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Il jobs act giganteggia se la contrattazione si fa piccola piccola

Come mai  cresce l’occupazione? Il Governo dice: c’è il Jobs act. L’opposizione replica: il merito è di Draghi che stampa moneta, del petrolio meno caro e del cambio euro/dollaro a favore del primo. Dal sindacato, le voci sono discordanti, ma le più critiche insistono: conseguenza del drogaggio prodotto dagli sgravi contributivi. Il padronato, più sornione, rivendica la ripresa degli investimenti. Ha proprio ragione il Presidente della Repubblica quando mette il dito nella piaga: “molto spesso non siamo riusciti a fare sistema, a giocare in squadra, presi come spesso accade dalle nostre divisioni, non di rado artificiose”(discorso al Congresso della società Dante Alighieri, 26/09/2015). 

Questo gioco a distinguere, avviene mentre il verso dell’economia sembra prendere  la via della ripresa. Infatti, tutti gli indicatori nazionali ed internazionali lo stanno certificando. E con una certa sorpresa, sottolineano il dato occupazionale, in lieve inversione di tendenza. E’ noto agli accademici come agli operatori economici che, se non si tocca come minimo un incremento del 2% del Pil, la lancetta della disoccupazione non scende. Ora, invece, con un Pil che a malapena arriva a +1 di crescita, non solo il serbatoio della Cigs si svuota del 40%, ma anche la disoccupazione smette di puntare verso l’alto e piega, sia pure di qualche decimale, all’ingiù. Lieve spostamento, ma era dal 2008 che lo si aspettava. Non dice molto a quella montagna di disoccupazione giovanile che ci ritroviamo, ma almeno lascia sperare.

Una tiepida ripresa, dunque. Però, se il mercato del lavoro esce dalla sua poliennale depressione, vuol dire che qualche novità è in corso di dispiegamento. Specie se si guarda agli aspetti qualitativi. Rientrano i cassintegrati, si riassorbono i cinquantenni, scemano le partite iva, prevale il contratto a tutele crescenti nelle nuove assunzioni. Un mix di segnali che fa intendere che il sistema produttivo e dei servizi da un lato ha necessità di competenze mature e dall’altro apprezza le novità legislative. In altri termini, la ripresa riguarda sia aree professionali collaudate che persone tendenzialmente assunte con l’intenzione di renderle più fidelizzate che in passato.

E’ presto per avere opinioni definitive, ma dalle macerie della crisi, si sta delineando un nuovo assetto delle attività economiche, più adeguato ai tempi, alle dinamiche del mercato globalizzato, al bisogno di gente più raffinata sul piano professionale. E se il traino di questa maturazione è l’export, quando anche la domanda interna si metterà in moto, occorreranno impieghi con le stesse caratteristiche finora evidenziate. 

Questa tendenza fa emergere il Job acts un tantino più in alto degli altri strumenti che sono stati messi in campo per sterzare dalla crisi perenne. Lo rende più interessante il fatto che la legge ha interrotto un’abitudine più che ventennale che la portava ad essere il veicolo maggiormente usato per fare piccoli aggiustamenti nel recinto del mercato del lavoro. Il cambiamento che ha introdotto non è la solita normetta che emenda questo o quell’aspetto della legislazione. Il cambiamento è sistemico, anche se non inglobante. Tende a ridurre le precarietà tradizionali; quanto alla maggiore flessibilità in uscita prevista, essa è meno anarchica di quanto si è voluto far credere. La nuova normativa non impedisce che quella flessibilità possa essere condizionata da future intese tra le parti sociali. 

Sono questi gli  aspetti che incidono di più sulla propensione ad assumere, anche se la ripresa è tiepida. Infatti, non mancano le incognite. La prima riguarda lo spessore delle prospettive di sviluppo. La frenata della Cina, la crisi brasiliana, il pesante clima politico che aleggia su tutti per le tante zone di guerra attorno al Mediterraneo per il momento non sovrastano le buone notizie che giungono dagli Stati Uniti, dalla stessa Europa (a meno che la Volkwagen mini la credibilità di tutti), dal resto dell’Asia. Ma la prudenza prevarrà ancora e non consentirà di osare come si dovrebbe.

La seconda incognita riguarda il rapporto tra Jobs act e comportamenti della Magistratura. Il tempo è ancora troppo breve per comprendere quanta conflittualità verrà messa in campo e quali interpretazioni emergeranno come prevalenti. Ma non vi è dubbio che ci saranno ambienti sociali e politici che, senza fare affidamento su eventuali referendum abrogativi, riterranno più agevole il ricorso alla Magistratura per depotenziare quella legge. Su questa istituzione grava la responsabilità di giudicare senza la voglia di giustiziare. Di facilitare il dialogo fra le parti sociali, piuttosto che sostituirsi ad esse. Di tutelare il singolo lavoratore, senza fargli fare la parte della cavia con la quale sperimentare interpretazioni che richiamano altre interpretazioni, semmai a livelli sempre più alti della scala giudiziaria.

La terza incognita attiene all’atteggiamento del sindacato. Se al di là della vis polemica che ha accompagnato tutto l’iter legislativo, si assumesse il meglio del Jobs act – la riduzione dell’area della precarietà –  come punto di partenza per allargare la rappresentanza e le rivendicazioni, si potrebbe azzardare la previsione di una ripresa significativa dell’iniziativa sindacale, meglio se all’insegna di una rinnovata unità. Il condizionale è d’obbligo, perché quel punto di partenza non è ancora patrimonio comune (basta vedere l’impasse sulla riforma della contrattazione) e le logiche identitarie sembrano essere ancora egemoniche nelle valutazioni di convenienza nelle singole confederazioni.

In definitiva, il Jobs act non è il vangelo. Anzi, non si sostituisce al protagonismo delle parti sociali. Semmai lo sollecita. Anche perché i vuoti non esistono mai. Se non c’è qualcuno che li riempie, prima o poi arriverà un altro a farlo e nel caso specifico o l’iniziativa del legislatore o quella dell’impresa, dell’ente, della Pubblica Amministrazione. Il sindacato ha l’occasione per anticipare le mosse degli altri. 

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