È comprensibile che i governi cerchino di valorizzare la propria attività e di presentare in termini positivi la situazione. Si tratta di creare fiducia ed è un comportamento quasi doveroso. Tuttavia, se la rappresentazione è troppo distante dalla realtà il rischio di contraccolpi, anche di consenso, è notevole.
Prendiamo il caso italiano. Dopo la Grecia e Cipro, l’Italia è il Paese che è stato maggiormente colpito dalla grande crisi 2007-14: il Pil si è ridotto del 9-10%; il Pil pro capite del 10% riportandoci ai livelli del 1996; il reddito disponibile si è ridotto del 5%, i consumi dell’8%; gli investimenti sono crollati di oltre 30 punti, così come la produzione manifatturiera; la disoccupazione ha raggiunto il 13%, mentre la riduzione attuale è fortemente influenzata dagli incentivi governativi, costosi e transitori; le esportazioni faticano nonostante la svalutazione dell’euro.
La ripresa è in corso, ma è lenta, con chiari segnali di riduzione; per il 2016 si prevede un +1,3% inferiore alla previsione governativa di +1,6%, e alla media europea. A differenza di altri Paesi l’Italia non ha sperimentato nessun rimbalzo dall’abisso in cui è precipitata. La ripresa è fragile, in parte alimentata dalle scorte, componente molto volatile, e per il 2016 non si potrà fare affidamento se non marginalmente su ulteriori svalutazioni, riduzione dei tassi di interesse, calo dei prezzi petroliferi. La deflazione frena i consumi e rallenta gli investimenti; le sofferenze bancarie ostacolano l’esercizio dell’attività creditizia. La crisi ha avuto effetti devastanti nel mezzogiorno: il Pil a -14%, consumi -13%; l’occupazione -19%; la disoccupazione ha raggiunto il 21%; gli investimenti manifatturieri sono crollati del 54%; il 12% delle famiglie si trova in condizioni di povertà assoluta…
In sintesi, 7 anni di crisi hanno profondamente cambiato il tessuto economico -sociale del Paese, modificando la propensione al consumo e agli investimenti di famiglie e imprese, allargando il gap di benessere tra l’Italia e la principali economie dell’eurozona, e mettendo a rischio il ruolo stesso dell’ Italia in Europa e nel mondo. A ciò si aggiungono problemi e ritardi strutturali di lunga data: bassa produttività del lavoro, bassi investimenti, in particolare in R&D, e quindi basso progresso tecnico; inefficienza del settore pubblico; alto tasso di illegalità (malavita, corruzione, evasione fiscale, ecc.) che a mio avviso rappresenta il problema principale. È con questo scenario che la politica economica del Paese dovrebbe fare i conti, collegando sapientemente interventi strutturali e politica congiunturale, e stimolando consapevolezza ed impegno su un programma pluriennale di recupero e riscatto e cercando su di esso il consenso.
Per quanto riguarda le politiche congiunturali, le scelte del Governo sembrano piuttosto orientata al perseguimento di un consenso di breve periodo, che non ad affrontare il problema di un cambiamento delle prospettive economiche a medio termine. Le risorse disponibili sono scarse. La crisi ha lasciato una eredità di debiti ulteriori che sono rappresentati in bilancio dalle “clausole di salvaguardia”. La priorità è assorbirle e smaltirle progressivamente.
Ma quando si fa questo si verifica che le risorse per politiche espansive si riducono fino a sparire. Per esempio nell’ultima legge di stabilità presentata in Parlamento, e prescindendo dalle modifiche apportate nel corso della discussione che non mutano il quadro di fondo, una volta eliminata la clausola di salvaguardia per il 2016 impegnando 17 mld circa, il quadro che emerge è il seguente: le spese sono previste in aumento per 4,9 mld e al tempo stesso vengono ridotte di 8,4 mld (spending review) con una riduzione netta di 3,5 mld. Le entrate si riducono di 7 mld in buona misura compensati da aumenti per 3,7 mld con un saldo di 3,3 mld. In sintesi, quindi, la manovra netta risulta composta da minori spese per 3,5 mld e minori imposte per 3,3 mld. Si tratta dello 0,2% del Pil. Pur tenendo conto delle variazioni nella composizione dei capitoli del bilancio, l’effetto espansivo effettivo della manovra risulta sostanzialmente inesistente.
Era possibile fare meglio?´La risposta è affermativa. Sarebbe stato necessario innanzitutto prendere atto che nella situazione italiana l’unica possibilità di riduzione delle tasse può derivare da un recupero di evasione fiscale: le proposte esistono, e la loro efficacia certificata. Si sarebbe liberato così circa un punto di Pil corrispondente alle risorse utilizzate per coprire le riduzioni decise negli ultimi due anni. I margini di flessibilità europea avrebbero dovuto essere utilizzati per assorbire e annullare le “clausole di salvaguardia” mentre tutte le risorse liberate e altre disponibili (risparmi sulla spesa per interessi, spending review, ecc.) dovevano essere indirizzate a spese di investimento che come è noto hanno un moltiplicatore elevato (da 1,5 a 3) mentre il moltiplicatore di una riduzione fiscale è 0,8.
I settori su cui intervenire non mancano: si va dalla ristrutturazione a fini di risparmio energetico degli edifici pubblici (che in parte potrebbe autofinanziarsi, e in parte utilizzare fondi europei), alla messa in sicurezza del territorio, al risanamento delle periferie urbane, alla banda larga. In questo modo crescerebbe il Pil, aumenterebbero l’occupazione e i consumi, il bilancio pubblico verrebbe messo in sicurezza, e si potrebbe ricominciare a programmare il futuro del Paese, pur all’interno dei margini stretti degli accordi europei. Questo approccio dovrebbe essere recuperato per il futuro. Inoltre dovrebbe essere proseguita la politica delle riforme strutturali ma individuando settori e modalità di intervento che possano dare un contributo positivo alla crescita di medio periodo, ben più della riforma del mercato del lavoro.
(*) da il Sole 24 ore 09/01/21016. Visco è un economista e politico, più volte Ministro della Repubblica.