Cara Ministro Madia,
Si è assunta una responsabilità non invidiabile. Riformare la Pubblica Amministrazione, in un Paese così allergico al riformismo, è impresa titanica ma non impossibile. Il suo sarebbe il quarto tentativo (dopo Cassese, Bassanini, Brunetta) e mi auguro che possa riuscire. Ma mi permetto di suggerire un paio di condizioni per aver successo. La prima è che non pretenda di cambiare tutto e subito. Dalla sua, ha un’opinione pubblica favorevole al cambiamento, ma certamente non è lì pronta a fare le barricate per sconfiggere i mille conservatorismi che si coalizzerebbero se tutto venisse preso di petto. Meglio scegliere – come in parte fa la legge delega – alcune priorità e tirare dritto con determinazione. La seconda è che occorre ridare dignità al lavoro pubblico, per cui la riforma deve puntare decisamente a valorizzare le risorse umane, a renderle protagoniste del processo di trasformazione che si intende avviare.
Il dossier che caratterizza questo approfondimento della newsletter di Nuovi Lavori si pone nel solco di queste attenzioni, non indugiando né nella denuncia di ciò che non va, né nella difesa dello status quo. Non è esaustivo di tutta la problematica legata al tema, ma cerca di contribuire a scegliere le strade meglio praticabili per intervenire sulle poche questioni prioritarie che occorre affrontare. Ad evitare ogni arbitrarietà, si è scelto di condividere le opzioni che lei stessa ha indicato presentando il progetto di riforma, scavando nel merito degli interventi allo scopo di dare un contributo non effimero alla migliore riuscita dell’operazione. L’insidia maggiore che si corre su questi terreni accidentati è che, cammin facendo, la legislazione annacqui i contenuti riformistici e partorisca il solito topolino.
L’opzione per una riforma che si ponga dal lato del cittadino, ma che non si riduca alle faccette colorate e colorite di Brunetta, è di quelle che fanno tirare un respiro di sollievo. Accompagnato da un grande punto interrogativo, perché l’esperienza insegna che, nel concreto, l’azione pubblica privilegia le tutele giuridiche, procedurali e comportamentali dei gestori di quell’azione e non i destinatari. Spostare il pendolo dalla parte della gente ha bisogno di segnali concreti ed emblematici. Va bene fare il salto informatico per ridurre, come si dice, le code agli sportelli, per far ricevere in tempo reale i documenti richiesti, per far dialogare di più le amministrazioni tra loro. Ma ha mai provato a telefonare al call center di un centro dell’impiego o scrivere al suo indirizzo email? Il primo è sempre occupato e il secondo respinge la posta perché intasato. Informatizzare ulteriormente il sistema è necessario, ma non sufficiente.
Il segnale vero è se si scommette più decisamente sull’auto certificazione. Imprese e cittadini devono essere trattati come soggetti e persone veritieri, non come potenziali imbroglioni. Abituarli ad una diffusa auto certificazione vuol dire assunzione di responsabilità, reciproca fiducia, velocizzazione dei processi, dai più semplici ai più complessi. Una scelta di questo genere dovrebbe essere, ovviamente, rafforzata da sanzioni e penalizzazioni pesanti per chi volesse fare il furbo e da una riorganizzazione dell’impegno pubblico, volto più all’assistenza delle pratiche di auto certificazione per eliminare a monte i rischi di errore e alla verifica ex post delle dichiarazioni effettuate dalle imprese e dai singoli cittadini.
Porsi dal lato del cittadino, vuol dire anche aver rispetto del suo tempo. Riformare seriamente vuol dire puntare a trasformare il ritardo nel dare risposte, nel fornire servizi, nell’affrontare le “enne” questioni di tutti i giorni in eccezione e non in normalità com’è oggi. E’ sconsolante sentire dire da investitori stranieri che vorrebbero ma non possono creare lavoro in Italia perché ritengono la Pubblica Amministrazione (con il corollario dell’azione della giustizia civile) un ostacolo troppo ingombrante. La scelta dovrebbe essere quella di assicurare il diritto per chi si rivolge alla Pubblica Amministrazione di sapere entro quanto tempo ottiene ciò che richiede, al pari del diritto – largamente esercitato – della Pubblica Amministrazione di ottenere entro tempi certi ciò che richiede alla gente.
Il tempo è un problema di organizzazione del lavoro che, nel privato, è ampiamente condizionato dal mercato e nel pubblico può essere assicurato da un moderno sistema di governance. Quindi, ben venga una rivisitazione profonda della dirigenza pubblica dalla quale dipende come funziona la macchina amministrativa. E’ verso di essa che va orientata la definizione delle condizioni di efficienza dell’azione pubblica, con uno scambio ben preciso: organizzare la produttività della fornitura dei servizi e legare ad essa il bonus aggiuntivo alla retribuzione. Si dirà: è già previsto. E’ vero, ma con il banale difetto che, a determinare il livello della produttività è lo stesso beneficiario del bonus e quindi l’asticella viene regolarmente posta in modo che giustifichi l’attivazione del premio. Quest’andazzo, che ha fatto lievitare oltre ogni ragionevole misura, i redditi medi della dirigenza pubblica, può essere stroncato soltanto se a definire i traguardi di produttività sia un’Autorità terza con la quale i singoli dirigenti trattano le condizioni organizzative per l’efficienza e con la quale verificano l’ottenimento del riconoscimento premiale previsto. Di ciò, non c’è traccia nel disegno governativo.
Un rigore vero verso la dirigenza pubblica – che si avvalga anche del ricambio generazionale, della temporaneità degli incarichi, dei tetti salariali – serve a dare dignità all’insieme del lavoro pubblico. Funzionari ed impiegati, negli ultimi dieci anni, non solo non hanno avuto soddisfazioni salariali pari a quelli dei dirigenti ma sono largamente sottodimensionati (mentre i dirigenti sono sovradimensionati) e male organizzati. Il Governo ha annunciato che per ancora un bel po’ di tempo ci sarà il blocco salariale, che si adotterà con maggiore intensità la mobilità territoriale e che ci saranno meno permessi sindacali. Non sono belle notizie, ma neanche drammatiche. In Inghilterra Cameron ha licenziato 400.000 dipendenti pubblici, vantando di non aver ridotto i servizi offerti ai cittadini. Ma se esse fossero accompagnate dalla esplicita dichiarazione di voler discutere delle effettive condizioni per lavorare meglio e in ambienti confortevoli, si favorirebbe un’adesione attiva al processo riformistico.
Sarebbe anche l’occasione per un ridisegno delle relazioni sindacali e della funzione dei vari livelli contrattuali. Per il sindacato è l’opportunità di non porsi in una posizione corporativa e difensiva, ma di proporre una nuova scala della tutela del lavoro, interrompendo la spirale che ha portato ad una rilegificazione delle materie contrattuali e intervenendo sia nel governo del cambiamento, sia nella conoscenza delle trasformazioni strutturali e professionali che verranno proposte, sia nel riorientamento verso il cittadino dell’azione del pubblico. L’accettazione della sfida riformistica rappresenterebbe un messaggio all’esterno di grande significato; gli italiani si sentirebbero più rassicurati della utilità di una simile riforma. Ma soprattutto, ne trarrebbe vantaggio l’insieme della credibilità del Paese.
Ministro, favorisca l’affermazione di queste priorità e, ne sono certo, riuscirà anche a marginalizzare quanti vorranno ostacolarla o condizionarla.
Con stima, il cittadino raffaele morese