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Un provvedimento un po’ liberista e un po’ elettoralistico

Impresa ardua, tentare di definire la qualità politica della manovra di bilancio 2016 del governo Renzi. Se prende piede l’idea che la distinzione di fondo tra destra e sinistra stia venendo meno, con quali parametri si può giudicarla? 

Innovazione versus conservazione è la coppia alternativa, secondo alcuni. È in effetti una discriminante che ha vissuto momenti di gloria, per una lunga stagione: quella in cui alla destra riusciva l’impresa di smantellare storiche conquiste della socialdemocrazia in occidente. In questa opera aveva avuto successo facendo leva sugli “animal spirits”, di cui un’economia di mercato ha bisogno vitale. Ma col tempo, man mano che si accumulavano le failures che il nuovo ordine portava con sé, il racconto del Paese dei Balocchi ha perso ogni capacità di sedurre la fantasia popolare. È stato smentito dalla cruda realtà della crisi. 

Ci si è accorti, piuttosto, che il nuovo era solo la ripetizione pedissequa di errori storici, che l’esperienza del passato doveva seppellire e che invece la perdita di memoria prodotta dagli affabulatori aveva consentito di riesumare. Di conseguenza, il nuovo ha perso ogni connotazione di per sé positiva e quella coppia si è ridotta a pura descrizione di un ordine cronologico privo di qualunque valore esplicativo o, men che meno, valutativo.

Non è un buon segno, per questo, che si continui ad assumere le categoria del nuovo nel nostro paese. Così come non lo è la constatazione che, da noi, l’idea della fine della distinzione tra destra e sinistra trovi accoglienza anche nella sinistra e anzi pesi non poco sul dibattito sulle sue sorti future. Non perché la tesi non trovi sostenitori, in giro per il mondo, ma perché si dà per scontato che rientri tra i tratti caratteristici del pensiero politico di destra. 

D’altra parte ci si deve pur fare una ragione di questa anomalia visto che va a braccetto con l’altra di cui deteniamo l’esclusiva. Quella per cui il centro, da espressione riferita alla parte più mobile e meno inquadrata nei due schieramenti fondamentali, è passato a rappresentare esso stesso uno schieramento. Anzi, lo schieramento per antonomasia, il luogo di realizzazione della Politica con la maiuscola, quella con il pilota automatico, quella delle euroburocrazie, o del pensiero dominante, o dei “poteri forti”. Insomma, quella senza alternative. Quella delle larghe intese. Quella che, in Italia, da Monti in poi ha ufficialmente estromesso la dialettica destra sinistra dal quadro istituzionale, inteso come Parlamento e governo. 

Se altrove si concepiscono, sì, grandi coalizioni, ma attraverso faticose trattative e complesse mediazioni tra programmi contrastanti o comunque largamente alternativi, da noi i contenuti sfumano sullo sfondo e i programmi elettorali vengono rimossi dalla memoria collettiva. Gli ultimi di cui gli elettori abbiano sentito parlare (nelle poche settimane di una campagna elettorale) sembrano risalire non a due anni fa ma a un’altra era geologica. I soli schemi che vengono adottati per dare conto della dialettica parlamentare sono rigorosamente autoreferenziali, basati sulla collocazione dei parlamentari negli schieramenti (termine che si potrebbe sostituire con scranni, senza alterare granché il senso).  

Eppure la dialettica tra destra e sinistra nella sua evoluzione (perché è ovvio che non sia sempre uguale a se stessa)  è ciò che dà un senso alla politica. Ne abbiamo una riprova nella stretta correlazione tra i due fenomeni, perdita di senso della distinzione e perdita di appeal della politica.

Questa premessa serve a fornire una giustificazione per un esercizio – indagare attorno al colore politico della legge di stabilità – che corre seri rischi di essere considerato vano, astruso o, perfino, ostile nei confronti del pensiero mainstream e quindi della politica del governo che di quel pensiero si nutre (e ne fa vanto). Senonché è stato per primo il Presidente del Consiglio a voler issare con orgoglio su quella legge la bandiera della sinistra. Anzi, della “manovra più di sinistra che sia mai stata concepita nell’Italia repubblicana”. Parliamone, allora.  

Se Giorgio Gaber nella famosa canzone su destra e sinistra avesse inserito anche la politica di bilancio, è facile immaginare che la spesa in deficit sarebbe finita tra le cose di sinistra e il pareggio tra quelle di destra: a fare compagnia a “meno tasse”, mentre a sinistra avremmo trovato “più welfare”. Il premier, che adotta uno stile di comunicazione “cinguettante” basato sulle semplificazioni, avendo bisogno di accreditare un’immagine di sé di sinistra (per recuperare un consenso che su quel versante è in netto calo) ha confezionato una “narrazione” sulla legge di stabilità 2016 che ricalca lo schema alla Gaber. Ma ha dovuto compiere qualche acrobazia. 

E’ una manovra di sinistra, ha sostenuto. Perché sforiamo il tetto del deficit senza farci imporre dalla Germania e dai burocrati UE la linea dell’austerità (e i tedeschi e gli eurotecnocrati non hanno gradito). E perché usiamo le risorse per sostenere le famiglie bisognose e i diciottenni che devono investire sul loro futuro. Quanto a diminuire le tasse, la destra nostrana non ha avuto dubbi sul segno politico della misura. Ma, ecco l’acrobazia di Renzi, alla sinistra si può comunque raccontare che è una cosa buona di per sé. A prescindere. Né destra né sinistra. Non scherzetto ma dolcetto. 

Funziona? E’ convincente questa lettura? Il dubbio è lecito ma, che lo sia o meno, il fatto è che lo schema è completamente falso. Deficit spending uguale a ricetta keynesiana? La legge di stabilità 2016 ha preso il largo (o, meglio, la via di Bruxelles) con un rapporto deficit/pil calcolato al 2,4%. Poiché il PIL nella più rosea delle previsioni crescerà a un tasso pari alla metà, è facile dedurne che qualche ulteriore masso andrà ad aggiungersi alla montagna del debito storico. 

Misura anti-ciclica e anti-recessiva? Certo, se le risorse eccedenti sono impiegate per produrre una dinamica del PIL che consenta di recuperare lo squilibrio nei conti e di riuscirci in un periodo abbastanza breve (per il lungo periodo Keynes consigliava piuttosto gli scongiuri). Perché, se le cose stanno altrimenti, peggiora le cose. Funziona, dunque, se produce effetti positivi sulla dinamica del prodotto nazionale. Se, cioè, serve a incentivare gli investimenti (quelli in grado di aumentare l’efficienza del sistema produttivo) e a tonificare la domanda (sostenendo i percettori di reddito con maggiore propensione al consumo). 

La spesa per assistenza avrebbe quest’ultimo effetto: ma quella prevista nella legge è un’inezia (del resto non sostiene un diritto, ma rappresenta un’elargizione) ed è accompagnata da riduzioni molto più consistenti della spesa per il welfare. Per il resto, l’abolizione di una tassa come la TASI, al pari del bonus 80 euro, è una misura a vantaggio di una platea indifferenziata in cui la propensione al consumo è assai variabile e, stando agli effetti sulla domanda interna, mediamente bassa. Senza contare la distorsione rappresentata da un alleggerimento del peso dell’imposizione su un bene patrimoniale come la casa, che comporta, a parità di gettito, un parallelo aumento del peso di quella sui redditi.

Quanto a incentivi destinati a chi investe sull’innovazione e sull’aumento di competitività, gli aiuti alle imprese sono stati cospicui, fino all’ultima costosissima elargizione degli 8.000 euro in tre anni per chi assume a tempo indeterminato (da marzo scorso con il nuovo contratto che non prevede tutela dai licenziamenti arbitrari). Ma non sono soggetti ad alcun vincolo selettivo, avendo quindi il solo effetto di migliorare i conti aziendali. Portando sui conti pubblici l’aggravio non irrilevante di circa 10 miliardi in tre anni (senza contare il peso della misura dal 2016 in poi, alleggerita ma non abolita). Nel solo 2015, i rapporti di lavoro incentivati sono stati ben 1,15 milioni, a cui è corrisposto però un incremento dell’occupazione permanente (sgravata dell’onere dell’articolo 18) inferiore alle 100.000 unità: a conti fatti, circa 100.000 € di contributo a carico dell’erario per ogni posto di lavoro aggiuntivo a tempo indeterminato (ma privo di “tutela reale dai licenziamenti).

Quale sia l’ideologia alla base di queste misure lo ha spiegato bene il Ministro Padoan. Per la ripresa economica la ricetta è semplice: fornire condizioni favorevoli agli imprenditori. Meno vincoli (amministrativi, ambientali), meno costi (del lavoro), meno tasse. Una ricetta di sinistra?

Si dà il caso che questa versione (perfino un po’ hard) del liberismo economico oltre ad essere di destra è anche del tutto inefficiente quanto a capacità di dare impulso all’economia. Condanna a una progressiva perdita di competitività, a una stagnazione dei consumi, a un deterioramento della qualità della vita associata, oltre che a una crescita delle diseguaglianze: di sapere, di potere e di reddito (per dirla con Massimo L. Salvadori).

Stiamo parlando dunque di una versione del liberismo a cui, nel mondo, si aggiungerebbe senza difficoltà il “turbo” come etichetta distintiva. A questa si affianca, in effetti, una politica di sostegno alla spesa delle famiglie, finanziata anch’essa in deficit. Ma il target è selezionato, anziché in base a criteri di reddito o di condizione sociale, a un criterio di consenso elettorale. Che esclude perciò le fasce a più basso reddito in quanto caratterizzate da un progressivo allontanamento dalla politica (la protesta “con i piedi” che porta alla crescita dell’astensione): ricordate il commento di Renzi al crollo della partecipazione nelle elezioni regionali emiliane? “Meglio perdere votanti che voti.”

Parliamo dunque di una politica a cui, secondo uno schema concettuale classico, verrebbe attribuita senz’altro l’etichetta di destra populista. Come non ha mancato di fare lo stesso presidente dei popolari europei, Manfred Webber, che si colloca, sì, a destra ma in una parte che non ama essere confusa con l’ala populista.

Per tornare al tema iniziale, ci si dovrebbe domandare in fin dei conti se davvero la politica “della Nazione”, quella senza opposizione (che non sia quella dei gufi), non possa trovare un’alternativa, che non sia né iperliberista, né populista, ma che più in generale si collochi fuori dal recinto concettuale della destra. Un’alternativa che peraltro si imporrebbe con urgenza, considerata la gravità della situazione socio-economica. Che la destra, anche quella cosiddetta moderata che ora prende le distanze dalle furbizie dialettiche di Renzi, non solo non ha saputo contrastare ma porta la principale responsabilità nell’averla determinata.

Ovvio che un’alternativa esiste. Soluzioni di politica fiscale e ambientale. Di sviluppo (sostenibile) e di welfare. Di ampliamento della sfera dei diritti, di tutela della libertà e dell’integrità personale, di affermazione dello stato di diritto (uguaglianza di fronte alla legge). Ce ne sono da riempire biblioteche; e possono vantare qualche successo, non solo nella storia passata ma anche nei paesi dove sono riuscite a far presa sull’elettorato. 

Qui sta certamente un problema chiave. È diffusa, non a torto, la convinzione che il problema stia nella difficoltà di raccogliere consenso per queste ricette tra i cittadini. Sarà però il caso di cominciare a riflettere sulla circostanza non secondaria, almeno nel nostro paese, che si fa fatica a rintracciare una leva di politici disposti a mettersi al servizio di questa causa, con la convinzione e con la determinazione che sarebbe richiesta.

 

 (*) Ricercatore ISPE, dirigente della CGIL, e fino al 2010 direttore generale ISFOL

 

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