente è apparsa una lettura, per esempio, ispirata alla con-presenza sulla medesima scena di più spinte che possono trovare – se vi sono le volontà culturali e politiche – esiti anche promettenti. Per esempio, le note categorie di Albert O. Hirschman, le tre possibili risposte alle situazioni di declino e di crisi- voice, exit, loyalty  troppo linearmente tradotte in italiano con lealtà defezione e protesta, hanno saputo suggerire che quella stagione per il Mezzogiorno – dal disastro alla promessa – fu favorita dal contemporaneo e non lineare dispiegarsi di nuove e più moderne forme di lealtà alle nuove élites emergenti (loyalty), dalla ricerca di una defezione che è stata anche una via esterna di emancipazione e riuscita da parte di milioni di persone attraverso l’emigrazione (exit), dalla crescita delle voci non solo di protesta ma anche di proposta che, ovunque, erano via via più capaci di reclamare diritti e anche ottenerli (voice). 

Sappiamo che quella stagione di promessa e di sviluppo non ha dato risposte a tutte le “questioni meridionali”. Non vi è stata una correzione strutturale degli squilibri tra aree di spopolamento e aree metropolitane. Non vi è stata difesa del territorio da erosioni e inquinamenti. Non si è integrata grande industria con un solido tessuto di medie imprese fondato su merito e concorrenza. Sono state progressivamente favorite le élites legate a nuove forme di rendita parassitaria e di clientele intorno alla spesa pubblica.  

Con il perdurare e sclerotizzarsi di queste zavorre, dagli anni ottanta a oggi – pur tra alti e bassi, promesse di sviluppo e arretramenti – la scena è lentamente peggiorata. Vi è stata una costante de-industrializzazione non contrastata da investimenti innovativi pubblici e privati e da piani strategici di riqualificazione urbana come in altre aree europee e italiane. E’ prevalsa la rendita finanziaria rispetto agli investimenti produttivi. E’ venuto a mancare il sostegno alla fragile rete di piccole e medie imprese. Ancor meno che altrove è riuscita ad imporsi una cultura della legalità, del merito e della concorrenza. E si è riproposta, aggravata, la storica questione delle classi dirigenti meridionali. La grande maggioranza del ceto politico meridionale, infatti, ha progressivamente dato luogo – insieme a vaste parti degli apparati pubblici e degli interessi corporativi e speculativi – a una nuova versione dell’antico “blocco” di potere sociale e politico, ora fondato sulla spesa pubblica, sulla rendita finanziaria e anche sugli immensi profitti del malaffare, come mostrano gli scioglimenti coatti degli enti locali, le inchieste giudiziarie, gli studi sull’”intermediazione impropria”. Tale blocco persegue i propri interessi attraverso le clientele elettorali e il sistema dei “pacchetti di voti” controllati entro un reticolato di fedeltà e gerarchie costruito intorno a un sistema di privilegi parassitari. Così, questo ceto si è, progressivamente, fatto “trasversale”, travolgendo le aspettative di innovazione attribuite alle parti migliori della politica nei diversi partiti sul finire degli anni ottanta e consolidando il carattere trasformista del notabilato meridionale entro le nuove condizioni del potere urbano. 

Negli ultimi quindici anni il lento declino si è trasformato in un progressivo tracollo del Mezzogiorno, causato da molte cose insieme: le debolezze strutturali non superate, la de-industrializzazione costante, l’isolamento della borghesia imprenditoriale e la paralisi dell’azione pubblica imposta dal nuovo blocco di potere locale, la spesa pubblica diminuita, parcellizzata e burocratizzata e il crescente, violento attacco da parte del protezionismo delle élites miopi e interessate del Nord che hanno drenato budget pubblici e disponibilità di crediti dal Mezzogiorno, così contribuendo a spaccare di nuovo in due il Paese immiserendolo tutto. 

Così vi è stata una lunga stagnazione economica ben prima del dispiegarsi globale della crisi, sono state massicciamente ridimensionate le produzioni, il peso delle classi lavoratrici ed è specularmente aumentata la disoccupazione, in particolare femminile e giovanile. Si è consolidato il monoreddito nelle famiglie e la povertà, che ora riguarda quasi un terzo della popolazione. E’ aumentata la dispersione scolastica, non sono mai decollate le politiche formative, sono stati recisi molti legami tra scuola, ricerca, produzioni e mercati. Si è diffuso in modo impressionante il precariato e il lavoro nero in ogni settore. E’ sorta e si è propagata una forma contemporanea di caporalato rurale e urbano semi-schiavistico nei confronti dei lavoratori immigrati e non. Le vaste periferie urbane sono divenute luogo permanente dell’emergenza sociale. E, insieme a tutto questo, sono cresciute le reti della finanza illegale e criminale, sostenute dalle molte mafie armate (Camorra, Cosa nostra, ‘Ndrangheta, Sacra corona unita) mai debellate nonostante molti e anche eroici tentativi. E queste mafie hanno riempito i vuoti di sviluppo e oggi gestiscono l’integrazione tra mercati criminali locali e globali e danno vita a inestricabili agglomerati finanziari e di potere, che coinvolgono porzioni dell’economia legale, delle pubbliche amministrazioni e della politica, ben oltre i confini del Mezzogiorno. 

Così, anche oggi va posta la questione di un sommovimento sociale, culturale e politico insieme che sappia dare – dall’interno del Mezzogiorno – una “spinta verso la promessa”. 

La mancanza di una rivolta è, infatti, leggibile se si osserva una mappa articolata e molto differenziata di spinte diverse presenti nella società meridionale. Perché oggi, ancora una volta, “ci si salva” e “si sopravvive” non grazie a una catartica rivolta che non c’è, né grazie a una sudditanza che non salva. 

E’ questa “mappa in movimento” che va indagata con cura.

Se si osserva, infatti, la scena meridionale, le nuove generazioni reagiscono al grande declino e alla crisi verticale di prospettive lungo tre principali spinte, negative e positive, spesso presenti fianco a fianco:  

  1. vanno via (exit), emigrando (lo fa, da dieci anni, il 6 – 8 per mille dei giovani sia delle fasce sociali protette e con alto grado di istruzione sia dei giovani poveri con bassi livello di istruzione), 
  2. e/o vivacchiano, assai male, all’ombra (loyalty) delle élites “buone a nulla ma capaci di tutto”, che, pur largamente screditate, dominano le tante scene locali in ogni famiglia politica 
  3. o/e reclamano i diritti (voice) non solo con la protesta ma soprattutto e ancor più generando processi di attivazione e “aspirazione a”  e dunque esercitando i diritti formali ma disattesi, in modo da ricostruirne la sostanza effettuale, con nuovo slancio e creatività e, dunque, costruendo mobilitazione culturale e sociale e, al contempo, inventandosi esperienze e occasioni di lavoro reale, costruite faticosamente sul merito e contro le rendite e grazie a vere e proprie invenzioni fondate, anche consapevolmente, sull’effettiva innovazione sociale. 

Queste spinte, tra loro assai diverse, indicano prospettive o potenziali di cambiamento negativi e positivi insieme. Ed è, perciò, tempo di dare forza politica al cambiamento positivo nel Mezzogiorno, scalzando le vecchie élites. E’, infatti più che urgente dare voice–voce alle innovazioni sociali e civili, favorendo la rottura delle cattive loyalties con una nuova lealtà tra chi si dispone a lavorare e conoscere in modi nuovi e pratica già una fuoriuscita-exit non più intesa come defezione ma come costruzione di legami locali e globali fondati sull’innovazione operante (oggi si può emigrare e ritornare continuamente e conservare e sviluppare legami).

La parte della generazione di donne e uomini del Mezzogiorno nata dopo l’avvento della Repubblica e che non ha partecipato alle molte rendite della stagione del declino ha il compito di cedere conoscenze e accompagnare con generosità i ragazzi e le ragazze del Sud che stanno scoprendo una via d’uscita dalla nostra comune crisi. Offrire conoscenze e cedere il posto alla parte migliore che viene dopo di noi è la cosa migliore che possiamo fare.

 

(*) già “maestro di strada”, Sottosegretario al MIUR, scrittore 

 

(2) Appadurai, Arjun, The Capacity to Aspire: Culture and the Terms of Recognition, in M. Walton, V. Rao (eds.), Culture and Public Action: A Cross-Disciplinary Dialogue on Development Policy, Palo Alto, Stanford University Press, 2004. Ora tradotto in italiano, insieme a un suo altro saggio in: A. Appadurai, Le aspirazioni nutrono la democrazia, Milano, et al./edi- zioni, 2011, prefazione di O. De Leonardis.

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