E’ bene iniziare con una sintesi su ciò che tratta il saggio. Non é di percezione comune nella sinistra che in campo fiscale si giochino pezzi della regolazione del capitalismo mondiale. Ed é sfuggito a molti che – sempre in campo fiscale – é stata varata l’unica vera regola mondiale da molti anni a questa parte, siglata da un concerto di paesi a ottobre 2014, quella che porta allo scambio automatico di informazioni tra amministrazioni fiscali (di cui dirò).
Pur essendo una rivoluzione da non sottovalutare, che pone qualche serio problema ai grandi patrimoni, a evasori e al denaro sporco, é una regola incompleta. Non pone, infatti, altrettanti problemi alla capacità della multinazionali di sfuggire legalmentealla tassazione, di sottrarre quest’ultima al paese in cui hanno prodotto reddito e sostanzialmente tenerla per sé.
Non solo un danno di gettito, ma un’alterazione conseguente della concorrenza a proprio favore. Dovrà pure essere affrontata una situazione che vede imprese come Amazon, Apple, Starbrook e tantissime altre riuscire a pagare, sì e no, il 2% sui propri profitti, mentre altre sono soggette a tassazione piena e il lavoro é ipertassato.
Si insiste molto sulla perdita di efficacia dello Stato nazionale di fronte alla globalizzazione finanziaria. Ma, in questo campo, é così solo in parte. Gli Stati nazionali (soprattutto europei) non hanno perso potere impositivo a causa della globalizzazione, ma a causa della competizione fiscale. L’anello debole in campo fiscale é proprio l’Europa.
Ed é dall’Europa – da un’altra Europa – che potrebbe iniziare la rimonta qualora l’Unione si ponesse come propulsore di un aggregazione tra paesi che con la forza del numero e della ragione impongano (con lo stesso processo politico che ha portato alla condivisione delle informazioni), lo standard mondiale in materia di fiscalità delle imprese transfrontaliere.
La sinistra deve agitare la bandiera della tassazione unitaria (e non frammentata, come é ora nelle convenzioni internazionali) delle multinazionali, che porti a una tassazione consolidata su base mondiale, ripartita secondo indici di effettiva presenza nei singoli paesi. In Europa il passaggio a questo principio può essere l’occasione per abbinarvi larealizzazione di una armonizzazione fiscale in materia di tassazione diretta, un allargamento del bilancio comunitario e metodi di compensazione di paesi piùdeboli, che perdono i vantaggi che hanno tratto dalla competizioni fiscale.
Ripercorriamo oraquesti temiprocedendo con ordine.
Manca un modello europeo
Mentre in campo finanziario risulta evidente che il carattere aperto del sistema richiede alla sinistra europea la necessità di formulare e perseguire un programma di regolazione su scala quanto meno europea (e altrettanto, per la gestione macroeconomica in campo istituzionale), non appare altrettanto ovvio che lo stesso respiro é richiesto nel campo della fiscalità diretta,. Questa é rimasta in un ambito politico circoscritto ai singoli Stati, perché ad essi é riconosciuta la prerogativa specifica, come se i sistemi fiscali all’interno non fossero plasmati in vari modi dall’interazione continentale (e mondiale).
Eppure venire a capo dei danni che si sono prodotti attraverso l’uso disinvolto dell’autonomia fiscale di alcuni Stati a scapito di altri dovrebbe essere uno dei punti chiave di un progetto politico dei socialisti e i democratici europei.
Nel campo della tassazione diretta, oggi l’Europa é pervasa da una competizione fiscale che ha trovato e trova legittimazione in una visione liberista di come debba funzionare l’Unione. Una visione che ha anteposto una competizione tra Stati al governo comunitario della materia, sebbene ciò provochi perdite rilevanti di gettito sui redditi prodotti dai fattori più mobili, che devono essere poi compensate a carico di quelli meno mobili (lavoro e patrimoni immobiliari).
Non si tratta solo di rimuovere regimi particolaristici “dannosi”, relativi agli aiuti di Stato (un obbiettivo, che, sebbene condivisibile, é stato trattato con zelo tale da risultare in una ancora più esasperata competizione, come dirò), ma di trovare un modello uniforme di struttura fiscale per l’Europa.
In un periodo di scarso impegno europeistico dei governanti e di deciso affievolimento di slancio nell’opinione pubblica (a dir poco), indicare questa via può sembrare radicale, ma é un tema che va comunque posto sul tappeto. La finalità ultima dovrebbe essere sia il recupero del gettito sottratto attraverso la competizione fiscale, compensando (per ciò che riguarda la competizione intra-Unione) i paesi più deboli, sia l’avvio di un processo concreto di sostanziale detassazione del lavoro (che altrimenti rimarrà allo stadio di irrealizzabile esortazione).
Da ultimo, dovrebbe condurre anche all’individuazione di fonti di gettito che possano allargare significativamente il bilancio comunitario. E non é secondario che in questo contesto l’Europa si ponga alla testa di una proposta di superamento dei presupposti ormai obsoleti che governano gli accordi internazionali in materia fiscale per approdare a uno standard mondiale di tassazione adeguato alla nuova realtà del capitalismo integrato.
Oggi non solo non esiste un modello europeo per la tassazione diretta, ma non esistono nemmeno codici mutualmente conformi di tassazione e regolazione. Nella imposizione diretta, la convergenza verso soluzioni comuni dei sistemi nazionali consiste solo nell’imitazione di istituti introdotti in altri paesi europei, che i singoli paesi scelgono qua e là in un bricolage discrezionale, visto che la varietà di soluzioni date altrove rende difficile far riferimento a una costruzione da prendere come benchmark.
Persino sui principi non vi é uniformità se consideriamo che il principio della progressività dell’imposta personale é disatteso in numerosi paesi (soprattutto dell’Est) che adottano una flattax (sia pure attenuata dalla graduazione delle deduzioni ammesse). E ciò fa pensare che lo stesso modello sociale europeo stia diventando un’astrazione che attiene (con arretramenti) a un numero
limitato di Paesi dell’Unione.
La convergenza noné sempre positiva
Non bisogna pensare, tuttavia, che qualsiasi convergenza sia sempre positiva e in grado di garantire un più efficiente funzionamento del mercato interno, o di portare a una maggiore giustizia impositiva. Non lo é quando quella convergenza noné un disegno organizzato con finalità specifiche e di razionalità complessiva, ma solo un puro derivato di inseguimento fiscale per paura di perdere le basi imponibili.
Molte spinte a questo tipo di convergenza derivano dalla giurisprudenza creata dalle sentenze della Corte di Giustizia Europea, la quale, in nome di un malinteso fondamentalismo con cui interpreta la “libertà di stabilimento” – a partire dalla infelice sentenza Cadbury Schwrepess2– é stata sempre poco attenta alle conseguenze sistemiche delle sue sentenze e molto sensibile alla china liberista della costruzione europea..
Valga per tutti l’esempio di come si sia esteso in Europa agli inizi del 2000 il sistema di Partecipation Exempion(Pex) favorevole alla tassazione delle holding. Quel sistema, proprio a suo tempo, dei paesi del Benelux é stato adottato progressivamente dai Paesi europei che volevano evitare la delocalizzazione delle holding. Ha finito per soppiantate la natura sistemica del preesistente sistema di tassazione a favore di un modello a-sistemico e farraginoso. Affinché ciò potesse non avvenire sarebbe occorso un disegno europeo, che non é mai venuto, lasciando i Paesi a decidere da soli3.
Non si può neppure dire che attraverso la diffusione di questa costruzione si sia posto fine, per ciò che riguarda le holding, alla competizione fiscale, perché questa si é trasferita sul piano
ordinamentalenelle legislazioni di alcunipaesi (ad esempio, RegnoUnitoeOlanda), che facilitanoi
comportamenti opportunistici consentendo alle società costituite nel paese di applicare la normativa corrispondente (quella, ad esempio che consente di blindare la proprietà attraverso il voto maggiorato) e, al tempo stesso, di trasferire in un altro Paese la sede di direzione effettiva e quindi la residenza fiscale (valga per tutte la vicenda del trasferimento di sede della Fiat)4. Da qui sta prendendo origine la diffusione del riconoscimento del voto maggiorato5, anche se non (ancora) quello della libertà di disgiunzione tra sede giuridica e fiscale.
Oggi diviene parimenti inevitabile che con le stesse modalità si diffonda, nell’ambito della competizione in corso per attrarre la sede centrale delle multinazionali, il sistema del patentbox. Esso consente una tassazione ad hoc (tra il 5% e il 10%) ai profitti correlati allo sfruttamento dei brevetti. E’ chiamato anche “innovationbox” per il suo scopo apparente di incoraggiare l’innovazione e i lavori qualificati nella ricerca e sviluppo, ma che ben che vada remunera la commercializzazione dei brevetti esistenti piuttosto che lo sviluppo di nuovi e si rivela un’altro dei canali per competere fiscalmente.
Per quanto i Paesi si adeguino, non c’é mai un punto di caduta: in alcuni di essi (Gran Bretagna, in primis) si é arrivati a rendere rilevante il 100% del profitto conseguito su prodotti che cadono in questo regime anche quando l’incidenza dei brevetti è secondaria nella loro produzione6. L’esito effettivo é che si é costruito un altro canale di tax avoidanceche concorre a quei 1000 miliardi di euro di tassazione persi annualmente dagli Stati membri (secondo le stime dello stessa Commissione)7
Potrei andare avanti, citando la convergenza che si é stabilita col regime di tassazione degli interessi e dividendi di residenti esteri8e farei rientrare nel quadro anche l’avvicinamento delle aliquote societarie, avvenuto in una corsa verso il basso, che i paesi più grandi hanno dovuto necessariamente intraprendere (e che hanno compiuto allargando la base imponibile)9. Un procedimento che, seppure potenzialmente neutro per il gettito, non lo é per altre conseguenze: sia di rendere restrittivi e rigidi i criteri di deducibilità degli ammortamenti e degli interessi passivi (indebolendo potenzialmente le imprese più deboli e indebitate, ma anche quelle innovative), sia di rimbalzare sulla progressività nella tassazione personale, che, se fosse troppo pronunciata, renderebbe conveniente alle persone più ricche di trasformare i redditi personali (tassati di più) in
redditida capitale (tassati di meno).
Occorre un“disegno digrande respiro”: lo sonoalcuni recentiavanzamenti?
Occorre un disegno di grande respiro (granddesign, direbbero gli inglesi) per la convergenza e l’armonizzazione e non l’occasionalità degli eventi, o della concorrenza, o dei pareri della Corte. Anche coloro che, al di là dei singoli giudizi di merito, pensano che la Corte abbia svolto il compito istituzionale che le è proprio in ottemperanza dei trattati (non è il mio giudizio), convengono che l’azione della Corte non sia, né possa essere, lo strumento con cui le contraddizioni vengono risolte e che la sua attività non può certo sostituirsi al necessario dibattito politico fra forze sociali e fra i paesi, ai quali ultimi spetta, nelle opportune sedi istituzionali, assumere decisioni.
Sono grandisegniquei tre avanzamenti importanti degli ultimi anni relativi all’eliminazione della concorrenza “dannosa”, alla stretta sui paradisi fiscali e al varo della CCTB (Common Consolidated Tax Base,il progetto di base comune consolidata per la tassazione delle imprese,) ?
A) Concorrenza fiscale“dannosa”e“non dannosa”
Solo da metà degli anni novanta é apparso evidente che le azioni elaborate dall’OECD per affrontare il tema dei paradisi fiscali non sarebbero state credibili se gli Stati membri dell’UE non si fossero seriamente impegnati a rimuovere i regimi particolaristici e preferenziali per il capitale estero presenti nei loro stessi sistemi tributari, di cui beneficiano grandi imprese e grandi patrimoni (ma non i residenti del territorio)10. Quei regimi fiscali sono stati individuati come concorrenza “dannosa”, che ci si preoccupati di distinguere in modo soggettivo da quella “non dannosa”, che non so come definire, (“leale”, “virtuosa”. “benefica”?)11.
Bene che quella rimozione sia avvenuta e stia avvenendo. Ma non possiamo dire che non permangano nicchie protette dalla legge e angoli oscuri da cui le imprese possono trarre vantaggio in un paese rispetto a un altro, per esempio in materia di brevetti e di licenze (lo vedremo poi).
L’imposizione formale discriminatoria poi non é tutto. Permangono i favori verso chi si trasferisce a cui si garantiscono controlli meno severi che nei paesi d’origine. Anche le basi imponibili giocano un ruolo nell’attrarre capitale estero. E si é affermata attraverso l’azione della Corte, la dubbia idea che ogni iniziativa fiscale degli stati nazionali sia accettabile purché non discrimini tra competitori esteri e nazionali.
Avrebbe dovuto suggerire qualcosa il fatto che nei limiti del successo della messa al bando della “concorrenza dannosa” (cioè discriminatoriamente in favore dei non residenti) tendessero (e tendano) ad affermarsi come la modalità prevalente di concorrenza fiscale le politiche di riduzione generalizzata delle aliquote e il restringimento della base imponibile, specie nei paesi nuovi membri, spinti dall’esempio dell’Irlanda (12). La corsa in basso delle aliquote, sarà pure non discriminatoria ma, come ci ricorda anche molta letteratura economica, può altrettanto distorcere l’allocazione del capitale e delle attività produttive, producendo un effetto spillover negativo sugli Stati che la subiscono. Forse dovrebbe sorgere il sospetto che non vi sia concorrenza fiscale virtuosa o leale o benefica. Conosco gli argomenti a favore della concorrenza, ma sono sopraffati dall’evidenza che quella concorrenza “benefica” tende a produrre una distorsione nella struttura della tassazione personale, come già detto, una perdita di reddito imponibile complessiva che deve essere compensata dall’aumento delle tasse su fattori non mobili o da riduzione nella spesa pubblica. Fornisce, inoltre, incentivi per profit shifting, risulta in un livello inefficiente di beni pubblici, tende a condurre a decisioni imprenditoriali che distorcono il mercato singolo in quanto portano il capitale dove é tassato di meno e non necessariamente dove é impiegato in modo più produttivo.
Quindi: non é un “gran disegno” la rimozione della concorrenza dannosa, anche se un rilevante avanzamento. Lo sarebbe se (13):
● l’armonizzazione dell’aliquota della corporation tax fosse ancora indicata come legittimo
obiettivo di medio periodo dell’Unione
● E, inoltre, se l’Unione si indirizzasse verso l’istituzione di controlli omogenei rivolti a una verifica sui guadagni e le perdite di tassazione che generano differenze in materia di fiscalità sulla produzione e sul lavoro. Entrambi sono temi importanti in un programma del socialismo europeo.
I paesi più deboli andrebbero aiutati a competere sulla base dei fattori economici reali, e non offrendo facilities disegnate a ledere le leggi degli altri; per questo (oltre che per altro) é necessario un bilancio europeo più consistente (come argomenterò anche in seguito)
● Come tappa intermedia, sarebbe almeno opportuno puntare a tenere entro fasce predeterminate la differenziazione nella tassazione d’impresa (ma con basi imponibili comuni). Sebbene l”uniformità dell’aliquota non sia in sé dirimente, in virtù dei vantaggi di agglomerazione che possono consentire ai paesi più grandi di mantenere competitività anche con una aliquota più alta della media, andrebbe in ogni caso almeno introdotta una aliquota minima di tassazione sulle imprese (direi, non inferiore al 25%), in modo da porre un freno all’esodo continuo di aziende da un paese all’altro nell’inseguimento di tassazioni più vantaggiose, spesso ottenuto con vere e proprie campagne di promozione (che non vengono considerate sleali).
B) Il contrastoai paradisi fiscali
E’ un disegno di grande respiro l’azione di contrasto dei paradisi fiscali intrapresa dalla UE sulla spinta del modello OCSE di cooperazione? Indubbiamente é un passo avanti straordinario che si sia arrivati a delineare il problema secondo le tre facce con cui si presenta, che vanno tenute distinte tra loro 1) la mancanza di trasparenza e di scambio di informazione, vale a dire il servizio di segretezza che offrono i rifugi fiscali, 2) la mancanza di attività sostanziale associata alla locazione di una impresa in un paradiso fiscale, 3) la tassazione bassa o assente su redditi rilevanti (differenziata o meno rispetto ai residenti).
Finora il fuoco dell’azione di contrasto é stato posto in modo pressoché esclusivo sul primo problema sulla base del progetto OCSE, recepito anche in sede europea. Ma, anche con questa limitazione, il fatto che 58 nazioni abbiano firmato il 30 ottobre 2014 a Berlino l’accordo per lo scambio automatico di informazioni circa i conti esteri tenuti nel proprio sistema finanziario, é un evento di grandissimo rilievo. E’ forse l’unica regola globale che sia stata varata da un consesso di
paesidadecenniaquestaparte. E’ bastata ladeterminazionedegli Usae dipaesi importantia voler accedere automaticamente a informazioni concernenti i propri residenti, per ragioni di sicurezza (dopo l’11/9) e evasione, a cambiare il clima e rendere, sotto pressioni e minacce, impossibile a un paese che voglia essere rispettato nel consesso internazionale sottrarsi all’accordo. Ad esso hanno dovuto aderire anche il Lussemburgo e i Paesi e le aree europee considerati paradisi fiscali, oltre che le Isole Cayman, Singapore, S. Marino, ecc, ma altri paesi hanno annunciato che si aggiungeranno, e la sua forza di pressione risulta evidente dall’accordo secondo quelle linee siglato il in via preliminare il15 gennaio 2015 tra l’Italia e la Svizzera.
E’ un salto di qualità nel contrasto ai paradisi fiscali. Non dimentichiamo che ci son voluti 11 anni dalla direttiva risparmio del 2003 varata dall’Unione Europea per chiudere, nel 2014, i buchi nella copertura di informazioni (motivate) sugli strumenti finanziari tenuti fuori dalla circoscrizione nazionale da propri residenti e estenderla a una gamma sufficiente di tali strumenti (anche per la presenza in Europa di paesi che traevano vantaggio da quei buchi)14. E, comunque, l’informazione finanziaria prevista nel precedente regime internazionale sulla base di richieste specifiche e mirate – quindi finora accessibile tramite la collaborazione bilaterale tra paesi, se prevista – non si era dimostrata particolarmente efficace ad arginare la concorrenza dannosa dei paradisi fiscali se la quantità di fondi tenuti offshoreha subito una potente accelerazione negli ultimi dieci anni.
Oggi, va salutato con entusiasmo che si voglia concretamente superare l’approccio in cui le informazioni erano fornite su richiesta motivata e ci si indirizzi, invece, verso un modello di informazioni automatiche (da settembre 2017); é un progetto importantissimo (“grande”) che promette di diventare un nuovo ordine mondiale in materia, se esteso a tutte le piazze finanziarie. Questo permette, senza limitazioni burocratiche o di scopo, a ciascuna amministrazione finanziaria di avere accesso diretto ai dati finanziari di un’altro paese.
Ma si dovrà vigilare a che gli impegni presi dai paesi siano effettivamente posti in atto, e che gli stessi paesi abbiano effettiva capacità e volontà di far rispettare agli operatori locali la raccolta e trasmissione sistematica dei dati da scambiare (secondo protocolli e modelli standard, chiamati Common Reporte DueDiligenceStandard). E si dovrà avere un sistema di sanzioni efficaci per quei paesi che si chiamano fuori. In più va previsto il ritiro della licenza bancaria per quegli istituti finanziari che non collaborino, boicottino o si dimostrino particolarmente attivi nel favorire gli evasori. E la difficoltà e i ritardi a estendere il nuovo standard a tutte le piazze finanziarie non dovrà diventare l’occasione per alcuni Stati (interni e esterni all’Unione) per ritardare la loro implementazione del sistema.
● Non dovrebbe esser difficile semplificare i requisiti tecnici per arrivare a un tax player identification number (numero identificativo del contribuente), che deve essere un obbiettivo imprescindibile nel programma e nell’azione dello schieramento socialista e democratico, prima europeo e poi mondiale. In un altro campo (della sicurezza) é bastata la volontà globale di arrivarci per avere un sistema che dà accesso alle registrazioni Interpol da ciascuna parte del mondo, semplicemente con un numero identificativo di passaporto; lo stesso dovrebbe e potrebbe avvenire in campo fiscale se ci fosse volontà politica. Ed é bene in ciò che UE e Ocse unifichino le regole, meglio ancora se il processo fosse guidato da un’Agenzia Onu, perché, nonostante L’Europa lo affidi all’Ocse,questa istituzione non ha la sufficiente legittimazione né rappresentatività territoriale per farlo diventare globale, né é un organismo intergovernativo, ma un settore studi di un numero limitato di paesi (avanzati). Le preferenze dei socialisti in direzione di regole e governance mondiale deve essere inequivocabile.
C) Le interposizioni fittiziee l’approccioinefficace nel loro contrasto
Se, per ciò che riguarda la trasparenza e l’informazione, ci si sta movendo in modo coordinato verso la strada giusta che depotenzia il ruolo dei paradisi fiscali, per ciò che riguarda l’uso degli stessi nella taxavoidanceil contrasto rimane affidato singolarmente ai vari paesi. Al cuore del problema sono quelle costruzioni artificiali capaci di far apparire attività inesistenti o di comodo nei paradisi fiscali, o usarle per triangolazioni vantaggiose a chi le attua. Per contrastare l’inventiva delle imprese in questo campo, i Paesi applicano un decalogo di azioni difensive, attraverso la disciplina delle cosiddette Cfc (Controlled Foreign Companies). Le pratiche di taxplanningnon scomparirebbero neppure con un regime di informazione automatica completa.
La riclassificazione dei i bilanci rimane, tuttavia, un procedimento poco efficace e farraginoso nella finalità di attrarre a tassazione in capo al soggetto nazionale tutto o parte del reddito prodotto dalla filiale estera collocata in paesi a fiscalità privilegiata. Il contesto europeo fa emergere poi l’eterogeneità su ciascuna delle caratteristiche essenziali condizionanti l’applicazione della disciplina Cfc, dalle restrizioni nella deduzione delle tasse assolte altrove, al disconoscimento di costi di impresa, all’introduzione di ritenute alla fonte su proventi pagati alla giurisdizione sotto accusa, alle presunzioni di residenza delle sociètà, regole sui prezzi di trasferimento, nozioni di controllo e collegamento, monitoraggio dei derivati e dei meccanismi finanziari che concorrono al profit shifting, ecc (ma il Regno Unito dal 2012 ha, poi, abbandonato la presunzione di tax avoidance nell’attività di un’impresa collocata nei paradisi fiscali). Comunque applicato, l’approccio delle Cfc non é sistemico, implica giudizi soggettivi e in più, fa sorgere complicazioni di carattere amministrativo, incertezze e difficoltà nella complianceo nella dimostrazione della prova contraria o delle esimenti, da rendere attraente, in circolo vizioso, l’ordinamento di quei paesi che, consentono alle imprese l’uso indisturbato delle scappatoie fiscali, impegnandosi in tal modo su un altro fronte di competizione fiscale. Si aggiunga che le sentenze della Corte (non sorprende), hanno ridotto molto l’efficacia delle misure protettive adottate dai paesi colpiti dalla competizione, disapplicando o depotenziando le loro misure per paura che alcune di esse, applicandosi all’interno dell’Unione, incidessero sul suo modo di intendere la libertà di stabilimento.
Google,Apple, ecc e...
Le azioni difensive risultano, poi, impotenti quando lo svuotamento dei profitti ottenuti in sede europea é dirottato legalmentein sussidiarie situate in aree a bassa o nulla fiscalità da imprese multinazionali insediate in paesi europei; paesi, che riconoscono e ammettono o concordano conil contribuentel’uso di queste pratiche. Paesi che puntano, più che sulle entrate tributarie potenziali di cui consentono l’evaporazione, sulle esternalità che l’insediamento della sede operativa delle multinazionali sul loro territorio può produrre in termini di ricadute economiche (specie in posti di lavoro qualificati ad altra retribuzione e l’utilizzo di istituzioni finanziarie in loco). L’attenzione ultimamente si é appuntata su casi emblematici di multinazionali (Apple, Amazon, Starbruck, Hp, Google15, iceberg di una fenomeno estesissimo) sui quali anche l’Unione ha aperto un’inchiesta, a cui il Lussemburgo si é permesso di non collaborare adeguatamente, rifiutandosi di svelare dettagli del suo sistema di tassazione.
Il meccanismo di taxavoidanceé abbastanza uniforme. Le multinazionali usano i prezzi (e la locazione legale) delle transazioni interne per attribuire un basso margine di profitto alle attività in paesi ad alta tassazione e dove hanno una quota significativa di mercato, ma che risultano solo importatori e consumatori del prodotto specifico (che i prezzi amministrati rendono a basso valore aggiunto). Potenzialmente esse dirigono i profitti nel paese dove é insediata l’unità operativa, ma da questo eseguono pagamenti deducibili a sussidiarie create ad hoc per prestiti, uso del marchio o dei brevetti o altri servizi, collocate in paradisi extra U.E. a bassa o nulla tassazione. Talvolta queste sussidiarie “posseggono” semplicemente una forma di usufrutto (economicownership) su proventi della casa madre (che ha la legal ownership).
Inutile dire che l’headquarter sarà in paesi, quali Lussemburgo, Olanda o Irlanda e, in parte, il Belgio, dove la tassazione già in origine sia bassa (talvolta concordata a priori16), dove non é prevista ritenuta alla fonte su pagamenti per servizi immateriali all’estero (17), né la pratica di dislocare (fittiziamente) le filiali sia messa in discussione quando la filiale é posseduta al 100%. Sarebbe interessante seguire i tanti e fantasiosi casi di pratiche fiscali delle imprese. Per citare solo pochi casi concreti, presi come esempio, può avvenire che i profitti pre tasse dichiarati dalla capogruppo europea di Starbucks’, situata in Olanda, abbiano generato solo 342 mila euro di tasse nel 2013 (anno in perdita dichiarata, come nel 2012 e 2011) su vendite europee per 92,5 milioni di euro (il 55% e passa delle quali ha a fronte costi per diritti di sfruttamento del marchio “pagati” a affiliate con base in paradisi fiscali) (18). Amazon, situata in Lussemburgo, adotta le stesse pratiche, ma questa volta i pagamenti per servizi immateriali sono verso un’affiliata anch’essa lussemburghese, praticamente esente da tasse (i profitti imponibili: 3 cent per ogni 1000 euro di fatturato) (19). Tra parentesi, si stima che in Lussemburgo vi sia la sede di 40.000 holding. Google ricorre a una triangolazione Irlanda – Olanda – Bermude (scendiamo a 2 cent tassabili ogni 1000euro di fatturato). Più clamoroso é il caso dell’Apple; non tanto perché su 57 mld di profitti in Europa paga 7,7 mln (meno di 1½%) di euro di tasse (media degli ultimi due bilanci),quantoperché incanalaiprofitti effettiviinpagamentideducibilia tre sussidiariedella sua sede legale irlandese che non hanno residenza fisica dichiarata in nessuna parte del mondo, una della quali non ha mai pubblicato bilanci (legalmente secondo la legge irlandese) (20). Osservata da punto di vista delle imprese che concorrono con quelle citate (o in simili casi) si può percepire quanto la concorrenza fiscale sia (oltre che lesiva delle finanze di quei paesi cui vengono sottratte entrate) distorsiva della concorrenza nel mercato, in quanto concede possibilità di cannibalismo a quelle che sono pressoché esente da tasse (a meno che i concorrenti non siano in grado di imitarle e rincorrerle in questo cimento) (21).
…. l’economia digitale
Costruzioni simili possono presentarsi con l’intera economia digitale (22), quando le imprese che vendono servizi da un portale possono entrare in rete da qualsiasi luogo. A volte quei servizi non sono connessi a una consegna fisica (esempio, musica, software, ecc.). E’ difficile perfino individuare con certezza dove i profitti vengano distratti, perché é difficile individuare dove il server – considerato la sede operativa dell’impresa – sia collocato, al limite presso una qualche piattaforma fuori da acque territoriali. Ma, anche in casi più standard, le imprese dell’economia digitale possono non aver bisogno di una stabile organizzazione nel paese in cui vendono e non sono quindi suscettibili di tassazione in loco. Fra l’altro il potere di enforcementdei pagamenti da parte dello Stato in cui avvengono le vendite svanisce, come già appare evidente con l’applicazione dell’iva.
Due soluzioni, una possibile, un’altra organica e di respiro progettuale
Per ricondurre a tassazione una serie di attività e redditi che rischiano di sfuggire, le vie possibili sono una a maggior portata di mano e un’altra organica, la quale, tuttavia, ha bisogno di trovare una determinazionepoliticadella stessa forza di quella che ha condotto agli accordi sulle informazioni automatiche. I socialisti e democratici devono sposarla e mettere la loro forza di idee e azione dietrodi essa.
●Nell’ambito del primo approccio, la via di uscita é passare a un principio di tassazione sul luogo della fonte (o di destinazione, per lomeno per ciò che riguardail commercioonlinedi beni immateriali, applicandouna ritenuta forfettariaalla fontesul loro valore e presumendo che il reddito sia stato realizzato dove vi sono le centrali logistiche o dove l’impresa ha significative quote di mercato, o comunque dove una parte dell’attività economica avviene e il valore viene creato. Di fatto non sarebbe altro che un duplicato dell’Iva (di cui occorre impedire la rivalsa sul consumatore). E’ un modo di tamponare la possibilità che i prezzi di trasferimento o l’assenza di una stabile organizzazione evapori la base imponibile nello Stato dove vengono prodotti i redditi (e talvolta anche in quello di residenza operativa dell’impresa). Lo scopo é trattenere un gettito che potrebbe sfuggire (ma che potrebbe anche duplicarsi altrove).
Si tratta, in sostanza, di ripensare il sistema internazionale di ripartizione della base imponibile basato sui trattati bilaterali contro la doppia imposizione (dove esistono). E’ detto principio della HomeState Taxation, quel principio che tassa il reddito all’origine, presupponendo la presenza fisica della stabile organizzazione nel territorio estero, e riconosce quanto già corrisposto fiscalmente altrove man mano che si risale verticalmente verso lo Stato sede della casa madre (23). E’ una soluzione che andava bene quando l’economia digitale non esisteva, l’opportunità di spostare profitti attraverso i prezzi delle transazioni interne era modesta, altrettanto la possibilità di transitare attraverso paradisi fiscali o di fare a meno della stabile organizzazione, ma che oggi é obsoleta.
Tassare alle fonte sulla base delle vendite (e non dei redditi) é una soluzione difensiva con vari rischi ma lineare, capace di tamponare una situazione che sta sfuggendo di mano. Tuttavia, non é facile erigere una barriera tra economia digitale e non, e, soprattutto, farlo per puri scopi fiscali. Inoltre, la soluzione non risolve casi come Starbruck o Pepsi Cola, che non vendono on line nulla.
●Il “gran disegno” in questo campo, é idealmente un altro, che supera congiuntamente l’insieme dei problemi su cui ci siamo fermati: é il disegno che punta al passaggio verso una tassazione unitariadelleimpresetransnazionali. Tassazione unitaria vuol dire: sul loro reddito mondiale integrato. Qui siamo di fronte a un effettivo superamento organico di uno schema di tassazione internazionale le cui strutture furono disegnate 100 anni fa quando la realtà odierna delle multinazionali non esisteva, né i movimenti di capitale erano liberi. Tali imprese non sono costituite da una serie di unità locali tassate separatamente in sedi diverse alla stregua di unità indipendenti, come tende a considerarle la convenzione attuale contro le doppie imposizioni, ma sono un centro unitario di affari che deriva le proprie capacità competitive dal combinare attività economica in singole locazioni, oltre che dal controllo unitario di tecnologia e conoscenza. Dovrebbero essere tassate come un’unica singola unità di cui ogni branca é parte organica. Quindi il riferimento dovrebbe essere al consolidato mondiale delle multinazionali, che esse dovrebbero presentare in ogni paese dove operano, per poi venire tassato unitariamente secondo formule di ripartizione del reddito concordate che riflettano la genuina presenza in ciascun paese. Formule che pesino, tra loro e tra paesi, le unità fisiche (o i costi della manodopera impiegata), gli asset fisici – esclusi gli intangibili – e le vendite. Trovare criteri contabili unitari e concordati di compilazione dei bilanci é il più superabile di tutti i problemi, data l’esistenza ormai di standard contabili accettati.
Uno schema del genere, che elide le transazioni interne, eliminerebbe alla radice la convenienza a costruzioni fittizie in paradisi fiscali o a spostare i profitti nel globo attraverso i prezzi praticati nel commercio interno al gruppo. Il risultato finale rimane indifferente alla localizzazione e ai prezzi interni, una volta che tutto venga conglomerato. Se ne gioverebbero le stesse imprese che potrebbero compensare profitti e perdite ottenuti in paesi diversi e ridurre i costi di compliance; se ne gioverebbero le amministrazioni che non dovrebbero riformulare la contabilità dell’impresa e mettere in atto misure difensive complesse (la normativa sulle Cfc), da cui scaturiscono innumerevoli contenziosi e spesso coinvolgono altre amministrazioni e richiedono complicate e interminabili mediazioni. Su questo dovrebbe attestarsi una rivendicazione politica delle forze democratiche, alla ricerca di equità e di pulizia morale, oltre che di una regolazione del capitalismo mondiale adeguata alla sua realtà odierna.
Il regime della tassazione unitaria ha, inoltre, il vantaggio di potere essere applicato da singoli gruppi di paesi prima ancora che un accordo internazionale lo renda il nuovo standard per trattare la materia. Ma sarebbe comunque opportuno che si estendesse ampiamente nel globo. L’Europa dovrebbe prendere la leadership nella sua diffusione (e le forze socialiste agire perché ciò avvenga), approfittando anche del favore che esso gode in Canada e negli Usa, dove é previsto nella Frank Dodd, e dove molti stati lo adottano già ora anche per difendersi dalla competizione fiscale dei paradisi interni.
LaCCTB europea (la tassazione delle imprese su base comune consolidata)
Questo ci fa concludere che La Common Consolidated Tax Base, approvata dal Parlamento europeo sia un disegno di grande respiro? Potrebbe esserlo, ma si ferma alla soglia dall’esserlo. Allo stato della formulazione attuale ha caratteri che ne menomano enormemente la portata.
● 1) Innanzi tutto la CCTB dovrebbe essere obbligatoria, mentre oggi é prevista come opzionale, facendo coesistere due sistemi paralleli tra i quali le imprese possono scegliere e costringendo le Amministrazioni a trattare congiuntamente con ciascuno di essi. Finirebbe per essere il 29° sistema fiscale dell’Unione Europea, non il suo sistema distintivo di tassazione delle imprese
● (un sistema, che al limite l’Unione stessa potrebbe amministrare trattenendo una parte dei proventi per il suo bilancio).
●2) In secondo, luogo, dovrebbe prevedere una armonizzazione della la tassa sui profitti, perché altrimenti manterrebbe comunque in vita una competizione fiscale sulle opportunità di insediamento, che porta a una corsa verso il basso. A quel tipo di esito sarebbe preferibile,
● una combinazione che veda abbinato all’armonizzazione delle aliquote, un criterio
supplementare tra quelli che ripartiscono i profitti consolidati delle multinazionali (cioè: lavoro, assets fisici e vendite), consistente in una qualche misura del reddito pro capite dei paesi, con pesi inversamente proporzionali (in modo da beneficiare i paesi a minor reddito e compensarli della perdita dello strumento di competizione).
● 3) In terzo luogo, dovrebbe far riferimento ai profitti consolidati mondiali, mentre ora prevede che i profitti consolidati siano solo quelli che derivano dalle attività europee, in quanto la base fiscale da fonti non europee rimarrebbe separata, lasciando alle imprese l’opportunità di escludere le società intermediarie locate nei paradisi fiscali, che esse usano per evitare le tasse. Il problema dei trasferimenti di profitto e delle attività fittizie continuerebbe altrimenti a essere trattato con misure anti elusione, che si sono dimostrate palesemente insufficienti.
Quale prospettiva?
Pur con questi annacquamenti il progetto rischia di non essere varato mai, o di ridursi a un progetto senza una C, il consolidated(quindi di sola armonizzazione delle base imponibili). Già Irlanda, Olanda e Gran Bretagna si in vari gradi dissociate da esso. Per essere varato ha bisogno della risoluzione di non insignificanti dettagli tecnici e del voto unanime del Consiglio di Europa, che é tutt’altro che scontato.
E qui viene a galla un’altro tema dolente della costruzione europea, quello che prevede l’unanimità di 28 stati in materia fiscale per decisioni vincolanti, più il parere conforme del Consiglio dei ministri, della Commissione e del Parlamento europeo. Il tutto con la supposta collaborazione dei paradisi fiscali interni.
● Senza superare l’unanimità sarà sempre difficile ottenere risultati concreti su queste materie, men che meno arrivare a progetti organici e effettivamente europei.
● Tanto meno si potrà mai approdare a decidere quale tassazione, all’interno del modello prescelto, sia necessario destinare a un bilancio europeo rafforzato (che includa anche una carbon tax e la tassa sulle transazioni finanziarie) da cui si possano trarre risorse, oltre che per altri ovvi scopi di rafforzamento infrastrutturale e dell’attività economica, anche a compensazione di quei paesi che possono sentirsi danneggiati da progetti che contrastano la competizione fiscale.
I paesi europei non hanno perso autonomia fiscale per la globalizzazione, ma per la competizione interna, come ho detto in apertura. Possono ritrovarla solo collettivamente. Ci vuole un impeto politico per risolvere le questioni di principio coinvolte. Un impeto genuinamente europeo, che sembra svanito. Se si continua a consentire che i paesi lottino per sottrarsi reciprocamente basi imponibili e si legittima la deindustrializzazione di alcuni a vantaggio di altri – quando il contesto già consente a un gruppo di paesi di prosperare sulle difficoltà di altri senza esercitare responsabilità adeguata, e quando la prospettiva futura é di crescita modesta e alta disoccupazione – non ci si rende conto che si sta ballando pericolosamente sul fuoco
(*) L’Autore è professore di Economia Monetaria Internazionale ed è stato Presidente della Commissione Bicamerale per la Riforma Fiscale nella XIII Legislatura (1996-2001) e autore del Libro Bianco sulla imposizione delle imprese (2007), redatto dalla Commissione che porta il suo nome.
NOTE
1 – La base di questo saggio é la Relazione tenuta alla “European Interparliamentary Conference Under Article 13 of the Fiscal Compact” (29-30 settembre 2014), organizzata per il Semestre Europeo di Presidenza dell’Italia dalla Camera dei Deputati, Palazzo Montecitorio. Sezione: “Il coordinamento delle politiche fiscali europee”. Rispetto a quel testo, che verrà pubblicato in Rassegna Tributaria, n 1, 2015, questo é ampiamente rimaneggiato per essere reso meno tecnico e accessibile al lettore non specialista e più esplicito nel senso e significato politico dei temi. E’ stato anche adattato per costituire una delle parti aggiuntive nella nuova edizione (prevista in primavera) del libro dell’Autore “Ripensando il Capitalismo. La crisi economica e il futuro della sinistra” (Luiss University Press).
2 – La sentenza Cadbury – Schwrepess fu emessa in relazione al ricorso presentato da questa società madre di diritto britannico contro l’autorità fiscale nazionale. La materia del contendere riguardava i profitti di due controllate costituite in Irlanda per fruire della minore aliquota di tassazione dei profitti. La causa fu intentata (nel 2000) contro l’Amministrazione britannica, che – secondo la legge vigente nel Paese – obbligava la società residente a pagare la differenza tra l’imposta assolta all’estero e l’imposta che avrebbe dovuto essere assolta nel Regno Unito se la società avesse avuto sede in tale Stato. La sentenza (del settembre 2006) fu favorevole alla Cadbury in nome del principio sancito nei trattati di “libertà di stabilimento”, che da lì in poi diventa il principio che priva le singole autorità di un argine alla concorrenza fiscale.
3 – Il sistema di tassazione delle holding é tanto significativo quanto poco percettibile nell’informazione comune. La Pex esenta le holding dalla tassazione dei dividendi che esse ricevono dalle loro controllate, in quanto considera che la tassazione sia stata già assolta dalle imprese partecipate ovunque collocate (il che può aver qualche giustificazione sistemica). Ma poi esenta anche da tassazione le plusvalenze (e minusvalenze) realizzate dalle holding nello smobilizzo di partecipazioni (il che ha giustificazioni fragilissime o inesistenti). E’ conseguenza non secondaria della Pex il fatto che quel sistema costringa – se si vogliono tassare i dividendi percepiti dalle persone fisiche (residenti) – a imporre su di essi una doppia tassazione, in quanto quei dividendi (sia pure inclusi in misura solo forfettaria nel reddito) non riconoscono alla persona fisica ciò che l’impresa erogatrice ha già pagato su di essi come tassa sui profitti.
L’elemento distintivo del sistema adottato in precedenza dalla maggioranza dei paesi considerava in linea di principio la tassazione societaria solo di pertinenza dei soci (persone fisiche o giuridiche) di cui la tassazione dei profitti era solo una anticipazione da scontare poi nella tassazione sui dividendi (attraverso il credito di imposta). Lasciava un intreccio razionale tra tassazione societaria e personale e trattava in principio le plusvalenze alla stregua di reddito prodotto (come in realtà sono). Il credito d’imposta, tuttavia, riguardava solo i residenti. A seguito di una sentenza della Corte che ne aveva chiesto la correzione per evitare (in questo caso giustamente) un trattamento discriminatorio dei soggetti residenti rispetto ai non residenti, il passo naturale successivo sarebbe stato l’estensione del credito d’imposta anche ai dividendi percepiti da soggetti esteri (che la Corte si é guardata dal chiedere). Ma questa strada “naturale” non avrebbe potuto essere intrapresa che in un quadro di reciprocità fissato da un indirizzo che avesse reso veramente europeo il sistema di imputazione del credito d’imposta. Questo indirizzo non é mai venuto, lasciando che si affermasse la costruzione del Benelux, che i singoli paesi hanno adottato per evitare di perdere la sede delle holding e dovendo comunque superare il vecchio sistema per adempiere ai dettati della Corte.
4 – La nuova società della Fiat é di diritto olandese, ma ha sede fiscale in Gran Bretagna. Con il voto maggiorato non vale più il principio di un’azione – un voto, ma gli statuti possono prevedere che particolari azioni abbiano un diritto di voto maggiorato. In tal modo la maggioranza azionaria può blindare la proprietà.
5 – In Italia varato nell’agosto 2014, ma mancante ancora di un regolamento Consob.
6 – L’Italia ha varato il suo patent boxa partire da gennaio del 2015. Poiché alla concorrenza fiscale non c’é fine é lecito chiedersi se non sarebbe stato meglio porre con determinazione il problema della concorrenza fiscale durante il suo semestre di presidenza dell’Unione Europea nella seconda metà del 2014.
7 – La stima proviene dalla precedente Commissione, ma anche recentemente Algirdas Semeta, commissario per Fiscalità e Unione doganale ha fatto riferimento alla stessa cifra. Per promemoria, il bilancio dell’Unione in termini di stanziamenti si aggira intorno ai 150 miliardi di euro.
8 – A poco a poco esentati da tassazione in quasi tutti paesi con la presunzione di evitare una doppia tassazione con quella del paese di residenza e con la buona opportunità consentire ad essi di sfuggire a entrambe le tassazioni. Il regime si porta appresso la mancata tassazione dei capital gainrealizzati da persone fisiche non residenti.
9 – La media dell’aliquota formale sui profitti é passata in Europa dal 45% del 1980 al 24% del 2014, con una varianza sempre più ridotta.
10 – Il senso del “particolaristico” era individuato nella non accessibilità dei residenti allo stesso regime.
11 – Un bella messa a punto dei temi relativi alla “concorrenza dannosa” é in V. Ceriani, Competitività dei sistemi fiscali, in XXI Secolo, ed Enciclopedia Treccani, Roma, 2009
12 – La cui aliquota é fissata al 12,5%
13 – I pallini indicano le linee di azione e di programma
14 – La direttiva risparmio mirava a riportare a tassazione nel paese di residenza i proventi finanziari realizzati altrove, ma erano esentati Lussemburgo, Austria e Irlanda, che potevano applicare ai residenti esteri una tassazione alla fonte, senza aderire per 10 anni al sistema informativo. Quella direttiva lasciava ampi spazi ai singoli per sfuggire al sistema informativo.
15 – Ma anche Ikea, PepsiCo. FedEx, Procter&Gamble, Vodafone, Microsoft, ecc. ecc. Una recente inchiesta giornalistica inserisce anche 21 imprese italiane in Lussemburgo (senza contare la sede lussemburghese di fondi distribuiti in Italia, che appartiene a un altro ordine di problemi).
16 – Gli accordi avvengono attraverso il cosiddetto tax rulingo Apa (transaction tax agreement) in cui le imprese chiedono preventivamente quale sarà la loro tassazione in caso di trasferimento; lo schermo rimane quello dell’applicazione di aliquote “normali” di tassazione (che non danno luogo a “concorrenza dannosa”, 25%, ad esempio in Olanda), quando la sostanza é la concessione di abbattimenti di base imponibile, che finiscono per ridurre in modo irrisorio i profitti tassabili.
17 – In Italia, ad esempio, questa tassazione esiste, anche se é solo del 5%. In ciascuno dei paradisi fiscali interni all’Unione non sono previste ritenute alla fonte su pagamenti per beni immateriali.
18 – Un inchiesta britannica porta in evidenza che dal suo arrivo in Gran Bretagna nel 1988 Starbucks’ ha pagato cumulativamente fino al 2012 tasse per 11,5 ml di euro contro vendite per 4,5 mld di euro.
19 – Un’ordinazione di un libro da 50 euro, per intenderci, dà luogo a un profitto tassabile integrato di 1,5 centesimi di cent. Amazon ha otto mega magazzini in Gran Bretagna e 6000 dipendenti; ha un numero elevato di dipendenti in Francia, e Germania, ma il grosso dei profitti va nella sua sede lussemburghese dove ha 200 dipendenti.
20 – Tutto ciò risulta dall’inchiesta del Senato americano sulla Apple. Spiegare quali scappatoie legali re ndano ciò possibile complicherebbe la trattazione. Nei maggiori mercati europei di vendita dei suoi prodotti, Apple fissa i prezzi di acquisto (dall’Irlanda) in modo da limitare i profitti tassati in loco. Nel 2011, ad esempio, Apple ha dichiarato perdite della capogruppo locale in Germania e Francia e ha pagato tasse per 10,5 milioni di euro in Gran Bretagna su vendite per oltre 1300 milioni di euro.
21 – Questo scritto era già redatto (la relazione ai Parlamenti Europei é del 30 settembre 2014) quando, un mese dopo, é scoppiato il caso Junker (premier del Lussemburgoper 15 anni), relativo agli accordi segreti siglati da questo Paese con molte multinazionali per ottenere il loro insediamento in cambio di remissione di tasse. Per ora sono emersi solo gli accordi intermediati dalla società di consulenza Pricewaterhouse Coopers. Se l’esistenza di tali pratiche era all’ingrosso nota a me é possibile che non fosse nota ai governanti europei? Perché non vi é stato posto termine nel corso degli anni, forse perché la concorrenza fiscale é benefica? Inoltre, come può esser sfuggito al Parlamento europeo che Junker era la persone meno adeguata e credibile per quella responsabilità?
22 – E’ ormai il 5% del pil dei paesi occidentali ed é in rapida crescita da far presumere che sarà presto una frazione doppia.
23 – La prima tranche di tassazione é dello Stato dove l’impresa opera con la stabile organizzazione locale (in pratica, la capogruppo sul territorio). Lo Stato in cui l’impresa madre opera a monte applicherà la seconda tranche secondo i propri criteri é così via riconoscendo quanto é già stato pagato in imposte sul reddito negli Stati con cui ha sottoscritto i trattati di doppia tassazione. Oggi il principio dell’Home State Taxationé minato non solo dalla gestione dei prezzi di trasferimento nel commercio interno alle conglomerate, ma anche dal fatto che nell’economia digitale la stabile organizzazione nel paese di vendita non é necessaria. Tuttavia, le nuove regole U.E. sulle imposte indi rette (che entrano in vigore nel 2015) stabiliscono che ai soli fini Iva le imprese che attuano prestazioni on line in settori identificati e con importi di vendita superiori a certe soglie debbano identificarsi in ogni Stato U.E. di consumo dei servizi.