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Cooperative mafiose? Migranti, sistema da rivedere

La recente Operazione «Mondo di Mezzo», emessa dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, sembra confermare quanto già in diverse occasioni le agenzie di contrasto alla criminalità organizzata avevano paventato: il mercato dei servizi sociali, esito del progressivo disimpegno dello Stato verso la privatizzazione del welfare, rappresenta un mercato di particolare interesse per le imprese criminali. Un’affermazione che vale ancor di più se riferita all’accoglienza dei migranti, governata in stato di emergenza costante, foraggiata dalla spesa pubblica e centrata su un vasto ricorso alla privatizzazione nell’erogazione dei servizi.

Si sta creando in questo modo un vero e proprio «mercato dei migranti», in cui la cooperazione sociale «spuria» o «illecita» o addirittura « criminale»  –  come emergerebbe dalle ultime vicende, coperta o meno dall’ombrello di una centrale cooperativa, che deve provvedere alla revisione dei bilanci delle proprie aderenti  –  che tra l’altro sfrutta i vantaggi normativi e fiscali previsti per questa forma del fare impresa per ottenere profitti illegittimi.

Un giro d’affari che appare alquanto cospicuo, aggirandosi tra i 700 e gli 800 milioni all’anno, prevalentemente erogati dal Governo italiano seppur con una compartecipazione dei fondi comunitari. Profitti che appaiono in deciso incremento, visti i flussi crescenti di profughi dai conflitti diffusisi ben oltre l’area mediterranea delle “Primavere arabe”. Come richiamato recentemente dal Censis nel 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese, l’emergenza sbarchi ha fatto registrare nel 2014 incrementi senza precedenti nella storia d’Italia. Dal 1° gennaio a metà ottobre 2014 sono stati gestiti 918 sbarchi, nel corso dei quali sono giunte 146.922 persone, per l’11% donne e per il 21,2% minori. I dati dell’Agenzia europea Frontex indicano una prevalenza di eritrei e siriani tra coloro che hanno attraversato il Mediterraneo nei primi otto mesi del 2014; seguono i cittadini di Mali, Nigeria, Gambia e Somalia. Numeri che destano allarme, soprattutto se paragonati con quelli degli anni passati. Nel 2011, che era stato un anno record per gli effetti delle “primavere arabe”, gli arrivi erano stati 63.000, 13.000 nel 2012 e 43.000 in tutto il 2013. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni stima che siano stati oltre 3.000 i morti nel Mediterraneo tra gennaio e settembre 2014, e 22.400 quelli che complessivamente hanno perso la vita dal 2000 ad oggi (quasi dieci volte il numero delle vittime degli attentati alle Torri Gemelle). Una tragica media di 1.500 morti ogni anno, che diventano oltre 3.000 nei soli primi nove mesi del 2014.

Nonostante l’ingente sforzo operato dalle Autorità italiane per la tutela dei diritti civili, riconosciuto in varie sedi internazionali, le capacità del sistema pubblico sono nettamente insufficienti rispetto alle dimensioni straordinarie del fenomeno e alla posizione di confine ricoperta dall’Italia nella Fortezza Europea. Ancora il Censis riporta che i numeri dell’emergenza 2014 hanno messo a dura prova il sistema di accoglienza nel suo complesso. In generale, al 30 settembre 2014 le strutture di diversa natura presenti sul territorio nazionale ospitavano 61.536 migranti, collocati per più della metà in soluzioni alloggiative temporanee (il 52,8%, con un maggiore presenza in Sicilia, Lombardia e Campania), per un ulteriore 30% nelle strutture facenti capo allo Sprar (soprattutto nel Lazio, in Sicilia e in Puglia) e per il 17% circa nei centri governativi (i maggiori si trovano in Sicilia, Puglia e Calabria).

 

Alle carenze quantitative si affiancano quelle qualitative. Il sistema avrebbe infatti dovuto avviare i migranti in un percorso di accoglienza e di integrazione, accompagnandoli nella realizzazione di percorsi di inserimento nel contesto sociale e – laddove possibile – nel mercato del lavoro. I molti casi, tuttavia, i migranti non raggiungono alcuna capacitazione all’autonomia. È quanto registrato alla conclusione dell’emergenza “Nord Africa” (marzo 2013), costata alle casse pubbliche 1,3 miliardi di euro, un importo pro-capite per migrante accolto tra i quindicimila e i ventimila (Rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2014): oltre che per vitto e alloggio, al lavoro di assistenti sociali, avvocati, mediatori linguistici e culturali che nei centri avrebbero dovuto affiancare i giovani migranti per permettergli di costruirsi un futuro. Nella realtà, non sempre è andata così e per molti gestori di strutture improvvisate, il piano di accoglienza dei profughi è stato semplicemente un business, lasciando segni profondi nel sistema di accoglienza. “In tutta la penisola si è sviluppato un sistema diffuso di centri, con cooperative, associazioni, soggetti vari già operanti nel terzo settore oppure del tutto improvvisati che hanno risposto all’appello, accogliendo migranti a fronte di una retta media di 45 euro al giorno” (S. Liberti, Il grande affare dei centri d’accoglienza, in «Internazionale», 2014).

La medesima carenza si riscontra anche sui minori stranieri non accompagnati (MSNA), componente migratoria che ha cominciato ad acquisire una certa rilevanza quantitativa importante nello spazio comunitario. In due decenni il numero dei minori nei percorsi migratori è tendenzialmente aumentato fino a costituire – in molti paesi di destinazione – un segmento importante della popolazione alla ricerca di protezione e asilo. Secondo le segnalazioni pervenute alla Direzione Generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione ed aggiornate al 30 ottobre 2014, i MSNA presenti sul territorio nazionale sono 9.859, in stragrande maggioranza maschi (9.302, pari al 94.4%). Su base annua, il dato segnala una crescita del fenomeno rispetto ai 6.228 minori stranieri registrati al 30 settembre 2013 (+3.631). Un recente Rapporto sui Minori Stranieri Non Accompagnati Privi di Protezione in Europa (Progetto PUCAFREU 2013) ha tracciato una panoramica sulle condizioni di vita e sulla situazione dei MSNA. Dallo studio emerge che molti stranieri, anziché essere coinvolti in attività educative e di inclusione, trascorrono periodi più o meno lunghi di «inattività», in cui vivono alternativamente dentro e fuori il sistema di protezione. I periodi di inattività sono fonte di ansia e stress in particolare per quei minori che sono in attesa di essere inseriti nelle strutture di accoglienza o per quelli che ricevono una assistenza inadeguata e che non comprendono questa «perdita di tempo». La condizione di apatia prolungata che ne consegue spinge i minori fuori dai sistemi di protezione (ben 3.475 casi di irreperibilità in Italia), dove un numero significativo di minori non accompagnati viene spesso impegnato in attività illegali, come la vendita di sostanze stupefacenti o altri reati minori, inizialmente per garantirsi la sopravvivenza quotidiana e in seguito per guadagnarsi da vivere. Spaccio di droga, borseggi, rapine in strada o vendita di merci contraffatte sembrano essere le attività più comuni. 

Ma l’illegalità diffusa nella gestione dei migranti non riguarda solo gli stranieri che ricevono una assistenza inadeguata. Essa si annida nella miriade di organismi del terzo settore che hanno fiutato il volume d’affari che ruota attorno all’accoglienza. Si tratta di una platea confusa di case alloggio proliferate dall’inizio della Emergenza Nord Africa e proseguite fino a tutto il 2014. Anni in cui si è voluto affrontare l’immigrazione con pregiudizi ideologici e argomentazioni allarmiste, mirando a perseguire la «clandestinità» e dimenticando di fornire alle persone che riuscivano a superare le traversate del Mediterraneo le basi sociali e culturali capaci di favorire integrazione (sul punto si veda M. Ammirato, Welfare, legalità e migranti: il modello di accoglienza sdoganato dall’emergenza del Nord Africa, 2013). È nella regolazione politica d’emergenza che si configura un business per le strutture (case alloggio e cooperative), che ha ingenerato una preoccupante incontrollabilità della spesa e gravi forme di illegalità nella gestione. È mancata la trasparenza nelle modalità di individuazione delle strutture e nelle modalità di invio dei profughi, nei criteri di assegnazione alle cooperative. Attualmente, per ogni richiedente asilo, lo Stato versa agli enti gestori dei centri importi dai 35 ai 45 euro al giorno, con cui dovrebbero essere assicurati vitto, alloggio, vestiti e attività di integrazione. Si tratta di un’opportunità di business non indifferente: il centro di Mineo, messo sotto inchiesta nell’indagine sulla mafia romana, arriva a ospitare fino a 4.000 migranti – pur avendo una capienza di 2.000 posti – fruttando ai gestori tra i 70.000 e i 140.000 euro al giorno (sic). “Il contratto di assegnazione, recentemente confermato, prevede una spesa di 97,9 milioni di euro per tre anni, da corrispondere all’ente gestore, un consorzio di aziende e cooperative che vanta forti legami con la politica siciliana, tanto a destra che a sinistra” (S. Liberti, Il grande affare dei centri d’accoglienza, in «Internazionale», 2014).

In agosto 2014 il Prefetto di Trapani aveva lanciato l’allarme dichiarando che “stando ad alcune informazioni è palese l’interessamento di alcuni soggetti alla concessione di convenzioni per centri si accoglienza individuati come prestanomi di mafiosi”. Continuava il Prefetto “sappiamo che alcuni amministratori di cooperative sociali siano strettamente  legati e vicini alla malavita organizzata e pertanto ho chiesto di istituire una commissione di controllo per verificare le modalità di concessione delle convenzioni tra Trapani ed Agrigento” (M. Borgia, L’affare immigrazione: un business da 600 milioni di euro, 2014). Le ipotesi del Prefetto si sono concretizzate nella operazione romana del dicembre 2014, in cui dell’affare immigrazione se ne appropria il consorzio di cooperative Eriches e in particolare la Cooperativa 29 febbraio, che dalla gestione dell’accoglienza ricava 53 milioni di euro di fatturato nel 2013. Gli incassi arrivano dai servizi per rifugiati e senza fissa dimora nel territorio della Capitale e, per ottenere immigrati da ospitare, la cupola romana orientava i flussi in arrivo favorendo le cooperative amiche affinché ricevessero più immigrati e quindi più finanziamenti dallo Stato.

Questi aspetti amplificano l’urgenza di un intervento pubblico, anche per evitare che la convivenza con le comunità locali comporti l’insorgere di eventi di cronaca gravi, misti ad atti di violenza e – purtroppo – di intolleranza. I fatti di cronaca che negli ultimi mesi hanno segnato la vita del Paese hanno portato alla luce una serie di complicazioni che sollevano talvolta perplessità di natura etica, etnica e umanitaria prima ancora che di ordine pubblico. Eventi aggravati dalle condizioni di povertà ed esclusione che anche gli italiani soffrono, aggravati dalla crisi economica e occupazionale. I fatti di Tor Sapienza, nella periferia romana, sono solo l’apice di un malessere strisciante che già dalle violenze di Rosarno nel 2010 richiedevano un intervento diretto, deciso e proattivo delle Istituzioni competenti. 

Emersi alle cronache i dati sulle ruberie menzionate sinora, destando sdegno e scandalo, si rischia di favorire un dibattito pubblico in caduta libera verso opzioni pan-mafiose (sono tutti mafiosi!), razziste (è colpa degli immigrati! Chiudiamo le frontiere!) o di miope antipolitica (tipiche del più irragionevole grillismo). Sappiamo quale eredità ci ha lasciato la veemenza antipolitica dei primi anni Novanta, che in preda al lancio di monetine ha consegnato il Paese a un ventennio di deregolazione e decadimento politico, sociale ed etico. A Roma non tutti i lavoratori delle cooperative impegnate nella gestione delle case alloggio sono mafiosi o criminali! Così come in Italia non certo mancano vasti ed efficaci interventi di accoglienza e di supporto gestiti dal terzo settore. Occorre ripartire proprio attorno a questi attori sociali «onesti», che non hanno smarrito la loro mission, per favorire l’integrazione vera degli stranieri in Italia. Sono costoro che per primi hanno pagato i difetti di un business caratterizzato da illegalità diffuse ed informalità, corruzione e canali privilegiati, falsato nelle regole della concorrenza a vantaggio dei pochi «Buzzi» di turno.

Questi ultimi, premiati perché aderenti a forme scorrette e violente, scoraggiando chi intendeva svolgere un lavoro sociale regolarmente. Prima di giungere a fenomeni diffusi di aggiustamento patologico del terzo settore alla prassi mafiosa, occorre allora intraprendere con urgenza le misure capaci di favorire un’inversione di tendenza.

 

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