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Espansiva, ma molto dipende dalla ripresa economica

Le basi e  la filosofia  della Legge di stabilità erano state costruite nella Nota di aggiornamento al DEF emanata dal Governo nell’autunno dello scorso anno.

L’impianto complessivo risultava molto chiaro dalle poche pagine contenute nell’allegato III della Nota e che riguardava la relazione al Parlamento redatta ai sensi dell’art. 6 della legge n. 243 del 2012.  Questa legge, come è noto, prevede che eventuali scostamenti dal saldo strutturale dell’obiettivo programmatico siano consentiti in caso di eventi eccezionali e previa autorizzazione del Parlamento. Con la Nota di aggiornamento il Governo intendeva apportare modifiche al piano di rientro. Infatti l’equilibrio di bilancio è stato spostato più avanti nel tempo: il pareggio in termini strutturali verrà raggiunto non nel 2017, bensì nel 2018.

Uno spostamento in avanti dell’equilibrio di bilancio significa in poche parole che si annuncia una politica fiscale più espansiva (o meno restrittiva) di quanto programmato in precedenza. Rispetto all’obiettivo prefissato nella legge di stabilità dello scorso anno, il Governo programma per il 2016 un deficit maggiore di 1 punto percentuale di PIL (che vale 17 miliardi).

Come si giustifica questo scostamento? 

Il Governo è convinto che per sostenere la ripresa in corso occorra affrontare “anche il tema della carenza di domanda aggregata” (sono queste le parole usate nel testo della Relazione al parlamento (pag. 5)). Il Governo è intenzionato a potenziare, con un’iniezione di domanda aggregata, gli effetti positivi delle riforme in atto. Le riforme sono necessarie per aumentare il potenziale della nostra economia, un potenziale che prima della “grande crisi” era cresciuto troppo poco e dopo la crisi, è caduto in modo consistente. Ma aumentare il potenziale non è sufficiente. Occorre anche rilanciare i consumi e gli investimenti, attraverso la riduzione del carico fiscale. Anche a costo, di aumentare, nel 2016, il deficit oltre i livelli precedentemente programmati. 

A questo scopo, viene rivendicata la “flessibilità” fiscale che spetta al nostro Paese sulla base delle norme scritte nei trattati europei.      

E’ chiaro che un percorso più lento per il rientro verso l’obiettivo programmatico presenta qualche rischio ed è per questo che l’impianto della manovra deve esser convincente e tale da persuadere non solo le autorità dell’Euro, ma gli stessi mercati finanziari, che lo spostamento in avanti dell’obiettivo di medio termine, può risultare alla fine più vantaggioso dal punto di vista del contenimento del debito pubblico nel lungo periodo. Questo succederà se gli interventi che il Governo e il Parlamento si apprestano a varare saranno in grado non solo di alzare il reddito potenziale, ma anche di chiudere più velocemente la distanza tra questo e il PIL effettivo (il cosiddetto “output gap”).

Va ricordato, a questo proposito che il reddito potenziale ha subito in questi anni una caduta che, per quanto consistente, non è stata così forte come viene calcolata in sede tecnica Europea. E’ interessante osservare come il Governo, nell’allegato alla Nota, calcola (sia pure in modo approssimato) una caduta del reddito effettivo rispetto a quello tendenziale pre-crisi di ben 20 punti percentuali, mentre in sede tecnica europea si calcola una caduta di soli 4 punti percentuali. La Commissione cioè calcola che il nostro reddito potenziale sia caduto molto di più rispetto ai valori corrispondenti ad un semplice trend estrapolato dai dati pre-crisi. In questo modo la misura della Comunità si avvicina ai valori storici del reddito effettivo e da qui nasce una misura più contenuta da parte della Commissione dell’“output gap”. 

La differenza tra il calcolo della Commissione e il calcolo, contenuto nella Nota di aggiornamento   della distanza tra reddito effettivo e reddito potenziale è enorme ed è questo il motivo per cui nell’allegato che contiene la relazione al parlamento si dice: “Il Governo si è pertanto adoperato in sede tecnica per l’adozione di metodologie di calcolo del prodotto potenziale più flessibili”.  Il motivo è chiaro: un reddito potenziale più basso significa che anche l’”output gap” e quindi la componente ciclica del saldo di bilancio sono più ridotti. Al contempo, risulta più alta la componente strutturale del deficit strutturale che rappresenta l’Obiettivo di Medio Termine (MTO). Una più alta componente strutturale significa rende il MTO più difficile da raggiungere. E questo mette in difficoltà il nostro Paese che è costretto ad essere rigoroso ancor più del dovuto per contenere i conti pubblici. 

Talvolta dalla soluzione di problemi tecnici (che spesso sono opinabili e si prestano a rilievi sempre di carattere tecnico) discendono conseguenze molto importanti sui vincoli che vengono posti ai conti pubblici dei paesi “stressati” come il nostro. Fa bene quindi il nostro Governo a porre la questione nelle sedi opportune per evitare che dalle soluzioni tecniche discendano raccomandazioni al nostro Paese di dosi ulteriori e improprie di “austerity”.

In definitiva la filosofia cui si ispira la Legge di Stabilità è questa: spostare in avanti di un anno l’obiettivo di pareggio di bilancio strutturale, attraverso l’utilizzo della flessibilità fiscale nella misura di un ulteriore 0.6 per cento di PIL (0.1 per le riforme, 0.3 per gli investimenti e un ulteriore 0.2 per sicurezza e immigrazione). Questo 0.6 si aggiunge allo 0.4 di flessibilità già concessa dall’Europa nella primavera scorsa, come apprezzamento delle riforme messe in campo. In totale si tratta di un punto percentuale di PIL: questa è la misura complessiva del “maggior” deficit che il nostro Governo ha realizzato con la Legge di Stabilità. E’ il massimo che si poteva fare e si tratta di vedere se la Commissione nell’esame di primavera dei nostri conti pubblici dara il via libera.

Il maggior deficit, però, non deve essere considerato come un incidente sul cammino di consolidamento dei conti pubblici. Una più veloce chiusura dell’”output gap” (che probabilmente è più elevato di quanto calcola la Commissione), accompagnata da un recupero di reddito potenziale (reso possibile dalle riforme in atto) rappresenta la condizione essenziale per risalire più velocemente la china  e realizzare l’equilibrio dei conti pubblici ad un livello di benessere più elevato.

Il giudizio complessivo sulle caratteristiche macroeconomiche della Legge di Stabilità è quindi positivo, anche se è evidente che la manovra sottostante ha un carattere espansivo limitato. Infatti si deve ricordare che metà della manovra (circa 17 miliardi) consiste nel compensare e in parte rinviare l’aumento delle entrate previste dalle clausole di salvaguardia. Qualcuno ha sostenuto che questa parte della manovra non produrrà nessun effetto concreto sulla domanda aggregata in quanto gli operatori si aspettavano già che il Governo avrebbe annullato, almeno per quest’anno, l’applicazione di quelle clausole. E per questa ragione i loro comportamenti in termini di consumi e investimenti non dovrebbero essere modificati dal rinvio delle clausole.

Tutto giusto, però il fatto che gli operatori e in particolare le famiglie non sperimentino di fatto nessun aumento del potere di acquisto e nessun beneficio aggiuntivo, non può essere un argomento per banalizzare la decisione di lasciare le clausole inapplicate. Infatti cosa sarebbe successo se il Governo, per rispettare l’equilibrio di medio termine dei conti pubblici, avesse applicato le clausole e quindi avesse aumentato IVA e accise? La risposta a questa domanda è chiara: la debole ripresa economica sarebbe stata soffocata come “un bambino nella culla “.

In buona misura il merito del Governo è di aver evitato di fare una Legge di Stabilità che, per rispettare i vincoli comunitari, sarebbe stata decisamente restrittiva, con tutte le conseguenze negative sulla ripresa in corso. 

La legge di Stabilità si presta poi ad essere discusse sulla base della sua struttura, cioè degli interventi specifici in cui si articola e quindi della composizione delle entrate e delle uscite che compongono i risultati finali di bilancio. Su questo fronte la discussione tra le forze politiche è stata alquanto accesa. In questa sede mi limito a qualche commento sui più importanti capitoli che riguardano la composizione delle entrate e delle spese. 

Sono previsti aumenti e diminuzioni sia delle entrate che delle spese. Le minori entrate sono concentrate sull’abolizione della Tasi sulla prima casa. Si tratta di una componente importante di tutta la manovra, che ha fatto molto discutere, per il suo carattere “regressivo” poco ispirato a criteri di equità sociale. Anche la Commissione ha criticato la riduzione dell’imposta sulla casa, ma per considerazioni di carattere economico più che sociale. La Commissione ha sostenuto che dal punto di vista degli stimoli alla crescita, sarebbe stata preferibile una riduzione del cuneo fiscale. La riduzione della tassa sulla casa è stata giustificata dal Governo sulla base all’esigenza di rilancio del settore delle costruzioni e sulla base della necessaria iniezione di fiducia di cui le famiglie italiane hanno assolutamente bisogno, al fine di aumentare la loro propensione al consumo. Si tratta di argomenti che hanno, tutti indistintamente, qualche fondamento. Vi sono pro e contro e alla fine un giudizio definitivo è difficile da dare. Comunque il Governo ha mantenuto fede al suo programma di graduale riduzione del prelievo fiscale. Seguirà la riduzione dell’IRES nel 2017 e la riduzione dell’IRPEF nel 2018.  La riduzione della pressione fiscale è il terreno economico su cui il Governo ha deciso di essere valutato alla fine di questa legislatura.

Sempre sul versante della riduzione delle entrate va segnalata la ulteriore decontribuzione a favore delle assunzioni (con contratto a tutele crescenti) effettuate nei prossimi due anni. La decontribuzione è sta dimezzata rispetto a quella del 2015, ma sarebbe stato un errore non dare a quest’ultima una sia pur parziale continuità.   

 La “de-contribuzione”, insieme col “Jobs Act”, sta dando risultati positivi, stando ai dati amministrativi raccolti dall’INPS. I risultati non appaiono altrettanto chiari dai dati statistici forniti dall’Istat. Comunque si può dire che la politica del lavoro attuata dal Governo ha comportato un sostanziale cambiamento della composizione delle assunzioni, a favore di quelle con contratto a tempo indeterminato, determinando, in questo modo, una forte riduzione della cosiddetta “precarietà” costituita dalle “false “collaborazioni” e “partite IVA”. Si sta realizzando anche un discreto aumento dello stock complessivo di occupazione. La riduzione degli oneri sociali ha incentivato le aziende ad aumentare gli organici, oltre le presumibili necessità di breve periodo delle stesse imprese.

E’ opinione diffusa (confermata dalla storia passata) che il ciclo della occupazione segua con ritardo quello della produzione e della attività economica. In genere prima si aumenta la produzione (sfruttando gli orari di lavoro) e poi si aumenta l’occupazione. In questi mesi sembra che stia succedendo il contrario. Le imprese, grazie alla forte riduzione del cuneo fiscale sui nuovi assunti, stanno procedendo ad un potenziamento dell’organico “in vista” della futura ripresa economica. Tutto questo riveste un significato molto positivo. L’aumento dell’occupazione fa crescere il reddito disponibile delle famiglie e quindi i consumi e la domanda aggregata.

Sul versante delle spese vanno ricordate sia le riduzioni che gli aumenti. Sul versante delle riduzioni le critiche si sono concentrate su una certa “timidezza” del Governo nell’affrontare una più decisa “spending review”. Non è stato fatto comunque poco su questo versante: sia i Ministeri, sia le Regioni (anche con il mancato aumento del Fondo nazionale per la Sanità), sia gli enti locali, dovranno dare un contributo significativo alla riduzione della spesa. Altre partite sono rinviate agli anni prossimi e si va consolidando la convinzione che una seria “spending review” potrà essere messa in campo quando saranno pienamente funzionanti gli strumenti (come i costi standard) che permetteranno di colpire effettivamente gli sprechi. Per ora la riduzione della spesa pubblica è costretta ancora ad ispirarsi, almeno in parte, al criterio dei “tagli lineari”.

Diverse spese sono state invece aumentate e non di poco: si pensi alle centinaia di milioni che saranno necessari per effettuare una ennesima salvaguardia (le settima) degli “esodati”, alla proroga dell’”opzione donna”, ai 600 milioni nel 2016 e al miliardo nel 2017 per la lotta alla povertà, ai 90 milioni per il sostegno alle persone con disabilità grave, ai 150 milioni per i non autosufficienti. Si tratta di interventi che anche dal punto di vista quantitativo segnano un punto a favore del Governo  

che ha caratterizzato la manovra anche in senso redistributivo.

Non si dimentichi infine che la cosiddetta flessibilità per l’immigrazione e la sicurezza, che cifra un ulteriore 0.2 di PIL, è stata utilizzata per ulteriori spese.

Anche se non mancano interventi per acquisire consenso immediato (500 euro ai giovani, 80 euro alle forze dell’ordine, ecc.) la manovra nel suo complesso è giustamente impostata su un orizzonte di medio periodo. 

Si deve riconoscere che non si poteva fare di più in termini di sostegno macroeconomico della nostra economia. Al punto tale che non si escludono giudizi, almeno in parte, severi da parte della Commissione Europea quando dovrà esprimersi nei prossimi mesi. A quel punto i pericoli per il Governo verranno da due fronti. Uno è appunto quello dei giudizi che saranno espressi dalla Commissione. La posizione attuale del nostro Governo non sembra quella di facile arrendevolezza di fronte alle misure correttive che verranno decise a Bruxelles. Si preannuncia un non facile “braccio di ferro”.

Il secondo fronte, strettamente legato al primo, è quello della ripresa economica che effettivamente si realizzerà quest’anno. Non vi è dubbio che se si realizzerà e persino si sorpasserà l’aumento del Pil dell’1.6 per cento previsto dal Governo, il piano di rientro dei conti pubblici nel triennio 2016-2018 sarà credibile e anche il confronto con la Commissione Europea potrà avvenire in un clima meno conflittuale. E soprattutto sarà meno complicato preparare la futura manovra per il 2017. la quale, si ricordi avverrà in un periodo che si avvicinerà a quello degli appuntamenti elettorali nazionali. 

Il ciclo economico comincerà a coincidere con il ciclo politico elettorale e sarà importante arrivare a quelle scadenze in condizioni tranquille soprattutto sul piano economico.

Ma come sarà il 2016? Ormai quasi tutti condividono l’opinione che l’economia quest’anno sarà certamente condizionata favorevolmente dalla Legge di Stabilità, ma risentirà anche delle condizioni esterne che si preannunciano non del tutto favorevoli, per i noti motivi che vanno dalla Cina alle tensioni politiche nel medio oriente, all’inflazione che non riparte, alle sofferenze del sistema bancario, ecc.

Insomma, non tutto può essere sotto il controllo del Governo, ma l’andamento della crescita e dell’occupazione, qualunque siano i fattori da cui dipende, peseranno certamente sulle difficoltà e sulle opportunità che il Governo si troverà di fronte nel 2016.

 

  (*) Economista e politico, già sottosegretario al Ministero del Lavoro

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