E’ stato assegnato un Nobel per la pace che è anche un inno al ruolo della società civile organizzata. I quattro tunisini premiati sono certamente personalità di grande spicco di quel Paese che ha dato il via alle primavere arabe. Sono indiscutibilmente prestigiosi interpreti della granitica volontà della parte migliore della società tunisina di tutelare la libertà civile e politica oltre che la coesistenza interreligiosa, nonostante l’assalto ad esse da parte dell’estremismo islamico. Ma sono soprattutto carismatici leader di associazioni, espressioni della società civile, che hanno costantemente privilegiato l’interesse nazionale alle loro esigenze di rappresentanza.
Tutti i mass media e i governanti di molti Paesi hanno sottolineato positivamente la scelta dei giurati di Oslo. Ad essa, va accostato il conferimento del Nobel alla letteratura alla ucraina Svetlana Aleksievic che marca la propensione della scrittrice a narrare l’attualità (nello specifico l’impegno per le libertà in Russia) e non la creatività fantasiosa e del Nobel all’economia allo scozzese Angus Deaton, studioso del welfare e della povertà. Emerge un filone interpretativo del Premio Nobel nient’affatto asettico, ma anzi carico di speranze, in un mondo attraversato da minacciosi segnali di estremismi oltre che di guerre che da locali tendono a diventare sempre più estese.
La tenacia di Wided Bouchamaoui (presidente della confederazione dell’industria e del commercio), di Houcine Abassi (segretario del sindacato UGTT), di Abdessattar ben Moussa (presidente della lega dei diritti umani) e di Mohammed Fadhel Mahmoud (presidente dell’ordine degli avvocati) ha consentito che tanto il partito Ennahda, prossimo ai Fratelli mussulmani, che la forza politica più moderata e laica Nidaa Tunis (vincitrice delle elezioni) riuscissero a formare, con altri partiti minori di sinistra, un Governo di unità nazionale. Questa alleanza si sta dimostrando un’utile baluardo al rischio di dissipazione della “rivoluzione dei gelsomini” e soprattutto alle pretese disgregatrici e bellicose dell’Is. Sono ancora nella memoria di tutti gli attentati al Museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse.
La premiazione del “quartetto” è un messaggio preciso: il dialogo paga. I 4 misero d’accordo, con i loro argomenti ma soprattutto con le loro manifestazioni unitarie, ben 21 partiti tra loro divisissimi. Una cucitura di un tessuto sociale sottile, facile alla lacerazione ma che è stato tenuto assieme da un comune sentire sociale, da una matura solidarietà interreligiosa e da un’inedita coesione intergenerazionale, per cui la spinta dei giovani per la libertà è stata assecondata dai più anziani. Soltanto così, con la guida delle organizzazioni più rappresentative della società civile che hanno mantenuto la loro autonomia, lo scorso dicembre si sono potute tenere le prime elezioni democratiche in Tunisia.
Quel messaggio sul dialogo arriva fino a noi. Paga soltanto nell’emergenza, semmai la più drammatica? Anche in Italia è stato sperimentato un ruolo decisivo delle organizzazioni della società civile quando il sistema politico non era in grado di esprimere leadership. Soprattutto le organizzazioni degli imprenditori e dei lavoratori si distinsero per capacità di trovare il bandolo di una matassa che la politica faceva fatica a districare. Nei primi anni ottanta, l’inflazione galoppante e il terrorismo nostrano e un decennio dopo, ”Mani pulite” e la crisi economica non provocarono un caos indomabile soltanto perché dalla società civile vi fu una crescita di senso di responsabilità che metteva da parte le ragioni identitarie delle organizzazioni di massa ed esaltava le sensibilità per la comune ricerca delle soluzioni ai tanti problemi mai risolti.
Si sa come andarono gli eventi. In pochi anni, si uscì dall’emergenza. Ma si uscì anche dal clima di solidarietà che aveva reso possibile il ritorno alla crescita sociale ed economica. Il dialogo, come condizione del vivere normale, non sembrò più pagante. Eppure, i partiti non ripresero l’egemonia della rappresentanza, mentre l’unità sindacale perse vigore e il confronto con gli imprenditori ed i Governi di turno si disperse in riti estenuanti quanto insignificanti. Dopo 15 anni, si può ben dire che forse non ci sono stati dei vinti, ma certamente non ci sono stati vincitori. E la società ne esce più lacerata, certamente frastornata, sicuramente meno felice.
Sarebbe tanto utile ed interessante ritornare a ragionare sulle convenienze del dialogo. Che, come dimostrano i Magnifici 4, non è una tecnicalità, ma una scelta. Non è un bilancino che misura l’equilibrio tra le singole convenienze, ma la sede della costruzione di un interesse più alto. Non è un braccio di ferro, è piuttosto un abbraccio poco sentimentale ma con molto valore aggiunto. Non è la cura per una stagione eccezionale e semmai tragica, ma la ricetta di una convivenza nuova che varrebbe prolungare nel tempo.