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Spostare lo sguardo più’ in la’

Nella vita ci giungono continuamente notizie: alcune buone, altre meno. La prima notizia (buona o cattiva lo deciderete voi) è che l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri di altri 4 decreti attuativi del Jobs Act, non sembra portare in dote al sistema del mercato del lavoro nuove certezze, anzi. La seconda notizia (buona) è che il lavoro è di nuovo al centro del dibattito anche se il rischio che vediamo è quello di insabbiare gli elementi di novità tornando alle solite diatribe ideologiche. 

Detto questo, l’unico cambio di passo possibile è nel passaggio dalle polemiche tra lavoro autonomo, dipendente e imprenditoriale, al “lavoro” senza altri aggettivi: un orizzonte di sviluppo basato sulla capitalizzazione personale delle competenze e delle conoscenze intellettuali attraverso un’attenzione ossessiva ai processi formativi e ad un meccanismo di “continuità professionale” volto ad assicurare nel tempo le diverse modalità di esercizio.

La verità è che la cornice è cambiata. Sono già passati 15 anni del XXI secolo e, dalla metà degli anni ’90, siamo passati da un’economia in prevalenza industriale ad un economia della condivisione basata sulla Rete dove si vince solo se si alimentano costantemente lo scambio e l’innovazione. Non è più possibile essere competitivi investendo nel solo capitale materiale e finanziario. E’ per questo che qualche tempo fa avevamo scritto che, per creare nuova occupazione, non bastavano provvedimenti relativi solo alla contrattualistica ma occorrevano alcune misure indirette ma fondamentali per indurre uno shock positivo come, ad esempio:

una riqualificazione dell’IRAP che eliminasse i lavoratori dipendenti dalla base imponibile;

la realizzazione di una rete wi-fi aperta a tutti, a partire dall’eliminazione delle password dei punti di rete già esistenti;

la consapevolezza operativa che il Sud Italia è l’area di interesse strategico che da sola rappresenta la priorità di qualsiasi azione. 

Il primo punto, la riqualificazione dell’IRAP, è finalmente un dato di fatto acquisito. Quanto al resto stiamo ancora (purtroppo) aspettando. Anche perché resta il problema degli investimenti nei percorsi formativi. Percorsi che devono rappresentare una delle infrastrutture più importanti e significative per il futuro del Paese. 

Percorsi che devono essere oggetto di una rimodulazione rapida e totale affinché siano impostati non solo su competenze verticali (che diventano rapidamente obsolescenti) ma anche e soprattutto orizzontali (change management, inglese, networking, conflict management, comunicazione, leadership, personal branding). Un sistema che disincentiva lo sfruttamento dei giovani e che porta le aziende a investire e capitalizzare sulle competenze dei propri lavoratori.

Peccato che qui la notizia è molto meno buona. Sono quasi 3,5 milioni i “dimenticati del Jobs Act”, professionisti e lavoratori autonomi che sono rimasti fuori da tutti i provvedimenti sul lavoro del Governo. Senza dimenticare che il Jobs Act presenta diversi aspetti non convincenti. Il più importante è che ci si è concentrati sull’effetto (il totem ormai inesistente dell’articolo 18) e ci si è fatti passare sotto il naso le cause: demansionamento e controllo a distanza.

La revisione della disciplina delle mansioni sarà permessa in caso di riorganizzazioni aziendali con limiti alla modifica dell’inquadramento che lascia spazio anche alla possibilità (gravissima) di riduzione individuale dei salari. Senza dimenticare la pressione psicologica sui lavoratori e manager nelle imprese medio-grandi e grandi. Non dobbiamo dimenticare infatti che, in Italia, il 4% delle imprese copre circa il 55% dell’occupazione. Non potendo svalutare la moneta, si è arrivati alla svalutazione del lavoro.

In ogni caso, la montagna del Jobs Act sta producendo topolini. A fronte di deleghe così ampie, gli aspetti concreti dei provvedimenti sono, sul piano pragmatico, solo formali: cambiare tutto per non cambiare niente, a partire dalle collaborazioni coordinate e continuative. L’obiettivo chiaro è una deregolamentazione che genererà asimmetrie profonda nel mondo del lavoro, sia sui contratti che sulle tutele, e un aumento significativo del potere delle imprese senza elementi di riequilibrio. 

Sui controlli a distanza, ad esempio, non è ancora chiaro se è venuto meno l’obbligo dell’accordo sindacale che renderà più difficile assicurare  l’uso indebito delle informazioni. Senza dimenticare che la nuova Agenzia nazionale che si occuperà delle nuove politiche attive disegna un sistema estremamente frammentato, nel quale le competenze si diluiscono tra Ministero del Lavoro, Agenzia, quel che resterà di Isfol e Italia lavoro, Regioni e province autonome, Inps e centri per l’impiego. 

 

Insomma, siamo nelle mani di Dio anche perché proprio i centri rimangono fuori del perimetro dell’Agenzia e passa in capo alle Regioni ed alle Province autonome il compito di erogare i servizi ai cittadini, attraverso propri uffici denominati centri per l’impiego. Ma il bello è che, a fronte dell’organizzazione e della spesa connessa (circa 700 milioni annui nel 2014), la compartecipazione alla spesa delle Regioni stesse sarà di soli 70 milioni (praticamente il 10%) per i soli anni 2015 e 2016. Come dire: un’altra riforma all’italiana. Ovvero fatta senza risorse.

Che altro dire? Solo una riflessione strategica. Siamo un Paese che, nonostante qualche timido segno di ripresa, porta in grembo tre milioni e mezzo di disoccupati, con un tasso del 13,6% – già terribile di per sé – che diventa un devastante 46% tra i giovani. Oltre 100.000 fabbriche chiuse dal 2001 ad oggi che hanno portato alla perdita di oltre un milione di posti di lavoro e a una diminuzione della produzione industriale di circa un quarto.  

Che le produzioni di massa vadano via via spostandosi dove il costo della manodopera è più conveniente è un dato di fatto contro il quale si può fare poco. E certo non si può pensare di essere competitivi sui lavori meno professionalizzati. Quello su cui si deve puntare sono i servizi ad alto valore aggiunto, la progettazione, l’innovazione, le produzioni di eccellenza, ma anche la logistica, la cultura, il turismo. Il tutto in un sistema di rete in termini di piattaforme collaborative di condivisione, crowdrating, crowdfunding, crowdworking che metta in contatto i diversi attori del sistema economico, permettendo a ciascuno di rafforzarsi nello scambio di idee e di competenze. 

Per fare tutto questo non bastano le parole, e neanche le idee chiare o gli incentivi a supporto delle assunzioni a tempo indeterminato. Questi ultimi sono poi un piccolo grande enigma. La domanda è la seguente: continueranno le assunzioni (anche se sarebbe più corretto, visti i dati, chiamarle trasformazioni) quando finiranno (presto in base al DEF) le risorse disponibili? Ci sarebbe bisogno invece di investimenti veri e della volontà politica di sostenerli. Investimenti in formazione, in ricerca, in infrastrutture – di trasporto e digitali – e in tutti quegli intangible assets di competizione collaborativa che troppo e troppo a lungo sono stati trascurati.

Qualcuno potrebbe obiettare che i risultati non sarebbero immediati e che per fronteggiare le emergenze ci vogliono piani a brevissima scadenza. Ma non guardare più in là del proprio naso non ha mai dato risultati stabili e duraturi, al più qualche illusoria fiammata. È arrivato il momento di spostare lo sguardo più in là. Anche per il nostro Paese.

 

 (*) Presidente CONFASSOCIAZIONI 

 

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