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Dal capitalismo al commons cooperativo

Debbo premettere che c’è una certa invidia (benevola) per la capacità visionaria di interpretare la realtà di Jeremy Rifkin, mirabilmente confermata dal suo ultimo libro “La società a costo marginale zero”(Mondadori) in uscita in questi giorni e che pochissimi ed in modo defilato, hanno presentato.

La lucida analisi del presente che egli proietta per i suoi effetti al 2050 è esattamente il contrario di quanto fanno (forse per incapacità?) i grandi strateghi delle politiche economiche dei Paesi sviluppati, rinunciando ad avere una visione di lungo periodo dei cambiamenti epocali che ogni giorno abbiamo modo di sperimentare.

La sua tesi è in sostanza questa: il modello economico capitalistico che ha dominato negli ultimi secoli, con le sue implicazioni sociali e culturali, è destinato a tramontare o a ridimensionarsi considerevolmente, cedendo sempre più posizioni a favore di quelli che Rifkin definisce “Commons collaborativi”, comunità caratterizzate cioè da una forte attitudine alla condivisione di beni e servizi. 

L’evento fondamentale che sta già trasformando l’economia è quello del costo marginale zero cioè  il costo di ogni singola unità di prodotto, una volta abbattuti i costi fissi. E’ in sostanza questo pilastro dell’economia capitalista ad essere diventato un paradosso, una contraddizione strutturale che ne ha decretato il successo e ora rappresenta se non la sua fine, il suo ridimensionamento. 

L’economia classica insegna che l’imprenditore cerca di aumentare al massimo la produttività, riducendo al minimo i costi, grazie anche al contributo delle innovazioni tecnologiche. Chi ottimizza questo processo più si avvicina al costo marginale zero più conquista nuovi clienti e aumenta i propri profitti. Non era però stato previsto che per molti beni e servizi si arrivasse a un costo marginale davvero prossimo allo zero, tale da rendere quasi nulla la redditività.  

Egli per ricostruire ciò che sta avvenendo parte da una considerazione che sembra così banale ma altrettanto chiara ed indiscutibile : ogni grande mutamento dei paradigmi economici e culturali nel corso della storia si è basato sull’avvento di una nuova piattaforma, costituita da tre fattori: comunicazione, energia e logistica. 

Solo guardando agli ultimi due secoli la prima rivoluzione industriale nel XIX secolo è stata determinata dall’avvento della stampa nel settore della comunicazione, del carbone in quello dell’energia e della rete ferroviaria in quella della logistica e nel XX secolo la seconda rivoluzione industriale si è imposta grazie ad una piattaforma formata da radio e Tv, sfruttamento del petrolio e rete stradale

Rivoluzione che però è ora al tramonto perché la piattaforma comunicazione-energia-logistica su cui si fonda è matura: radio e tv sono superate, produrre energia dal petrolio è troppo costoso e dannoso per l’ambiente, le reti fisiche sono sostituite da quelle virtuali.

Secondo Rifkin oggi siamo nel mezzo della Terza rivoluzione industriale, il cui elemento di base è la convergenza di comunicazione, energia e logistica in quello che lui chiama “l’Internet delle cose”.

Grazie alla tecnologia il consumatore è diventato “prosumer” cioè allo stesso tempo produttore e consumatore, basti pensare alla crisi dell’industria  discografica, cinematografica ed editoriale dovuta al fatto che milioni di giovani, attraverso l’uso di semplici software, condividono musica, creata da altri o da loro stessi, così come per i video, i giornali e i libri.

L’industria tradizionale ha pensato che esistesse una barriera, grazie alla quale il processo del costo marginale zero si sarebbe arrestato entro i confini del mondo “virtuale”, permettendo al mondo materiale di sopravvivere perpetuando le sue logiche. 

Ma attualmente esistono 13 miliardi di sensori che collegano un’infinità di cose alle persone, ed entro il 2030 si prevede che arriveranno a essere 100 trilioni. Grazie a questi sensori miliardi di persone, avendo in mano anche soltanto uno  smart phone collegato alla Rete, saranno in grado di avere accesso a questi dati e condividerli con gli altri per organizzare la loro vita e le loro attività. 

Tutto ciò non sta avvenendo solo nel mondo virtuale dell’informatica, ma anche in quello reale, in seguito alla diffusione delle stampanti tridimensionali. Il prosumer è insomma nella condizione di produrre e usufruire di una quantità sempre maggiore di beni e servizi, semplicemente grazie a un computer o uno smart phone e una connessione.

Già in Germania, per esempio, attraverso Uber (un sito Internet che, utilizzando le reti Gps, mappa in tempo reale la mobilità), chiunque può collegarsi al sito, verificare se qualcuno sta guidando nella direzione che gli interessa, godere del passaggio e saldare sempre in Rete, senza contare che a Chicago  è stata presentata un’auto realizzata grazie ad una stampante 3D (eccetto il telaio).

Solo questo esempio fa immaginare che diminuiranno sensibilmente le auto in circolazione ( passando dal concetto di proprietà a quello di accesso) e che quelle che sopravviveranno saranno in gran parte elettriche e con bassi consumi, con enormi conseguenze sul piano ambientale per la quantità enorme di materie prime ed energia che il settore automobilistico divora, cancellate dall’utilizzo di energie rinnovabili e dalla stampa in 3D. 

Secondo Rifkin in futuro le società che avranno successo saranno quelle capaci di aggregare reti, attraverso una gestione non verticale ma orizzontale, per organizzare e condividere nella maniera più efficiente beni e servizi. Si tratta di un nuovo modello cooperativo destinato a  soppiantare quello delle grandi imprese protagoniste del modello capitalistico, il cui ruolo dovrebbe diventare quello di mettere a disposizione il loro know how per gestire il flusso dell’energia, insegnare come diventare produttori in proprio, ridurre i costi.

Quanto allo scoglio del costo iniziale della piattaforma logistica egli ricorda che il computer all’origine costava milioni di dollari, mentre oggi la stessa Ibm si è resa conto che non aveva più margini di guadagno in questo ambito e si è convertita alla consulenza e alla gestione delle informazioni e che negli anni Settanta un watt di energia solare costava 66 dollari mentre oggi costa 66 centesimi. 

In quanto alla figura centrale del nuovo paradigma socioeconomico, il prosumer, Rifkin con questo neologismo identifica la persona che, sfruttando l’Internet delle cose, produce e usufruisce al tempo stesso di beni e servizi. Questo processo, secondo l’autore, è inarrestabile, non è più confinato in quello virtuale ma anzi sta invadendo il mondo fisico. Oggi si usa energia rinnovabile e non inquinante, è sempre più diffusa la tendenza a operare con software open source, entro cinque anni in ogni scuola americana ci sarà una stampante 3D, che lavora con materiali riciclati per produrre cose che avranno bisogno di un decimo del materiale finora necessario. 

Per i ragazzi di oggi creare nuovi prodotti o rendere disponibili servizi a queste condizioni e condividerli con gli altri sarà del tutto normale, così come è accaduto con la musica, i video, l’informazione; quindi sarà naturale collaborare, condividere, dare il proprio contributo, preferire l’accesso alle cose anziché il possesso. Tutto ciò sta a indicare secondo Rifkin che non è in gioco solo l’avvento di un nuovo paradigma economico, bensì una nuova cultura, un nuovo modo di vedere il mondo, una nuova gerarchia di valori.

La nuova piattaforma rende evidente tale processo perché si basa su una tecnologia che si alimenta di collaborazione e condivisione, è trasparente, democratica, non centralizzata, al contrario del mercato dei capitali che è verticale, gerarchico. 

Il senso della rivoluzione in corso è che il capitale sociale acquisterà sempre più peso rispetto al capitale finanziario, che manterrà un ruolo, ma inserito in un contesto nuovo e diverso, che, in qualche modo, mescola il meglio di economia sociale e capitalismo. 

Nei Commons collaborativi ciascuno diventa imprenditore e al tempo stesso consumatore, cioè contribuisce al benessere della società mettendo in comune le sue creazioni, usufruendo al tempo stesso di quelle degli altri, spesso in modo gratuito. 

Il capitale finanziario resta necessario, ma in un sistema totalmente mutato, come insegna il fenomeno del crowdsourcing: gruppi di persone danno liberamente il loro contributo per un progetto in cui credono, permettendo all’imprenditore sociale di turno di dare forma alla sua idea, con la speranza di trarne collettivamente vantaggio. Wikipedia è un bell’esempio di questa condivisione del sapere. Le imprese non profit e profit in questa fase si stanno mescolando, le prime cercando risorse all’esterno, le altre muovendosi verso logiche non profit.  

E’ questa in sintesi la “visione” di Rifkin che per quanto condivisibile o meno ha indubbiamente il merito di aprire un dibattito ed una riflessione sulle prospettive di cambiamento che il passaggio dalla società dell’informazione alla società della conoscenza sta lentamente ma inesorabilmente producendo.

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