A che cosa pensavamo quando (prima in pochi, poi in troppi) auspicavamo il passaggio dal Welfare State alla Welfare Society? Qualcuno, lo sappiamo, pensava solo a risparmiare: tagli lineari per alleggerire i conti pubblici, e società intesa (secondo la celebre battuta della Thatcher) come mero insieme di individui regolato dalla legge del Far West. Ma chi invece aveva percepito per tempo l’incipiente scollamento fra composizione sociale del paese ed istituti del Welfare tradizionale? Molti (troppi) pensavano (e pensano) al paese di Bengodi: salvaguardia delle tutele tradizionali e contestuale rivendicazione di ulteriori benefit (per intenderci, no alla legge Fornero e sì al reddito di cittadinanza per tutti). Altri (pochi) puntavano (e puntano) ad un ridisegno del Welfare più attento alle domande individuali che a quelle collettive, e conseguentemente a procedure bottom up con le quali sostituire quelle top down della tradizione. Trovandoci ad essere (purtroppo) fra i pochi, non possiamo non apprezzare alcuni aspetti della legge di stabilità. Innanzitutto, ovviamente, l’ispirazione generale orientata alla flessibilità, ancorchè limitata nei suoi effetti da vincoli europei che mai come ora possiamo definire “stupidi”. Ma anche alcune scelte di merito: per esempio, la riduzione dell’imposizione fiscale sulla casa; il sussidio per i consumi culturali di giovani e docenti; il rifinanziamento degli incentivi per l’occupazione previsti dal Jobs Act. Sono scelte sospettate di “populismo” non solo dalle opposizioni, ma anche da buona parte della constituency sociale del partito di maggioranza: si indirizzano infatti agli individui e non alle categorie organizzate, e per giunta non si collocano in qualche logica di programmazione. Se a questo si aggiunge il dubbio (non del tutto infondato) che esse abbiano a che fare con qualcosa di simile alla fattispecie del voto di scambio, la polemica può diventare anche più accesa. Invece sono scelte riformiste. Meglio, “neoriformiste”: in quanto stimolano e sostengono l’iniziativa degli individui, attrezzandoli ad agire senza troppi handicap in un contesto, quello del mercato, che nessuna retorica sui “beni comuni” e nessuna “teoria dei diritti” riuscirà facilmente a superare. Ma sono scelte che esigono una consapevolezza (in chi le opera, ma anche in chi ne è destinatario) che allo stato non si è in grado di constatare. L’azione del governo sembra essere più efficace nella pars destruens che non nella pars construens: infatti al Jobs Act non fanno seguito le necessarie innovazioni nell’ambito delle relazioni industriali; la riforma della scuola rischia di ridursi ad un’infornata di precari; le opportune misure di integrazione del reddito per i consumi culturali non sempre trovano riscontro adeguato su lato dell’offerta, tuttora impastoiata da barocche burocrazie; gli interventi di risanamento dal sistema del credito incontrano più facilmente le proteste dei microspeculatori che non il sostegno dei normali risparmiatori: e si potrebbe proseguire. Si potrebbe inoltre osservare che neanche per il neoriformismo l’intervento statale nell’economia e la politica industriale sono delle parolacce. Magari non sarà vero che perfino a Davos “tutti sono socialisti senza saperlo”, come ha scritto Federico Fubini sul Corriere del 24 gennaio: ma nessuno troverebbe sconvenienti massicci interventi statali non solo per la tutela del territorio ed il miglioramento delle infrastrutture, ma anche per il riordino di comparti strategici (come per esempio quello siderurgico). Sempre meglio, comunque, dei piagnistei sulla scarsità di risorse per il Mezzogiorno ed i tagli alla Sanità. E pazienza se con l’abolizione dell’Imu i ricchi non piangono: l’idea di usare la politica fiscale come strumento di ingegneria sociale non è all’ordine del giorno delle cose possibili, come da ultimo ha dimostrato Guido Baglioni nel commentare le tesi di Piketty nel numero di ottobre di Mondoperaio. La società italiana, tuttavia, fa fatica ad uscire dal carapace corporativo in cui si è rinchiusa fin dagli anni ’70, e d’altra parte oggi manca chi svolga quella funzione di acculturazione politica che bene o male allora ancora svolgevano i partiti: tanto che oggi torna all’ordine del giorno la necessità di passare dal dominio della “partitocrazia senza partiti” che ha caratterizzato la seconda Repubblica alla promozione di partiti senza partitocrazia che dovranno animare la Repubblica che verrà. Ma questo è un altro discorso. Più urgenti invece sembrano iniziative volte ad adeguare le istituzioni della società civile al nuovo corso “liberale”: che postula la responsabilizzazione degli individui ma non prescrive l’individualismo, e che però non regge di fronte ad una tenace resistenza quale è quella che quasi inerzialmente esprimono le tradizionali rappresentanze di interessi. Queste ultime si legittimano con la retorica dei “diritti”, che peraltro, collocata com’è in un contesto culturale che non ha rinunciato né al mito di Prometeo nè al finalismo marxista, tende a dilatarsi senza limiti: prescindendo non solo dalle compatibilità economiche, ma spesso anche da quelle antropologiche (come di recente ha osservato un filosofo non sospettabile di nostalgie reazionarie come Remo Bodei). Paradossalmente infatti, mentre si assiste (oggi con la scusa della lotta al terrorismo, ieri con quella della lotta alla corruzione) al deperimento dello Stato di diritto, si immagina una “società dei diritti” che si sviluppi in una logica incrementale (un diritto tira l’altro) e non faccia mai i conti né con le compatibilità economiche né con quelle istituzionali Non resta quindi che arrendersi al già citato teorema della Thatcher, per la quale esistevano solo gli individui e non la società? Niente affatto. La verità e che in alternativa alla “teoria dei diritti” andrebbe sviluppata una “teoria delle opportunità” che preveda anche la promozione di forme di canalizzazione della domanda sociale meno burocratiche di quelle istituzionalizzate all’epoca del tradizionale Welfare State e più adatte alla Welfare Society che bene o male si va affermando: fermo restando che proprio la Welfare Society postula l’organizzazione della partecipazione politica attraverso qualcosa di simile ai partiti di novecentesca memoria, se non si vuole delegare – come ho già scritto altrove – il dibattito pubblico ai meet up, il potere legislativo ai flash mob e quello esecutivo alla Casaleggio&Associati. D’altra parte, a giudicare dalla fotografia della delegazione sindacale che si è seduta al tavolo per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici (quella di circa trecento persone che Dario Di Vico ha pubblicato sul Corriere del 20 gennaio), si può temere che ormai anche le relazioni industriali siano di pertinenza dei flash mob: a testimonianza che chi con accuse di populismo ferisce di populismo realizzato perisce; e che per il sindacato è tempo di rinnovarsi radicalmente sia nelle politiche che nelle strutture organizzative. Il ruolo del sindacato, infatti, non è di quelli destinati ad estinguersi col tramonto del Welfare State. Resta invece essenziale come autorità contrattuale capace di negoziare retribuzioni ed organizzazione del lavoro tali da arricchire una Welfare Society che si nutre innanzitutto del protagonismo dei lavoratori. Ma anche questo è un altro discorso.
(*) Politico e giornalista, più volte parlamentare, direttore di MONDOPERAIO