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Un cambio di rotta ma non un’ impostazione nuova

Chi voglia procedere ad una corretta valutazione della manovra economica contenuta nella cosiddetta “legge di stabilità” deve prima di tutto evitare due errori. Il primo è quello di soffermarsi sulla questione se la manovra “punti” o meno alla crescita del reddito e dell’occupazione. Gli autori della manovra dichiarano ripetutamente che la manovra “punta” a questi obiettivi,ma questa asserzione non è verificabile. Ciò che si può verificare è se le misure adottate siano funzionali o meno al raggiungimento di questi obiettivi, a prescindere dal fatto che ad essi si sia “puntato”. Potrebbe infatti anche darsi che non vi si sia puntato affatto oppure che il “mirino” di puntamento fosse impreciso. 

Il secondo errore è quello di volgersi a verificare se la manovra contenga delle misure che favoriscono la crescita. E’ un errore perché le relazioni tra le variabili economiche sono complesse e il risultato finale su di esse dipende dall’effetto combinato di tutte le misure, che quindi vanno considerate nel loro insieme e nelle loro interazioni reciproche. Per esempio l’erogazione di 80 euro al mese per i neonati sarebbe sicuramente una misura a favore della crescita, ma si può facilmente vedere che il suo effetto sarebbe nullo se contemporaneamente e in pari misura aumentassero, poniamo, i costi per l’asilo nido, l’assistenza pediatrica, l’iva sui pannolini, o altre cose del genere.

Non giova neanche sapere che “ la legge di stabilità va bene anche all’’Europa”; certo, dati i vincoli cui ci si è assoggettati, ciò servirà ad evitare la procedura d’infrazione, ma non dà di per sé alcuna garanzia circa la sua funzionalità alla crescita; anzi, potrebbe generare un sospetto contrario, visto che da diversi anni “l’Europa”, privilegiando obiettivi finanziari, impone politiche recessive agli Stati in difficoltà. 

Ancora, il fatto che “vada bene” agli industriali, o “vada bene” ai sindacati dei lavoratori, è irrilevante nella valutazione di coerenza con gli obiettivi di crescita del reddito e dell’occupazione. Questi gradimenti possono essere legati a mutamenti negli equilibri di potere o all’avvantaggiarsi di interessi particolari, e quindi sono suscettibili di valutazioni politiche ma non esprimono una corrispondenza biunivoca con le grandezze aggregate quali il livello di attività economica e il tasso di occupazione. 

Queste precisazioni non sono superflue, perché molto spesso i commenti sulla legge finanziaria sono dominati proprio da prospettive di questo tipo, le quali possono avere un effetto distorsivo  sulla valutazione economica. Per tentare una valutazione complessiva anziché delle singole misure in una fase in cui i dettagli sono ancora oggetto di aggiustamenti di tipo ragionieristico, e presumibilmente anche di tipo lobbistico, si può cercare di cogliere la sostanza della manovra  focalizzando l’attenzione su alcuni aspetti principali. 

    Il primo riguarda  l’abbandono del tabù del pareggio di bilancio. Non siamo ancora al pieno riconoscimento della politica fiscale come strumento per stabilizzare l’economia, sulla base del principio per cui quando questa attraversa un periodo di recessione o di crescita lenta è opportuno ridurre le imposte e aumentare la spesa pubblica per far salire la produzione e viceversa. Ciò sarebbe l’esatto  contrario della  linea di politica economica adottata dall’Unione Europea. Tuttavia questa legge finanziaria è riuscita a dilazionare nel tempo gli stretti vincoli di bilancio imposti dall’Unione. Infatti dei 36 miliardi che costituiscono la manovra, 25 sono coperti mentre i rimanenti 11 sono finanziati in deficit. Se questa sia una innovazione oppure una continuazione di una cattiva abitudine italiana è questione discutibile; va però segnalato che questo rappresenta già un timido (il vincolo del 3% nel rapporto deficit/Pil è infatti rispettato col 2,9%) e positivo segnale di dissenso rispetto alla rigidità dei tempi concordati in sede europea per il consolidamento fiscale.

 

    Se passiamo poi a considerare la struttura dei 36 miliardi possiamo osservare, dalle tabelle riassuntive fornite dal Mef, che essi consistono in circa 15 miliardi di minori entrate e 21 miliardi di maggiori spese; valori che diventerebbero rispettivamente  24 e 12 se i circa 9 miliardi per il mantenimento degli 80 euro mensili venissero conteggiati come minori entrate anziché come maggiore spesa. A sua volta, il contenuto di questi movimenti è composto prevalentemente di: benefici per i consumatori (i 9 mld degli 80 euro più 0,5 mld di esenzione tickets sanitari per famiglie numerose più 0,8 mld per sgravi fiscali alle partite iva sotto i 15 ml annui) ; benefici per i datori di lavoro (poco più di 7 miliardi tra sgravi Irap,sgravi per assunzioni a tempo indeterminato e solo 0,3 mld di sgravi per investimenti in ricerca e sviluppo), e trasferimenti di altro tipo (ammortizzatori sociali in deroga, garanzia per TFR, patto di stabilità per i comuni).  

      

        L’osservazione da fare a questo proposito è che, in linea generale, l’impatto dei trasferimenti sull’economia in termini di effetti moltiplicativi è meno rilevante di quello degli investimenti pubblici di pari importo, per la semplice ragione che una parte dei primi viene risparmiata. Può darsi che l’impatto in termini elettorali sia maggiore, ma questo è un problema da politologi e non da economisti. Nel contesto italiano ci sono però anche ragioni aggiuntive per rammaricarsi che la manovra non  sia più ricca di  investimenti pubblici, di maggiore impatto sulla creazione di posti di lavoro e sulla crescita del livello di attività economica, piuttosto che di trasferimenti. 

     

        In primo luogo, data la contrazione della base produttiva, una quota significativa della domanda per consumi potrebbe indirizzarsi a prodotti esteri; in secondo luogo, poiché ora la necessità primaria è proprio quella di espandere la base produttiva in termini di quantità e qualità, sarebbero  necessari massicci investimenti pubblici in ricerca e sviluppo, infrastrutture materiali e immateriali, istruzione, formazione, politiche industriali per i settori innovativi, politiche per l’energia, politiche per la crescita della produttività. In sede governativa è stato affermato che a seguito delle misure adottate (in particolare l’azzeramento dei contributi per tre anni in caso di nuove assunzioni a tempo indeterminato, cui è stata legata la previsione di un incremento di almeno  800 mila occupati) “gli imprenditori non hanno più scuse per non assumere”. Non avranno più scuse, ma potrebbero avere valide ragioni. Una di queste è che non hanno bisogno di ulteriore forza lavoro se la domanda di mercato non cresce. 

 

        Ma i 18 miliardi di minori tasse non dovrebbero far crescere la domanda? Da qui un terzo aspetto da considerare. La presente manovra produce davvero un aumento del reddito disponibile che possa alimentare una significativa crescita della domanda? Ricordiamo che il reddito disponibile è dato dal reddito, più i trasferimenti, meno le imposte. Ricordiamo inoltre che la propensione marginale al consumo è decrescente rispetto al reddito. Basta mettere in fila i principali provvedimenti contenuti nella legge di stabilità per mettere seriamente in dubbio che dal loro insieme possa derivare un aumento del reddito disponibile per consumi. Ci sono i trasferimenti degli 80 euro mensili per una parte dei lavoratori (ai quali, improvvidamente, veniva attribuito dal governo un effetto di crescita del Pil dello 0,8% per il 2014) e forse anche per le neo mamme e ci sono anche i vari sgravi fiscali di cui si è detto, ma non si è certo in presenza di una generale redistribuzione del reddito a favore dei redditi più bassi.

 

      A fronte di tali trasferimenti, tuttavia, se si esaminano le “coperture” si trova un gran numero di “tagli” (6 mld allo Stato, 4 alle regioni, 1,2 ai comuni, 1 alle province). Come è noto tali tagli generalmente non riguardano purtroppo il malaffare, né le rendite di sottogoverno e di corruzione, né gli sprechi (tagli sempre auspicati ma mai realizzati); bensì riguardano i servizi ed il welfare e quindi si traducono in aumenti delle addizionali irpef,delle tasse locali, delle tariffe pubbliche, del costo delle prestazioni sanitarie, degli asili nido, dei trasporti pubblici, etc. Si trova poi il blocco dei salari nominali e dei rinnovi contrattuali dei dipendenti pubblici (ad esclusione dei magistrati e delle forze dell’ordine), il che equivale ad una riduzione dei salari reali. 

 

      Vi è, infine, una selva di altre misure cui stanno lavorando solerti contabili il cui effetto non va certo nella direzione di aumentare la domanda aggregata: 3,6 mld provenienti da tassazione delle rendite finanziarie quali la tassazione dei dividendi degli enti non commerciali e delle Fondazioni Bancarie,l’aumento retroattivo dall’11,5 al 20% dell’aliquota sui fondi pensione, l’aumento dal 20 al 26% dell’aliquota sulle casse di previdenza. Sulle slot machines si prevede la riduzione per 1 mld della quota   che va alle vincite, non altro. Si potrebbe continuare, ma questo è sufficiente per nutrire dubbi sulla natura espansiva della manovra.

 

      Una quarta considerazione riguarda l’attendibilità di alcune basi su cui sono fondate le coperture. 3,8 mld sono previsti dal recupero dell’evasione fiscale, mentre un +0,8% è previsto come tasso di crescita del Pil. Inoltre la manovra contiene uno  stanziamento per la Cassa integrazione straordinaria  pari a 1,5 mld, mentre su un valore doppio si aggira la somma spesa nel 2013. E’ chiaro che se questi valori si rivelassero non correttamente stimati, parte delle coperture verrebbe a mancare. La stessa Commissione Europea potrebbe considerare troppo ottimistiche queste previsioni. Ad ogni buon conto sono state previste quindi delle “clausole di salvaguardia”, le quali comportano che in caso di necessità le aliquote Iva del 10% salgano al 12 e più avanti anche al 13, e le aliquote del 22 salgano al 24 nel 2016 e al 25,5 nel 2008. Inoltre si profilano anche aumenti delle accise sulla benzina e riduzioni delle detrazioni Irpef. 

 

      Insomma, servizi sociali ridotti, tariffe pubbliche crescenti, crescita di peso della tassazione indiretta fanno temere non solo conseguenze negative sul reddito disponibile, ma anche il rafforzamento della tendenza verso un sistema fiscale regressivo. In conclusione, non si scorgono molti elementi innovatori di sostanza rispetto al passato in questa legge di stabilità, e una migliore modulazione sia della spesa sia delle coperture sarebbe stata necessaria per poterle attribuire un efficace effetto positivo sul reddito nazionale e sull’occupazione.

 

 

(*)    Prof. Ordinario di Economia Politica     Facoltà di Economia – Università Roma Tre

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