Uno degli ambiti su cui la Commissione Europea è stata più attiva sin dal Trattato di Roma ha riguardato l’ambiente, tema su cui le politiche definite a Bruxelles hanno di fatto costituito il quadro strategico di riferimento per gli Stati membri, che in molte circostanze si sono limitati a recepire attraverso le direttive le regole comunitarie. Questo processo è stato gestito dalla Commissione con un’impostazione volta a valorizzare le esperienze più significative degli Stati Membri più avanzati, trasferendole a tutti gli altri. Volendo tracciare l’evoluzione dell’impostazione strategica dell’Unione Europea si possono rileggere i sette Piani di azione sull’ambiente prodotti sino ad oggi. Tra di essi quello che rappresenta la più rilevante soluzione di continuità rispetto ai precedenti è il Quinto, intitolato nel 1992 allo “sviluppo sostenibile”, in cui la Commissione ha voluto coinvolgere nell’implementazione delle politiche tutti gli attori, a partire dalle imprese e dai cittadini-consumatori. Questo coinvolgimento è risultato una necessità, data l’impossibilità da parte delle istituzioni di generare da sole un cambio radicale di prospettiva che coinvolgesse i comportamenti, gli stili di vita, i processi innovativi dell’intera società. Da allora molte politiche e strumenti sono stati introdotti dalla Commissione Europea per promuovere una produzione e un consumo più sostenibili, che riducano l’uso delle risorse e l’impronta ambientale dei prodotti e dei processi. La sfida però è tutt’altro che semplice e non tutti a Bruxelles sono persuasi che la sostenibilità possa continuare ad essere un driver primario della strategia comunitaria.
Emblematica è la discussione al proposito sulla “circular economy”. Nel settembre del 2014 la Commissione ha emanato una comunicazione al proposito in cui si sottolinea come nei sistemi di economia circolare i prodotti mantengano il loro valore aggiunto il più a lungo possibile e si riducano al minimo i rifiuti. Quando un prodotto raggiunge la fine del ciclo di vita, le risorse riamangono all’interno del sistema economico, in modo da poter essere riutilizzate più volte a fini produttivi e creare così nuovo valore. Per passare ad un’economia più circolare occorre apportare cambiamenti nell’insieme delle catene di valore, dalla progettazione dei prodotti ai modelli di mercato e di impresa, dai metodi di trasformazione dei rifiuti in risorse, alle modalità di consumo: ciò implica nello spirito del V Programma un vero e proprio cambiamento sistemico e un forte impulso innovativo, non solo sul piano della tecnologia, ma anche dell’organizzazione della società, dei metodi di finanziamento e delle politiche.
A tal fine nel recente Settimo Programma di Azione Ambientale gli Stati membri e il Parlamento europeo hanno convenuto che l’Unione europea definisca gli indicatori e fissi gli obiettivi relativi all’uso efficiente delle risorse, e valuti se è opportuno prevedere un indicatore e un obiettivo prioritario nell’ambito della programmazione europea. Dopo un’ampia serie di consultazioni, il rapporto tra PIL e consumo di materie prime (l’RMC che è un indicatore globale che misura in tonnellate tutte le risorse in materie utilizzate nell’economia, tenendo conto dell’uso delle risorse contenute nelle importazioni) è stato scelto come possibile indicatore dell’obiettivo relativo alla produttività delle risorse.
Il problema è che la convinzione da parte della Commissione su questo orientamento strategico appare non scontata. La Commissione presieduta da Jucker nel dicembre dello scorso anno ha messo in discussione la proposta di Direttiva sull’economia circolare (insieme ad altri 79 privvedimenti legislativi sui 450 maturati nella presidenza Barroso che attendono una decisione del Parlamento europeo e del Consiglio). L’argomentazione ufficiale è che la Direttiva era in qualche modo stata “annacquata” nella fase di negoziazione, per questo motivo il Commissario all’ambiente sta lavorando per una sua riproposizione più efficace. Rimane il dubbio se l’orientamento alla circular economy sia considerato veramente prioritario nell’ambito delle sfide competitive che caratterizzeranno l’Europa nei prossimi anni. E’ più di un decennio che a livello comunitario si fronteggiano due schieramenti: l’uno favorevole a mantenere una caratterizzazione fortemente improntata alla sostenibilità e alla solidarietà, l’altro profondamente preoccupato per le sorti competitive del vecchio continente e volto a recuperare approcci più liberisti.
Il punto non è tanto ideologico, quanto pragmatico: possono la sostenibilità e la green economy consentire all’Europa di mantenere un livello di competitività adeguato che si accompagni con un ruolo di indirizzo nel definire i modelli di sviluppo futuri?
Negli ultimi quindici anni l’Unione Europea ha assunto un ruolo guida nell’ambito delle politiche per la sostenibilità che in precedenza era stato svolto dagli Stati Uniti. Dopo la Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, che con Agenda 21 aveva tracciato un percorso impegnativo per il miglioramento della sostenibilità, l’Europa ha rappresentato l’avanguardia nelle trattative sul cambiamento climatico, nelle politiche sull’uso efficiente delle risorse, negli strumenti volontari coinvolgenti le imprese, nella promozione della bioeconomia.
Alla fine dello scorso decennio sotto l’egida della green economy l’Europa si è trovata riunita con gli Stati Uniti di Obama, che nella sua prima campagna elettorale attribuì molto enfasi ad una nuova ondata di innovazioni “verdi” che potessero generare una nuova spinta in un sistema economico alle soglie della recente prolungata crisi che ancora stiamo vivendo.
Pochi anni dopo l’UNEP e l’OCSE hanno prodotto dei documenti programmatici “towards green growth”, che evidenziano come sia indispensabile un nuovo modello di sviluppo che consenta il disaccoppiamento tra crescita e consumo delle risorse, in un’economia capace di produrre un benessere, di migliore qualità e più equamente esteso, migliorando la qualità dell’ambiente e salvaguardando il capitale naturale.
Questo nuovo modello secondo le istituzioni internazionali potrebbe consentire un nuovo sviluppo più equilibrato e duraturo, con investimenti rilevanti in settori chiave relativi alla gestione integrata delle risorse (l’energia, l’acqua, i materiali, i servizi ecosistemici, ecc.) e con un importante effetto sull’occupazione (oltre venti milioni di posti di lavoro, secondo l’OCSE). E’ in questo ambito che si collocano la Comunicazione e la proposta di direttiva sulla circular economy della Commissione; costituisce la conferma di un ruolo guida dell’Europa nelle politiche orientate al decoupling e all’uso efficiente delle risorse.
Secondo la precedente Commissione europea il conseguimento degli obiettivi in materia di rifiuti fissato dalla direttiva sull’economia circolare porterebbe 580.000 nuovi posti di lavoro, rendendo l’Europa più competitiva e riducendo la domanda di risorse sempre più scarse e costose.
Alcuni studi di accompagnamento alla proposta di Direttiva, stimano che un uso più efficiente delle risorse lungo l’intera catena di valore potrebbe ridurre il fabbisogno di fattori produttivi materiali del 17%-24% entro il 2030, con risparmi per l’industria europea dell’ordine di 630 miliardi di euro l’anno (Europe Innova, 2012). Altre analisi, quali quelle della Ellen MacArthur Foundation, mostrano come, adottando approcci fondati sull’economia circolare, l’industria europea potrebbe realizzare notevoli risparmi sul costo delle materie e innalzare potenzialmente il PIL dell’UE fino al 3,9%, attraverso la creazione di nuovi mercati e nuovi prodotti.
In particolare la direttiva prevederebbe il riciclaggio del 70% dei rifiuti urbani e dell’80% dei rifiuti di imballaggio entro il 2030 e dal 2025 il divieto di collocare in discarica i rifiuti riciclabili.
Appare evidente come questa sia una sfida impegnativa, ma già oggi è in corso una riduzione dell’intensità dei rifiuti prodotti dall’economia, così come dell’intensità energetica. E l’Italia, peraltro, in questo percorso si pone tra i Paesi più virtuosi, non fosse altro per la scarsità di materie prime che da sempre caratterizza il nostro Paese (e in generale l’Europa).
Più in generale l’Università di Cambridge ha misurato come la produttività delle risorse nell’UE sia cresciuta del 20% nel periodo 2000-2011, anche in ragione della crisi.
Se questa evoluzione si dovesse mantenere costante, entro il 2030 si registrerà un ulteriore aumento del 30% della produttività, con il conseguente incremento del PIL di quasi 1% e la creazione di oltre due milioni di posti di lavoro in più rispetto alla situazione attuale.
La comunicazione della Commissione del luglio 2014 sull’occupazione verde chiarisce meglio questa potenzialità. Già tra il 2002 e il 2011 gli occupati nel comparto dei bei e servizi ambientali (una parte della green economy) nell’UE sono saliti da 3 a 4,2 milioni, con un tasso di crescita del 20% durante gli anni di recessione. Molto però resta da fare nell’ambito delle politiche del lavoro e dell’occupazione, che devono svolgere un ruolo più attivo nella promozione della creazione di posti di lavoro e nella soddisfazione dei fabbisogni occupazionali e di competenze connessi alla transizione verso un’economia verde che usi le risorse in maniera efficiente. Ciò deve avvenire in connessione con tutte le altre politiche, comprese quelle ambientali, come viene evidenziato anche nel Settimo Programma Ambientale. Le sfide della sostenibilità e della green/circular economy devono essere infatti inserite in un quadro organico di policy in cui promozione di uno sviluppo equilibrato e duraturo, lavori e servizi sociali dignitosi, tutela e valorizzazione dell’ambiente, siano parti integranti di un nuovo modello di economia.
(*)Direttore dell’Istituto di Management, Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa