Con la Conferenza Habitat III, in programma per il 2016, le Nazioni Unite chiederanno ai leader mondiali, in coerenza con gli “Sustainable Development Goals” approvati a settembre 2015, di rivedere l’agenda sugli insediamenti umani al fine di promuovere un nuovo modello di sviluppo urbano, capace di integrare tutti gli aspetti della sostenibilità, promuovere l’equità, il benessere e la prosperità condivisa in un mondo sempre più urbanizzato.
L’urgenza di un rinnovato e deciso impegno globale per politiche urbane sostenibili secondo le NU è dettato dai fatti.
Nel 2007, per la prima volta nella storia, la popolazione urbana mondiale ha superato la popolazione rurale mondiale. Nel 1950 più di due terzi (70%) di persone in tutto il mondo vivevano in insediamenti rurali e meno di un terzo (30%) in insediamenti urbani. Nel 2014 la popolazione urbana ha raggiunto i 3.900 milioni, pari al 54% della popolazione mondiale. Questo dato è destinato a crescere ulteriormente: si prevede che entro il 2050 il mondo sarà per un terzo rurale (34%), per due terzi urbano (66%), più o meno il contrario della distribuzione globale della popolazione rurale e urbana della metà del XX secolo.
Oggi, quasi la metà degli abitanti della terra risiede in insediamenti relativamente piccoli, con meno di 500.000 abitanti, mentre quasi uno su otto vive in una delle 28 megalopoli con più di 10 milioni di abitanti. Dal 1990 il numero di megalopoli è quasi triplicato e si prevede che nel 2030 ben 41 agglomerati urbani saranno destinati ad ospitare almeno 10 milioni di abitanti ciascuno. A differenza di solo alcuni decenni fa, in cui la maggior parte dei più grandi agglomerati urbani del mondo si trovava nelle regioni più sviluppate, oggi si concentrano nel Sud del mondo e gli agglomerati a più rapida crescita sono quelli di medie dimensioni, con 500.000 e fino a 1 milione di abitanti, situati in Asia e in Africa.
Ma che cosa spinge la popolazione a trasferirsi nelle città o nelle immediate vicinanze di esse?
Le ragioni sono numerose e non sono nuove. Nei paesi ancora arretrati la ricerca di migliori condizioni di vita e di reddito, che in non pochi casi significa fuga dalla fame. Nei paesi ad economia avanzata la spinta alla urbanizzazione è la progressiva sostituzione del lavoro agricolo con le macchine. In tutti i casi la speranza di maggiori opportunità di formazione e di ascesa sociale per se stessi e soprattutto per la prole, di livelli più elevati di consumi, di maggiori comodità, più divertimento, vita sociale più intensa. Oggi nei paesi sottosviluppati anche le baraccopoli poste ai margini delle città offrono maggiori vantaggi rispetto alle arretrate campagne. Così le masse rurali continuano ad affluire in città, pur sapendo che pochi troveranno lavoro e molti saranno gli esclusi e gli emarginati.
Questa ricerca di condizioni di vita più umane spesso si intreccia in modo inestricabile con l’aspirazione ad una maggiore sicurezza a causa dei numerosi scenari di guerra e, in non pochi casi, con ragioni per cause ambientali (siccità, carestie, alluvioni).
In estrema sintesi le città sono viste come una naturale via di uscita da condizioni di povertà e insicurezza in quanto la vita urbana favorisce livelli più alti di alfabetizzazione e di educazione, migliori condizioni di assistenza sanitaria e di accesso ai servizi sociali e maggiori opportunità di partecipazione culturale e politica.
Tuttavia, la crescita urbana se avviene in modo caotico, se non governata con intelligenza e lungimiranza, se non viene tutelato l’ambiente in cui le città sorgono, se non si realizzano le infrastrutture materiali e immateriali necessarie o se non vengono attuate politiche che garantiscano che i benefici della vita cittadina siano equamente condivisi, il rischio è di vanificare gli enormi prezzi sociali pagati con l’abbandono della campagna.
Oggi, infatti, nonostante i vantaggi offerti dalle città siano in teoria indubbiamente maggiori, le aree urbane sono più diseguali rispetto a quelle rurali e milioni di poveri “urbanizzati” vivono in condizioni molto al di sotto degli standard. In alcune città, la rapida espansione urbana non pianificata o inadeguata ha portato con sé inquinamento, degrado ambientale e produzione di consumi insostenibili. Si stima che le megalopoli in tutto il mondo (città con oltre 10 milioni di abitanti) consumano il 75% delle risorse energetiche e naturali del pianeta, generando l’80% delle emissioni di gas serra a livello globale.
Quali le strategie per intervenire in questo complesso scenario che sta diventando sempre più insostenibile? Indubbiamente la strada da seguire è quella di perseguire con coerenza e perseveranza l’insieme dei 17 Sustainable Development Goals ratificati dalle NU per il 2030.
Per le città l’obiettivo 11 riassume le priorità per il 2030. In sintesi le cose da fare indicate dalle NU sono: eliminare le baraccopoli, garantendo l’accesso ad abitazioni adeguate, sicure, a prezzi accessibili dotate dei servizi di base; fornire l’accesso ai sistemi di trasporto, in particolare pubblici, sicuri, accessibili e sostenibili, migliorando la sicurezza stradale, con particolare attenzione a donne, bambini, alle persone con disabilità e gli anziani; garantire una pianificazione degli insediamenti umani partecipata, integrata e sostenibile; proteggere e salvaguardare il patrimonio culturale e naturale; ridurre il numero di morti, di persone colpite, le perdite economiche causate da calamità naturali; ridurre l’impatto ambientale della città, con particolare attenzione alla qualità dell’aria e alla gestione dei rifiuti; garantire l’accesso universale alla sicurezza sanitaria, al verde e a spazi pubblici, in particolare per donne e bambini, persone anziane e persone con disabilità; sviluppare sinergie positive tra aree urbane, peri-urbane e rurali rafforzando la pianificazione dello sviluppo nazionale e regionale; adottare e attuare politiche a favore della ‘efficienza delle risorse, la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici, rafforzando la capacità di resilienza alle catastrofi
Raggiungere questi obiettivi per il 2030 non sarà cosa semplice: la garanzia sta nella capacità di innalzare il livello di “intelligenza” delle città al fine di accrescere le condizioni di benessere utilizzando sempre meno risorse naturali. Questo significa ripensare la città, i suoi flussi interni, di uomini e merci, rendere l’area urbana più accessibile, aperta, inclusiva, pulita, a misura d’uomo. Significa favorire la trasformazione dei centri urbani verso le smart city, per affrontare le criticità delineate attraverso l’efficienza energetica, il ricorso alle fonti energetiche rinnovabili, l’ottimizzazione dei consumi, il taglio delle emissioni inquinanti di ogni tipo e l’uso di smart technologies. Significa rifondare il ciclo urbano su rigenerazione, riciclo e recupero di materiali di scarto. Tutte parole d’ordine che nei prossimi anni non dovranno più mancare nei programmi governativi locali e nazionali.
Come ci insegnano le esperienze già in corso cinque sono i driver da assumere a riferimento per la trasformazione sostenibile delle città.
La sostenibilità: promuovendo comportamenti virtuosi tra i cittadini ed utilizzando il giusto mix di tecnologie è possibile impostare una crescita sostenibile delle città. Molte smart city, soprattutto europee e nordamericane, stanno da tempo investendo in smart mobility: auto elettriche, trasporti pubblici locali (alimentati a combustibili a basso impatto ambientale e da motori elettrici), bicicletta, car pooling, aree pedonali. A cui si deve aggiungere la smart energy, con le smart grid e i contatori intelligenti per ottimizzare i consumi energetici, ridurre le emissioni di CO2 ed eliminare gli sprechi.
La connettività: moltissime smart city in tutto il mondo vedranno aumentare notevolmente il livello di connettività complessivo. Grazie all’innovazione nella pianificazione urbana tale funzione sarà possibile integrarla negli edifici (smart buildings), nelle case (smart home), negli uffici, nei mezzi di trasporto (biciclette comprese), facendo in modo che lavoro, studio, intrattenimento e comunicazione interpersonale siano sempre possibili in ogni momento e luogo.
La pianificazione: ogni elemento in città dovrà essere pianificato e pianificabile. Non per irrigidire il paesaggio, ma per renderlo più armonico e funzionale alla migliore qualità della vita. Big data, open data, internet delle cose e app economy assicureranno una gestione delle attività quotidiane più semplice, economica e sostenibile. Anche l’innovazione sociale e le smart community potranno trarre vantaggio da tale tipo di attitudine: pianificare oggi i servizi di cui si ha bisogno (pubblici, privati, commerciali, turistici, culturali, per l’intrattenimento e il turista) nel momento in cui si immagina la città di domani.
La Sharing Economy: le piattaforme per la sharing economy applicate ai più diversi settori economici e sociali saranno le tecnologie su cui si dovrà fare affidamento. Questo perché è nella natura delle smart city partecipare, collaborare e condividere. Dati, esperienze, informazioni, best practice, case studies, tutto è utile nello sviluppare ed offrire servizi di nuova generazione a cittadini e imprese.
La Collaboration Economy: l’economia collaborativa è un mondo molto ampio di cui fanno parte le piattaforme digitali che mettono direttamente in contatto le persone ma anche il cohousing, il coworking, l’open source, le social street, fenomeni che al loro interno mostrano sfaccettature molto diverse pur promuovendo, tutte, forme di collaborazione fra pari (peer economy).
Indubbiamente si tratta di una vera e propria rivoluzione dei modelli di produzione e di consumo in cui verranno coinvolti direttamente nei loro interessi, piccoli e grandi, imprese, lavoratori, cittadini. Sottovalutarne le potenzialità e le implicazioni sarebbe un errore molto grave. Occorre, invece, essere consapevoli che la valutazione, preventiva e condivisa, delle implicazioni che comportano queste scelte ha un significato importantissimo sulla possibilità di attuarle con il massimo del consenso ed efficacia.
Infatti, è esperienza consolidata che le politiche sostenibili pur se condivise in via teorica dalla maggioranza dei cittadini, in quanto si propongono il miglioramento delle condizioni ambientali di vita, tuttavia, una volta che assumono il carattere concreto di specifici progetti, vanno ad impattare nel bene e nel male su interessi particolari, collettivi o individuali.
Un’analisi accorta di queste conseguenze fa capire che dalle politiche di sviluppo sostenibile alcuni settori produttivi, economici, sociali, ecc., ne verranno penalizzati mentre altri ne trarranno giovamento. Questo significa che alcuni interessi economici e sociali vedranno crescere le loro opportunità mentre altri si vedranno costretti a ridimensionare le loro aspettative. Lo stesso avviene a livello di territori, gruppi sociali, singoli individui. Come si può ben capire giova a poco, per quegli interessi economici, sociali, produttivi penalizzati qui ed ora, sentirsi dire che alla fine il bilancio sarà positivo per tutti. Saggezza vuole che le implicazioni derivanti dai programmi di trasformazione urbana e la conseguente trasformazione dei sistemi di produzione e di consumi siano preventivamente analizzati e valutati nelle loro diverse conseguenze al fine di definire il quadro delle iniziative politiche da assumere per sostenere positivamente anche i più riottosi. Questo può essere fatto solo con un confronto diretto e continuo dei soggetti economici, sociali e istituzionali coinvolti ai vari livelli.
Come si comprende da tutto questo emerge con chiarezza che la possibilità raggiungere gli obiettivi dello sviluppo sostenibile ratificati dalle NU richiede che si compiano degli sforzi per rendere più efficaci i modelli di governance fino ad oggi adottati. Non si tratta di misure sconvolgenti, ma di modifiche dettate dal buon senso.
Innanzitutto a livello internazionale occorre una più decisa assunzione di responsabilità politica. Oggi a monitorare i progressi compiuti in tutto il mondo spetta alla Commissione delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile (CSS). Tuttavia, la partecipazione nazionale ai lavori della CSS viene gestita principalmente dai ministri e dai dipartimenti dell’ambiente, i quali non dispongono dell’autorità singola o collettiva di decidere l’adozione di misure efficaci in campo economico e finanziario o in settori al di fuori delle loro competenze, nonostante l’importanza cruciale di tali misure per il progresso dello sviluppo sostenibile. Risolvere questo problema è possibile stabilendo un meccanismo più efficace all’interno del sistema ONU che riunisca ministri e dipartimenti dell’economia e della finanza (e altri ministeri se necessario) al fine di concordare politiche globali e programmi d’azione in materia di sostenibilità.
- A livello nazionale occorre infondere nuovo vigore nei meccanismi tesi a promuovere lo sviluppo sostenibile. È necessario che la responsabilità principale, in materia di promozione dello sviluppo sostenibile, sia chiaramente collocata nel governo e nei ministeri dell’Economia e delle finanze, con il sostegno adeguato del ministero dell’ambiente e degli altri ministeri. Occorre altresì rilanciare e aggiornare le strategie nazionali per lo sviluppo sostenibile garantendo il coinvolgimento e l’appoggio pieni delle imprese e di tutti i settori della società civile. Occorre parimenti dotare gli organi consultivi, quali i Consigli Nazionali per lo Sviluppo Sostenibile, di risorse adeguate affinché possano contribuire pienamente all’introduzione di nuove idee e a mantenere la pressione a favore del progresso. Da questo punto di vista l’Italia presenta più di un elemento di criticità in quanto è uno dei pochi paesi europei che non ha un Consiglio Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile e quindi è priva di un luogo in cui i vari soggetti sociali possano misurarsi in rapporto ai reciproci interesse. L’Italia, inoltre, è priva di una politica nazionale per le aree urbane.
- A livello regionale e locale, dove si concentrano competenze fondamentali, numerosi esempi illustrano gli ottimi risultati raggiunti in tutto il mondo. Tuttavia finora i passi avanti non sono uniformi. Per ottenere un progresso più diffuso si dovrebbe dare maggiore risalto e diffusione alle migliori pratiche, nonché incoraggiare le autorità nazionali a stabilire linee guida e obiettivi per i rispettivi enti regionali e locali e a sostenerli in questo impegno. In particolare è necessario incoraggiare l’adozione di strategie partecipative al fine di prevenire le ragioni di conflitto ambientale e sociale ed accrescere il consenso.
- Nelle aziende negli ultimi 20 anni sono stati compiuti notevoli miglioramenti orientati sempre di più verso la sostenibilità. Il progresso è tuttavia disomogeneo e le imprese continuano a essere condizionate dall’impegno predominante di massimizzazione dei profitti. Sulla base degli esempi migliori si può considerare che sia giunto il momento di rendere obbligatorie le migliori pratiche commerciali in materia di sostenibilità applicandole in un campo più vasto, creando una convenzione quadro sulla responsabilità delle imprese in materia di sostenibilità urbana.
- Nei luoghi di lavoro nel processo di transizione allo sviluppo sostenibile spesso i lavoratori sono esposti al ricatto ambiente lavoro. Per impedire che questo ricatto induca i lavoratori su posizioni conservative in difesa di modelli produttivi inquinanti è indispensabile che le organizzazioni sindacali, adeguatamente sostenute dalle istituzioni, si impegnino per affermare che la sostenibilità è un obiettivo che si può raggiungere nel tempo attraverso il governo condiviso del processo di transizione. In particolare, tenuto conto che saranno milioni i lavoratori coinvolto dalla transizione alla sostenibilità urbana, è prioritario prestare una rinnovata attenzione ai programmi educativi e formativi per agevolare una partecipazione attiva ad un mercato del lavoro dai profili professionali profondamente trasformati. Per questo è indispensabile conquistare, contrattando, le “agende della transizione alla sostenibilità” nelle singole realtà che indichino settori di intervento, interventi prioritari, risorse, tempi e sedi di confronto. Per fare questo, ancora una volta, il dialogo sociale, pilastro della cultura europea, è sicuramente la carta vincente.
(*) Forum per la promozione dello sviluppo sostenibile