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Lo Smart Working è un cambiamento di mentalità

Ecco il Jobs Act dei nuovi lavori, aveva titolato Il Sole24Ore all’indomani del Consiglio dei ministri n. 102/2016 del 28 gennaio 2016 che aveva approvato il Disegno di Legge n. 2233.  Il documento contiene, da un lato, nuove misure per la tutela del lavoro autonomo e, dall’altro, la promozione del cosiddetto smart working, l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato. Presentato l’8 febbraio successivo è in stato di relazione presso la Commissione “Lavoro, previdenza sociale del Senato”. 

Concentriamoci sulla seconda parte del provvedimento, sul cosiddetto smart working o, meglio, il “lavoro agile”. Con questa formula ( l’Accademia della Crusca ha invitato a tradurre dall’inglese lo smart working, per indicare la prestazione di lavoro subordinato che può essere eseguita fuori dall’azienda o in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno: a casa, ma anche in un parco o in un coworking). Nei documenti ufficiali ci si riferisce a una modalità flessibile di svolgimento del lavoro subordinato svolto fuori le mura, “entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale”, che agevolerebbe la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, ridurrebbe i costi aziendali e ambientali (pensiamo all’affollamento dei trasporti pubblici, ai problemi di traffico ecc.) e incrementerebbe la produttività del lavoro. A tutela dei lavoratori agili, il disegno di legge in discussione riconosce diritti identici al lavoro subordinato tradizionale su tutti i fronti: stessa retribuzione per i lavoratori che svolgono le medesime mansioni all’interno dell’azienda; stessi incentivi di carattere fiscale e contributivo eventualmente riconosciuti in relazione agli incrementi di produttività ed efficienza; garanzia del rispetto delle norme in materia di salute e sicurezza. 

In attesa del testo definitivo possiamo affermare che con questo atto si legifera in materia di rivoluzione digitale nella on-demand economy, la “quarta rivoluzione industriale”. Si tratta di quella che Sangeet Paul Choudary, analista, influencer e imprenditore dell’economia 4.0, ha celebrato nel best seller Platform Revolution. Come spiega Choudary, nell’economia basata su internet e piattaforme bisognerà cambiare abitudini e modi di pensare al lavoro, perché “siamo stati abituati a ragionare secondo uno schema che prevede che una cosa venga creata allo scopo di essere venduta a una persona seguendo un percorso di commercio in linea retta. Invece, se pensiamo alle nuove forme di economia, vediamo che ormai parliamo appunto di piattaforme che consentono di creare un network, una rete, nella quale non ci si muove più solo da una direziona a un’altra, ma dove tutti si relazionano con tutti”. Così spiega ad Alvise Losi, che lo ha intervistato a Milano e ne ha fatto un articolo dal titolo inquietante: Presto saremo tutti lavoratori disoccupati

Lavoratori o disoccupati? Lavoratori e disoccupati. Qui, probabilmente, sta il punto. 

L’utilizzo delle piattaforme di co-creazione di valore ha rivoluzionato la competizione sui mercati. Le aziende non producono quasi nulla, se non tecnologie che permettono l’interazione per la co-creazione intensiva di valore. Gli esempi più noti sono AirBnb, Amazon, Handy o Uber. Per molti analisti come Choudary, questi colossi multinazionali rappresentano la soluzione per una nuova crescita inclusiva, condivisa e accessibile. Ma forse i “signori del silicio” della Silicon Valley, come li chiama Evgeny Morozov, rappresentano una nuova frontiera dell’accentramento del potere economico che tinge di “agilità” (smart!) un lavoro che rischia di far scivolare ulteriormente, esasperandola, la flessibilità in precarietà.

Perché, è ovvio, la rivoluzione non coinvolge solo le organizzazioni, ma genera un cambiamento nel lavoro del futuro in cui, spiega ancora l’indiano Choudary, “bisognerà studiare per meno tempo ma più volte, pronti a cambiare mestiere di continuo”. E allora eccoci a immaginare ancora persone che alternano lavoretti, prestazioni occasionali e altre attività più o meno informali in un gigantesco centro per l’impiego globale che sta diventando la rete. Ed è altrettanto difficile per le politiche del lavoro, inquadrare giuridicamente queste forme del lavoro, ma anche di piccola impresa personale, e “trovare un modo univoco per bilanciare libertà e sicurezza, autodeterminazione individuale e tutele sociali, autonomia e garanzie, diritti sociali e doveri solidaristici”. Così scrive Giuseppe Allegri, riflettendo sui problemi che si pongono nel nuovo contesto definito dalle tecnologie e dal mutamento delle forme di lavoro e di impresa.

Parlando di diritti, non si può non considerare il tema della rappresentanza. La dispersione della forza lavoro agile può trasformarsi inevitabilmente in un ostacolo insormontabile prima ancora che per l’azione collettiva, anche per la semplice condivisione comunicativa di condizioni di sfruttamento e per la costruzione di reti e solidarietà di pari. 

Chi rappresenta gli autisti di Uber o le domestiche di Handy?

Una importante iniziativa in tal senso è TurkerNation.com, che riunisce i cosiddetti Turkers, i lavoratori di Amazon Mechanical Turk (mTurk) impegnati nel crowd work. Si tratta, semplificando molto, di coloro che svolgono le centinaia di micro compiti che i computer non sono in grado di fare in autonomia: taggare una singola foto da un migliaio fatte in vacanza, controllare gli errori di battitura in un romanzo, identificare gli artisti in un cd musicale, le migliori fotografie di un negozio, la scrittura delle descrizioni di un prodotto. Amazon li riunisce in un unico calderone dove i programmatori informatici (requester) pescano lavoratori (providers, o Turker) per svolgere micro mansioni ripetitive a un compenso deciso dai requester. “È un ritorno alla catena di montaggio con demansionamento, alla sorveglianza e orari di lavoro senza regole, poiché i lavoratori sono considerati freelancers anziché impiegati. Non godono dei benefici determinati dalla legge sul lavoro. Nessuna restrizione sulle ore, sul salario minimo, sulla tredicesima o la quattordicesima, nessuna assicurazione sulla salute, nessuna tutela su discriminazione o licenziamenti ingiusti”. Così scrive Kristy Milland in “Crowd Work: The Fury and the Fear”, nel volume Digital employment and working conditions in Europe.

Già, perché il crowd work non è limitato al Nordamerica, o a quei Paesi a reddito medio assai basso, dove le piattaforme pescano manodopera pagandola tra i 2 e i 40 dollari al giorno o anche con buoni regalo. Ci sono migliaia di europei che già lavorano su mTurk o piattaforme simili. Ma altri 500 mila lavorano per Clickworker, la piattaforma tedesca, e chissà quanto in altre piattaforme come 99Designs, Testbirds, Crowdflower e Crowdsource. Non lo sapremo mai, forse, perché questi siti non rilasciano numeri demografici, non possiamo sapere quanti dei nostri vicini di casa siano lavoratori crowd worker full time.

“Sembra rievocare le vecchie città minerarie”, ricorda Milland. Al posto delle facce nere e delle mani dure ci sono tastiere e postazioni di lavoro disseminate ovunque. Ma il senso non cambia. Conclude Milland: “Dobbiamo fare richiesta ai nostri governi di proteggere tutti i lavoratori, non solo quelli che hanno la sicurezza del lavoro grazie alle leggi passate. Dobbiamo fare pressione alle aziende per ottenere trasparenza verso la propria forza lavoro e rispettare i cambiamenti che consentono ai lavoratori di organizzarsi. In ultimo, dobbiamo ascoltare i lavoratori per capire meglio la loro situazione e come possiamo offrire loro tutto il supporto necessario per essere auto sufficienti”. In una parola: sindacato.

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