Una scelta di fondo apprezzabile.
Per comprendere la prospettiva indicata dalla legge 107 di quest’anno, chiamata della “Buona scuola”, occorre ricordare che tre sono in sintesi le proposte per uscire dalla crisi di questa istituzione: restaurazione del rigorismo precedente agli anni ’60, addestramento tecnologico o surfismo mediatico, cultura come arricchimento della vita personale e sociale.
È apprezzabile che la legge dichiari di voler perseguire questa terza strada, realizzando “una scuola aperta, quale laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione e innovazione didattica, di partecipazione e di educazione alla cittadinanza attiva”; ciò indica una chiara direzione educativa e culturale, che supera l’idea ristretta di istruzione e pone la scuola come attore del risveglio della società post crisi.
L’espressione “aperta” segnala la necessità di prendere definitivamente le distanze dalla visione di “cittadella assediata” entro una società avversa, così come viene rappresentata da una parte dei docenti; inoltre il termine “laboratorio” indica il passaggio da una scuola inerte al primato della mobilitazione degli studenti intesi come protagonisti della vita culturale nella scuola e nel territorio.
Ciò è confermato dal rilievo posto sull’alternanza scuola‐lavoro nel secondo ciclo di istruzione, resa obbligatoria per un valore di 400 ore complessive nel triennio finale degli istituti tecnici e professionali e di 200 per i licei, sostenuta anche attraverso il registro nazionale per l’alternanza scuola‐lavoro affidato alle Camere di commercio.
Tre condizioni
Per realizzare questo disegno servono però tre condizioni, che rappresentano anche i criteri per un giudizio meditato sulla capacità della legge di delineare un cammino efficace di rinnovamento della scuola:
1) Protagonismo degli allievi: servono misure adeguate per accrescere la partecipazione attiva degli allievi, svincolandosi da una didattica ancora troppo centrata sul trasferimento di nozioni ed abilità isolate dal contesto e molto poco sull’acquisizione autonoma ed attiva di conoscenze e competenze capaci di arricchire il “curricolo per la vita” dei nostri giovani. La legge introduce elementi interessanti: riduzione del numero massimo delle classi, possibilità di articolarle in sottogruppi e di fornire una formazione individualizzata, potenziamento della formula del laboratorio, didattica digitale, incremento dell’alternanza scuola‐lavoro nel secondo ciclo, attività opzionali e curricolo dello studente da valorizzare durante l’esame di stato, dispositivi di premialità del merito.
2) Flessibilità organizzativa, logistica e delle risorse umane, passaggio decisivo al fine di rompere la configurazione della scuola come “catena di montaggio” dell’istruzione, residuo della società industriale, e sviluppare percorsi formativi centrati sulle tappe di crescita degli allievi, realizzate alternando in modo intelligente l’aula, il laboratorio interno e l’esperienza formativa esterna all’istituto. Anche la leva organizzativa risulta tra gli obiettivi del legislatore, orientata alla massima flessibilità, diversificazione, efficienza ed efficacia del servizio scolastico, integrazione e miglior utilizzo delle risorse e delle strutture. Sia il tema del protagonismo degli allievi sia la flessibilità organizzativa sono legati però alla piena attuazione dell’organico funzionale, una sfida i cui esiti risultano quanto mai incerti.
3) Formazione del personale, da realizzarsi non più tramite corsi generici, ma con il metodo dell’accompagnamento “in situazione” delle scuole singole o associate in rete, fornendo inoltre tutte le necessarie risorse di supporto quali modelli, esempi e buone pratiche. Vale a dire tutto ciò che è decisamente mancato nelle riforme precedenti, vera chiave del successo dell’attuale.
Nella legge si parla soprattutto di formazione iniziale dei docenti, mentre per la formazione in servizio si afferma solo che gli Uffici scolastici provinciali debbono organizzare accordi di rete tra istituzioni scolastiche del medesimo ambito territoriale per la formazione del personale, senza oneri aggiuntivi. Si afferma la formazione in servizio obbligatoria con la “formation card”, ma tutto ciò è rinviato ad un futuro decreto attuativo.
Un approccio promozionale leggero: «datevi da fare!»
Ma quale impianto sostiene la realizzazione del cambiamento indicato? Il Ministero indica le mete e predispone alcune misure, mentre si affida alla capacità di mobilitazione generale delle risorse dell’autonomia della scuola, da sottoporre alla valutazione del sistema tecnico e degli stakeholder (vedi l’autovalutazione).
Per attuare quanto indicato si punta ad un documento chiave, il Piano triennale dell’offerta formativa, finalizzato all’apertura della comunità scolastica al territorio con il pieno coinvolgimento delle istituzioni e delle realtà locali. Tutti i docenti concorrono alla definizione dei tale documento assumendo un ampio ventaglio di compiti: insegnamento, potenziamento, sostegno, organizzazione, progettazione e coordinamento. Si delinea così un ampliamento delle loro competenze al di là della sola funzione docente.
Ma nel momento in cui dovrebbe assumere decisioni importanti riguardo agli snodi fondamentali del modello di scuola inerte da smantellare per liberare la “buona scuola”, come la riduzione ed accorpamento delle classi di insegnamento, la gestione flessibile dell’orario, la ridefinizione della figura di insegnante, il Ministero salta a piè pari le proprie responsabilità e si appella all’autonomia delle istituzioni scolastiche.
In realtà, l’autonomia della scuola consiste nella possibilità di assumere decisioni in merito agli insegnamenti e alle attività curricolari, extracurricolari, educative e organizzative, oltre che alle risorse materiali e di personale. Piuttosto, la legge sembra riporre tutte le speranze di riuscita del disegno così tratteggiato nell’attuazione dell’organico funzionale, un meccanismo che in realtà si è già rilevato più un problema che un’opportunità a causa del suo meccanismo rigido ed impersonale, quando invece servirebbe selezionare il personale che condivida realmente le linee e lo spirito del piano triennale e sia concretamente disponibile ad assumersi l’impegno di attuarlo entro un disegno comune. Come è possibile coinvolgere il personale su un disegno progettuale così ampio in un contesto in cui il contenuto quasi esclusivo degli incarichi, e della sua preparazione, è costituito dalla docenza?
Emerge non tanto un disegno chiaro e coerente, quanto un tentativo un po’ volontaristico di mobilitazione delle risorse delle scuole e dei loro partner più sensibili, senza toccare il nodo decisivo della gestione del personale sul piano contrattuale e formativo, senza un vero modello di “buona scuola” come quadro di riferimento dell’intera opera di rinnovamento, senza una diversa governance rispetto all’uso delle risorse umane, finanziarie e materiali.
Si coglie un clamoroso scarto tra la proposta della legge e l’attuale situazione del sistema educativo: si ritiene che il “mestiere della scuola” sia modificabile con strumenti che pensano alla scuola più come una struttura economica che come una comunità. Si veda la rilevazione “reputazionale” da parte di studenti e genitori, la valutazione dell’efficacia protratta nel tempo (ITS, università e lavoro), la rendicontazione pubblica del Rapporto di autovalutazione e del Piano di miglioramento di ogni istituto, un timido inizio di accesso premiale ai progetti…
In sostanza, si nota un’eccessiva fiducia nei sistemi tecnici, piuttosto che sulle forze vitali della scuola.
Un nuovo movimento educativo
C’è una domanda, riferita alla lunghissima fase di transizione che sta vivendo la scuola italiana, che pone in luce il reale problema intorno a cui questa si dibatte: perché le buone pratiche spariscono? come farle permanere?
Per rispondere utilizziamo la metafora del sarto: oramai da tempo si sta cercando di realizzare il nuovo mettendo delle pezze sul vestito vecchio, vale a dire l’apparato burocratico, amministrativo ed organizzativo che è rimasto pressoché uguale a se stesso in barba a tutte le riforme intentate da quasi vent’anni a questa parte.
In buona sostanza, è mancata l’istituzione, fisica e simbolica, della «buona scuola», realizzata rimuovendo il rigido apparato del passato così da liberare le enormi risorse umane ed intellettuali di cui questa istituzione dispone e che vanno orientate nella nuova direzione della “svolta culturale e sociale” finalizzata ad inserire positivamente i giovani nel reale e ad animare la vita comune nel territorio.
Anche per questo gli insegnanti si trovano in una condizione di estremo disagio per la delusione circa i frutti del proprio lavoro e perché non vedono riconosciuti i propri sforzi; non basta prescrivere un metodo di lavoro nuovo, serve un rito collettivo di istituzione della nuova scuola, capace di fare del suo compito un tema di rilievo tra la pubblica opinione, così da sollecitare una reputazione ed un ethos capaci di restituire agli insegnanti non solo la funzionalità, ma anche la dignità e la soddisfazione del loro lavoro. Va conquistato nuovamente il senso dell’onore proprio di chi si dedica all’umanità dei ragazzi. C’è un deficit di “incantamento” che contribuisca a rendere avvincente l’opera educativa e che si può colmare rimettendo la scuola al centro della responsabilità dell’intera comunità.
Le buone pratiche si dissolvono perché non sono espressione della normalità quotidiana del fare scuola, ma risultano frenate dal loro carattere straordinario.
Questa ennesima riforma rischia l’ininfluenza se le scuole rispondono realizzando diligentemente il proprio “compitino” burocratico organizzativo o se si disperde in una frammentazione di interventi che non farebbero altro che aumentare l’attuale disordine.
Serve un disegno ordinario di gestione della scuola come organizzazione «in movimento», che apprende continuamente dalle proprie pratiche e riprogetta se stessa così da qualificare passo passo la propria opera a favore delle tre comunità che disegnano lo spazio dell’educazione: classe, istituto, territorio, nella prospettiva della learning organization.
L’autoriforma
Spetta alle scuole porre mano ad una vera e propria auto-riforma come mobilitazione educativa ordinaria, sulla base non più di fragili reti, ma di vere e proprie alleanze stabili tra scuole, associazioni ed enti, unendo le forze per consentire un incontro vivo dei giovani con la ricchezza della tradizione e l’attualità; affinché, tramite curricoli essenziali e “gustosi” legati a compiti di realtà significativi ed utili, essi possano inserirsi positivamente nel reale, imparando il «lavoro» della cultura che consiste nel connettere il passato ed il futuro accrescendo l’amore per la vita.
Serve una progettazione viva, dotata di un’anima, unitaria, globale, progressiva, partecipata, che si svolge nella modalità della come ricerca-azione, sostenuta da un accompagnamento formativo stabile interno ed esterno, uno strumento di riflessione e guida dell’intera scuola. Ma occorre riconoscere onestamente che questo modo di progettare è ben lungi dall’essere lo stile proprio delle nostre istituzioni scolastiche specie quelle secondarie, come pure non appare adeguatamente diffuso un metodo di lavoro che pone al centro della vita della scuola non il trasferimento meccanico di discipline inerti, ma la conquista attiva della cultura da parte degli studenti protesi verso la comunità che vive nel territorio di riferimento.
La riforma della scuola intesa come nuova istituzione si compie dal basso, ma ha bisogno di un avvio che segni il superamento della vecchia configurazione e mobiliti le risorse buone per l’educazione dei giovani; in definitiva, occ una reale autonomia ed un quadro di riferimento sufficientemente chiaro anche dal punto di vista organizzativo e gestionale.
Le singole scuole sono un soggetto troppo debole per sostenere da sole il movimento dell’autoriforma; sono piuttosto le alleanze tra scuole e soggetti del territorio gli attori istitutivi della «buona scuola», capaci di guidarne i fattori organizzativi, metodologici e simbolici, anche con opportuni accordi con il Miur per concordare l’ampliamento dell’autonomia e la riduzione dei troppi vincoli che ancora gravano in modo crescente su questa realtà.
Serve un modo di procedere inedito, adeguato al cambiamento che si vuole perseguire, da delineare tramite un lavoro insieme culturale ed organizzativo, ancorato alle esperienze reali di istituzione della buona scuola.
(*) Docente incaricato di Sociologia economica, del lavoro e dell’organizzazione presso l’Università Cattolica di Brescia